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LIBERTÀ E FACOLTÀ DELL’ANIMO

5. Il «paralogismo» della ragione

Sulla questione della fenomenicità della conoscenza di sé, fa da controparte alla de-

58 In questo senso, il problema sarebbe un’esemplificazione di quello più ampio riguardante

l’affezione, sollevato al più tardi dal celebre commento di Jacobi e affrontato nel capitolo precedente in merito alla questione della causalità noumenica. Cf. p. 139 nota 22.

59 Alla dottrina del senso interno il filosofo si riferisce esplicitamente anche nell’Antropologia prag-

matica, definendolo «Bewusstsein dessen, […] was er [der Mensch] leidet, sofern er durch sein eignes Gedankenspiel affiziert wird». I.KANT, Anthropologie, KGS VII, 161. L’accento sull’auto-affezione è posto anche quando Kant distingue il senso interno da quello esterno (la seconda parte della citazione propone invece una disambiguazione delle rappresentazioni interne dagli stati interiori del soggetto, ove i secondi non hanno alcuna rilevanza epistemica e, nella misura in cui funzionano come stimoli, pertengo- no alla sfera pratica della facoltà di desiderare): «Die Sinne aber werden wiederum in den äußeren und den inneren Sinn (sensus internus) eingeteilt; der erstere ist der, wo der menschliche Körper durch kör- perliche Dinge, der zweite, wo er durchs Gemüt affiziert wird; wobei zu merken ist, dass der letztere als bloßes Wahrnehmungsvermögen (der empirischen Anschauung) vom Gefühl der Lust und Unlust, d. i. der Empfänglichkeit des Subjekts, durch gewisse Vorstellungen zur Erhaltung oder Abwehrung des Zu- standes dieser Vorstellungen bestimmt zu werden, verschieden gedacht wird, den man den inwendigen Sinn (sensus interior) nennen könnte». I.KANT, Anthropologie, KGS VII, 153. All’interno di una lunga

annotazione, il filosofo insiste altresì sulla fenomenicità del senso interno: «als Objekt der inneren empi- rischen Anschauung, d. i. so fern ich innerlich von Empfindungen in der Zeit, so wie sie zugleich oder nach einander sind, affiziert werde, erkenne ich mich doch nur, wie ich mir selbst erscheine, nicht als Ding an sich selbst. Denn es hängt doch von der Zeitbedingung, welche kein Verstandesbegriff (mithin nicht bloße Spontaneität) ist, folglich von einer Bedingung ab, in Ansehung deren mein Vorstellungsