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Seconda «analogia dell’esperienza» e uso trascendentale della categoria causale

CARATTERE E AZIONE

4. Seconda «analogia dell’esperienza» e uso trascendentale della categoria causale

Risulta dalla deduzione trascendentale delle categorie che qualcosa può costituire per noi un oggetto della conoscenza a condizione che un molteplice dell’intuizione spazio- temporale sia ultimamente ricondotto sotto i concetti puri dell’intelletto (cf. B165) in un giudizio determinante (cf. A132/B171). Nel riferire le categorie all’esperienza

41 Sulla costituzione della spontaneità del pensiero in rapporto alla recettività della sensibilità, tramite

le categorie e sulla tensione tra soggetto trascendentale e oggetto trascendentale, cf. I. HEIDEMANN, Spon- taneität und Zeitlichkeit, 69-170.

(cf. B166), il testo sembra presupporre che le percezioni spazio-temporali si presentino alla coscienza in maniera in qualche modo conforme alle funzioni del giudizio. Come sia possibile che le categorie si applichino ai contenuti della sensibilità, sotto quali crite- ri cioè ciò si rende possibile, viene definito tramite principi trascendentali dell’intelletto (cf. A148/B188), nella dottrina dello schematismo trascendentale (cf. in particolare A137-47/B176-87), che insieme alla deduzione trascendentale costituisce uno dei capi- toli più controversi della filosofia critica. Tramite lo schematismo, Kant esplicita ciò che egli intende, in senso trascendentale, con il concetto di «natura»: in questo senso, si potrebbe dire che nella seconda parte dell’Analitica trascendentale egli eriga una co- smologia filosofica sui generis43. Se è vero che le antinomie, e particolarmente la terza, abbiano anch’esse una pretesa cosmologica, descrivendo alcuni sviluppi dell’idea di «mondo», è chiaro che il termine di riferimento per la risoluzione dell’antinomia, e l’ultima parte del presente capitolo, devono affrontare la questione dello schematismo, e particolarmente la seconda analogia dell’esperienza.

Il concetto di «analogia» esprime, in generale, l’essenza dei principi trascendentali dell’intelletto, nella misura in cui ciascuno schema mostra una parziale omogeneità e una parziale disarmonia tra le categorie e il molteplice dell’intuizione spazio-temporale (cf. A138-9/B177-8) e svolge in questo senso un ruolo di mediazione. Più propriamente invece, ed è l’analogia in senso «filosofico» in quanto distinta dall’analogia in senso «matematico» (cf. A179-80/B222-3), il termine designa il ruolo di quei principi che normano l’applicazione delle categorie relazionali e modali, ovvero che regolano – in questo senso Kant definisce tali principi «regolativi» (cf. A178-80/B221-3) la relazione

tra le percezioni e delle percezioni alla realtà44.

La dimostrazione della seconda analogia dell’esperienza occupa ben ventitré pagine, in confronto alle otto dedicate alla prima e alle cinque dedicate alla terza: questo dato, insieme alla preminenza della nozione causale entro il testo delle analogie dell’esperienza e quello dell’antinomia, potrebbe certamente essere ricondotto alla «funzione decisiva del problema della causalità entro la crisi della metafisica»45 tedesca, a condizione di porre l’accento sulla seconda parte della citazione oltre che sulla prima, in altri termini, di comprendere che l’attenzione dell’autore nei confronti di questo tema poteva dipendere non solo dalle incombenze imposte dal dibattito a lui contemporaneo, ma anche da un’autentica preoccupazione metafisica e dalla contestualizzazione del

43 Cf. M. PUECH, Kant et la causalité, 378. Puech parla in entrambi i casi di «mondo», riferendosi al

primo come «objectivité du monde» o «monde physique». Cf. inoltre ivi, 458-66.

44 In breve, gli «assiomi dell’intuizione» e le «anticipazioni della percezione» normano l’applicazione

delle categorie «matematiche» (B110): i primi prescrivono che esso possieda un’estensione, per poter es- sere considerato quantitativamente (A162/B202 e ss.) e le seconde prescrivono che esso possieda un’intensità, per poter essere considerato qualitativamente (A166/B207 e ss.). I primi due principi sono sufficienti a garantire che un molteplice dell’intuizione costituisca per noi un oggetto (cf. A178-9/B221). Non garantiscono però che oggetti possano stare in una relazione temporale oggettiva, fra loro e rispetto alla realtà effettuale producendo così un’esperienza: a questo servono le categorie dinamiche (B110). Co- sì le «analogie dell’esperienza» prescrivono che le percezioni configurino una relazione di inerenza e sus- sistenza, causalità e dipendenza, comunanza affinché si possa fare l’esperienza di una relazione temporale oggettiva di durata, successione e simultaneità (A176/B218 e ss.) mentre i «postulati del pensiero empiri- co» che qualcosa si accordi in un certo modo alle condizioni dell’esperienza, al fine di stabilire la sua possibilità, realtà o necessità (cf. A218/B265 e ss.). Sul ruolo dell’analogia nella prima parte della Logica trascendentale, cf. J. CALLANAN «Kant on analogies», 747–772.

problema causale entro le coordinate di «azione», «forza» e «sostanza» stabilite dalla scuola metafisica tedesca. Questa tesi si chiarirà in quanto segue.

L’argomentazione della seconda analogia dell’esperienza è modellata, come quella delle altre due, sullo schema presentato alle pagine B218-1946. Il punto di partenza, che solo a fatica emerge dalla trattazione, è la costatazione che siamo in grado di distinguere una successione oggettiva di fenomeni (la percezione di una successione) da una mera- mente soggettiva (una successione di percezioni). L’esempio fornito dall’autore è l’esperienza di una nave che scende lungo un fiume (cf. A192/B237) contrapposta alle percezioni successive delle parti di una casa (cf. A190/B235). Per effetto della «rivolu- zione copernicana» kantiana, la domanda «se il molteplice di questa casa sia successivo anche in se stesso» (cf. A190/B236, corsivo mio) si traduce nella questione «in che mo-

do il molteplice possa essere congiunto nel fenomeno stesso» (cf. A191/B236, corsivo

mio). «In se stesso» e «il fenomeno stesso» si riferiscono qui al fenomeno in quanto fe- nomeno, ovvero all’unità oggettiva di un molteplice dell’intuizione in quanto distinta da un’unità meramente soggettiva (cf. B139-40). Per Kant, quest’ultima questione equiva- le a domandare «una regola che lo [il fenomeno] distingua da ogni altra apprensione, e

renda necessario un modo di congiunzione del molteplice» (A191/B236)47.

L’altra premessa, esplicitata solo in parte, riguarda la natura del tempo e dipende di- rettamente dai risultati dell’Estetica Trascendentale. Quale «forma del senso interno» (A33/B49) esso «possiede una validità oggettiva soltanto in riferimento ai fenomeni» (A34/B51), di conseguenza «non può essere percepito in sé stesso, né è possibile riferir- si ad esso per determinare, per così dire empiricamente, ciò che nell’oggetto precede e ciò che segue» (B233). In altri termini, non percepiamo mai il tempo ma sempre feno- meni nel tempo. D’altra parte, «ogni determinata grandezza di tempo è possibile solo per mezzo di una limitazione di quell’unico tempo che sta a suo fondamento» (A32/B47-8), con la quale dichiarazione Kant sembrerebbe indicare che ogni intuizione materiale particolare nel tempo presuppone un’intuizione formale del tempo in generale. Si tratta di un’intuizione «data» (A32/B48): quest’ultima, insieme all’unità originaria dello spazio, costituisce il correlato della funzione unificatrice dell’appercezione (cf. B160-1 e nota). L’ordine del tempo non è dato, sebbene le percezioni ci siano sempre date nel tempo. Nel produrre una percezione, tramite gli assiomi dell’intuizione e le an- ticipazioni della percezione, la sintesi dell’apprensione si riferisce al concetto a priori di un oggetto in generale espresso dalle categorie della quantità e della qualità (cf. B219). Nel passare dalla «percezione» all’«esperienza», tramite le analogie dell’esperienza e i postulati del pensiero empirico, la sintesi dell’immaginazione si regola sul concetto a priori del tempo in generale (cf. B219). Sotto questo rispetto, perché una percezione

46 Per questa ricostruzione, mi sono avvalsa soprattutto di G. BIRD, The revolutionary Kant, 455-72 e

H. E. ALLISON, Kant’s transcendental idealism, 246-60.

47 Differisco dalla traduzione italiana ufficiale, che procede così: «una regola che la distingua da ogni

altra apprensione, e renda necessaria un modo di congiunzione del molteplice». Posta la domanda in que- sti termini, si chiarisce che il problema trascendentale non è quello di stabilire le condizioni ontologiche sotto le quali gli eventi richiedano una connessione causale universale e necessaria (indipendentemente dalle condizioni della nostra conoscenza della natura) né quello di stabilire le condizioni psicologiche del passaggio da un ordine meramente soggettivo a uno oggettivo (poiché Kant ammette per ipotesi che ciò sia possibile).

possa definirsi tale non è richiesto di distinguere tra una unità meramente soggettiva e una oggettiva: lo è, invece, affinché si possa passare dalla percezione all’esperienza48.

Alla luce di quanto detto, l’esperienza di una successione temporale oggettiva richie- de (a) «una percezione che segue ad un’altra» (A192/B237) e (b) che «l’ordine nella successione delle percezioni nell’apprensione venga determinato» (A192/B237). L’ordine pertiene qui il processo di unificazione delle percezioni da parte dell’intelletto, non le percezioni stesse: la determinatezza o irreversibilità implica che, se percepissimo un altro ordine, staremmo percependo un altro evento. Si tratta cioè di una determina- zione formale e normativa, non causale e materiale. Il secondo requisito implica (b1) che

«l’apprensione di un qualcosa (che accade) segue secondo una regola l’apprensione di qualcos’altro (che precede)» (A193/B238). Questa regola costituisce lo schema trascen- dentale per l’applicazione al molteplice di un’intuizione spazio-temporale della catego- ria causale (cf. B234), la cui funzione, descritta nel primo libro dell’Analitica trascen-

dentale, è precisamente quella di «una specie di sintesi, […] per cui sulla base di

qualcosa – A – si pone qualcosa di totalmente diverso – B – secondo una regola» (A90/B122) che «comporta il carattere della necessità, che nessuna esperienza può for- nire» (A112). Quella kantiana è stata definita per questo una «teoria causale»49 del tem- po. In altri termini, la dipendenza di un effetto [Wirkung] da una causa [Ursache] sulla base di una regola necessaria («rigorosa universalità», cf. B4) costituisce la condizione formale affinché possiamo esperire una successione oggettiva [objektive Folge] di fe- nomeni50. Di conseguenza, ogni evento empirico riposa su una causa empirica (cf. A202/B247). Per effetto della «rivoluzione copernicana» kantiana, il principio tra- scendentale della causalità costituisce la condizione di possibilità non soltanto dell’esperienza dei fenomeni, ma dei fenomeni stessi (cf. B234): il principio trascenden- tale causale costituisce in questo senso una versione del principio di ragion sufficiente, la cui normatività è ristretta nel campo dell’esperienza (cf. A200-1/B246). Inteso in questo senso, esso istituisce un continuum nel tessuto dell’esperienza (cf. A208-9/B253- 4) e non consente pertanto alcuna eccezione.

Prima di affrontare quest’ultimo problema, occorre chiarire la possibilità e il senso dell’applicazione delle categorie, quando questa non sia supportata da un’intuizione spazio-temporale. La Dissertazione inaugurale, ammettendo ancora un uso reale dell’intelletto puro, distingueva già tra tempo e causalità in senso qualitativo: l’uno co- stituiva lì il principio formale del mondo sensibile (KGS II, 403) mentre l’altra, assieme ai concetti di possibilità, esistenza, necessità, sostanza e così via (KGS II, 395), appar- teneva già ai conetti puri dell’intelletto. Per questa ragione, già in quell’opera si soste-

48 Come tutto il discorso trascendentale, anche la distinzione tra unità soggettiva e oggettiva del mol-

teplice dell’intuizione riguarda le condizioni formali e non quelle materiali dell’esperienza: in tal senso, esso non corrisponde alla distinzione tra apparenza e realtà. Anche l’apparenza, infatti, potrebbe costituire un’unità oggettiva qualora rispettasse determinate condizioni dell’esperienza. Ad esempio, sotto questo rispetto il movimento di un treno esperito in un sogno non si distinguerebbe da quello osservato nella re- altà. La differenza fra i due tipi di esperienza dipenderebbe invece dalle condizioni materiali di quest’ultima, che darebbero luogo a due diversi contenuti dell’intuizione.

49 M. PUECH, Kant et la causalité, 458. Cf. inoltre A. MELNICK, Themes in Kant's metaphysics and e-

thics, 97.

50 La condizione materiale dipende invece dai contenuti dell’intuizione. Cf. I. KANT, Kritik der reinen

neva la possibilità di una causalità senza tempo51. L’Analitica trascendentale chiarisce sufficientemente il significato delle categorie quali «concetti di un oggetto in generale, per mezzo dei quali si considera l’intuizione di quell’oggetto in quanto determinata ri- spetto ad una delle funzioni logiche del giudicare» (B128), ovvero si considerano «que- ste stesse funzioni del giudicare, nella misura in cui il molteplice di un’intuizione data è determinato rispetto ad esse» (B143). In questo senso, il ruolo delle categorie riposa su un duplice «isomorfismo»52: quello tra intuizioni spazio-temporali e funzioni del giudi- zio per mezzo della sintesi (cf. A85-92/B117-24), quello tra funzioni del giudizio e con- cetti puri dell’intelletto, in riferimento all’unità sintetica dell’appercezione (cf. B131- 40). Come è stato chiarito nel caso della categoria causale, la dottrina dello schemati- smo fornisce il criterio ultimo per la realizzazione piena di questa funzione e «gli sche- mi dei concetti puri dell’intelletto sono le vere e uniche condizioni per procurare ai con- cetti un rapporto con gli oggetti, quindi un significato» (A146/B185)53.

Ciononostante, la «complessa teoria kantiana del significato»54 prevede anche la pos- sibilità che senza le condizioni sensibili le categorie mantengano un significato logico: esso consiste nella «semplice unità delle rappresentazioni, alle quali però non viene dato alcun oggetto, e quindi neanche alcun significato che possa fornire un concetto dell’oggetto» (A147/B186). Ad esempio, la sostanza in senso logico è il semplice sog- getto di una predicazione (cf. A147/B186), in senso trascendentale implica che qualcosa si possa considerare «in ogni tempo» (A185/B228) un tale sostrato. Parallelamente, la causalità in senso logico indicherebbe la mera consequenzialità tra premesse [Gründe] e conclusioni [Folge] (cf. B431), mentre in senso trascendentale presuppone una connes- sione necessaria degli effetti con le loro cause. Alla luce di quanto detto in merito alla cosa in sé, al noumeno e all’oggetto trascendentale, per quale ragione Kant ponga un veto sull’uso trascendentale delle categorie in questo senso (cf. AB303-6). Con ciò, egli non nega che le categorie possano essere applicate in questo caso facendo riferimento al loro significato semplicemente logico e questo, tenendo conto degli sviluppi dell’etica critica, non dovrebbe essere considerata come una penalizzazione, e tanto meno una ri- nuncia, al concetto della libertà, a meno che non si ritengano l’ambito teoretico e la co-

51 Cf. K. KAWAMURA, Spontaneität und Willkür, 159 nota 433. 52 H. E. ALLISON, Kant’s transcendental deduction, 170 nota 16 e 172.

53 Kant ritiene che il significato logico della categoria sia insufficiente per esprimere la realtà della li-

bertà: richiamandosi alla distinzione tra «schema» e «simbolo» contenuta nella Critica del Giudizio, Kannisto propone di interpretare la libertà come una rappresentazione simbolica della categoria causale. Cf. I. KANT, Kritik der Urteilskraft, KGS V, 351-3. Se non fossimo capaci di rappresentarci almeno ana-

logamente liberi, potremmo garantire la spontaneità della nostra ragione ma non il suo potere causale. La rappresentazione simbolica della libertà sarebbe non solo necessaria, ma anche sufficiente per farne uso pratico e determinarci per dovere. Cf. T. KANNISTO,«Freedom as a kind of causality, 2-3.

54 R.K.WESTPHAL, «Noumenal causality reconsidered: affection, agency and meaning in Kant», 225.

Westphal interpreta il veto kantiano circostanziato alla metafisica di impostazione razionalista e individua nella riflessione trascendentale un uso trascendentale positivo delle categorie, fondato sul significato logi- co. Cf. ivi, 221-6. Senza negare l’ambiguità del testo kantiano, tanto più in riferimento a un testo compo- sto per la prima versione della Critica (l’Anfibolia e la relativa Nota), temo tuttavia che questo riferimen- to non sia sufficiente per ammettere un uso trascendentale della categoria causale nel caso della soluzione alla terza antinomia. Nella Dialettica, Kant ribadisce il proprio veto nei confronti di un possibile «Miß- brauch der Kategorien». I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, A296/B352. Tale abuso si rivela infatti esse-

noscenza speculativa come, in qualche modo, prioritari rispetto all’ambito pratico e alla fede razionale.

5. Dalla «causalità» alla «sostanza»: «azione» e «forza»

La «seconda analogia» riguarda la possibilità di esperire di una successione oggettiva di fenomeni e pone, come sua condizione trascendentale, l’applicazione della categoria causale. In questo senso l’antitesi della terza antinomia della ragion pura sostiene che verrebbe meno la stessa unità dell’esperienza qualora non si potesse più fare uso della categoria causale, se – cioè – mancasse una regola della connessione necessaria in base alla quale questa categoria possa essere impiegata. Quanto detto finora ha però esplicita- to soltanto come la categoria causale funzioni, ma non cosa una causa sia55. La risposta a questa domanda, che può essere ancora una volta ricercata nell’Analitica trascenden-

tale, custodisce anch’essa degli elementi importanti per la lettura della terza antinomia

della ragion pura e della sua risoluzione.

La prima analogia dell’esperienza prescrive, come si è mostrato in precedenza, che «tutti i fenomeni contengano il permanente [das Beharrliche] (sostanza), inteso come l’oggetto stesso, e ciò che cambia [das Wandelbare]56, inteso come semplice determina-

zione di esso, e cioè come un modo in cui l’oggetto esiste» (A182 [corsivo mio]). Come

chiarito nel paragrafo precedente, l’oggetto è da intendersi come oggetto fenomenico. Nella seconda edizione della Critica la formulazione è più chiara: «in ogni cambiamen- to [Wechsel] dei fenomeni la sostanza permane [beharret] e il quantum di essa nella na- tura non viene né accresciuto né diminuito» (A182/B224). Il riferimento al quantum, in questa seconda formulazione, rimanda a una «quantità» concettualizzata sotto la catego- ria corrispondente, tramite gli assiomi dell’intuizione. Kant sta qui dicendo, cioè, che un cambiamento è intellegibile nella misura in cui ciò che cambia viene riferito a un sostra- to, rispetto al quale il cambiamento possa essere considerato come un mutamento da uno stato a un altro. Per la stessa ragione ogni nascere e perire deve essere interpretato come il passaggio da una condizione a un’altra della medesima sostanza, perché possa- no essere esperiti (cf. A187-9/B230-2).

Cambiano [wandeln, wechseln], quindi, soltanto gli attributi di una sostanza; la so-

stanza, invece, può soltanto mutare [verändern]. La seconda analogia dell’esperienza si riferisce proprio a quest’ultimo concetto di «mutamento» [Veränderung], il quale può, quindi, alla luce di quanto appena detto, essere correttamente inteso: «Tutti i mutamenti [Veränderungen] accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto» (A189/B232). Corrispondentemente, nella prima edizione della Critica, pur essendo sta- ta designata come «principio della produzione» (A189 [corsivo mio]), la seconda analo- gia dell’esperienza accoglie, nella propria formulazione, la traduzione di «ciò che co- mincia ad essere» in «ciò che accade»: «Tutto ciò che accade [geschieht] (comincia ad essere) presuppone qualcosa, a cui fa seguito secondo una regola» (A189). A ciò che accade Kant si riferisce più avanti in termini di «realtà effettiva» [Wirklichkeit] (A192/B237), «accadimento» [Begebenheit] (A192/B237) o «evento» [Eräugnis]

55 M. PUECH, Kant et la causalité, 390.

56 Mi discosto dalla traduzione italiana ufficiale, che rende «das Wandelbare» come «il mutevole».

Suggerisco, infatti, in quanto segue, una distinzione tecnica tra «cambiare» [wandeln, wechseln] e «muta- re» [verändern], che esige pertanto una maggiore fedeltà nella resa dei termini in italiano.

(A199/B244)57. Come nella prima analogia dell’esperienza, anche in questo caso si trat- ta cioè di passaggi fra stati di una medesima sostanza (cf. A206/B251-2). Mentre nella prima analogia dell’esperienza si prendeva in considerazione il problema di ciò cui essi inerivano, nella seconda analogia dell’esperienza si tratta della causa cui essi sono ri- conducibili. La realtà oggettiva della categoria causale risulta, perciò, sufficientemente fondata a partire da una successione oggettiva di fenomeni, in un universo descritto e- sclusivamente in termini di eventi discreti58.

Ma quanto detto non esclude che la nozione di «causa» possa avere, nella prospettiva kantiana, anche un significato più ricco di quello appena descritto. Intessuta con la di- mostrazione della seconda analogia dell’esperienza è infatti una riflessione che, sempli- cemente analizzando (cf. A204 e A205/B250) il concetto di «causalità» [Kausalität], ri- conduce a quello di «sostanza» [Substanz] e porta alla luce, nella funzione di concetti mediatori, quelli di «azione» [Handlung] e di «forza» [Kraft] (cf. A204/B249). Il prin- cipio trascendentale di causalità si connette così non soltanto al progetto di una metafi- sica positiva condotta alla luce della filosofia trascendentale, ma anche all’elaborazione della filosofia trascendentale negli scritti pre-critici: l’autore stesso, individuando il luo- go appropriato per l’approfondimento di questa relazione in un «sistema futuro della ra- gion pura» (A204/B249) rimanda ai «trattati di questa specie […] conosciuti» (A204/B249) cui lui stesso aveva attinto nella propria formazione59.

Riferendosi al concetto di «attività» [Tätigkeit] (A204/B250) ovvero all’effettività di una «forza» (A204/B250), il concetto di «azione» esprime in questo testo il significato di una «relazione del soggetto della causalità con l’effetto» (A205/B250). In questo sen- so «ogni mutamento […] è possibile soltanto tramite un’azione […] della causalità» (A208/B254). Tenendo presente il ruolo della categoria causale rispetto all’esperienza, si comprende che «le azioni sono sempre il fondamento primo di ogni cambiamento dei fenomeni» (A205/B250). Se il soggetto della causalità fosse esso stesso mutevole, do- vrebbero darsi «altre azioni e un altro soggetto» (A205/B250), che di per sé non muta- no, e in riferimento ai quali un mutamento può essere ritenuto tale. Estendendo ulte- riormente questo ragionamento, ne risulta che – almeno nell’esperienza finita – bisogna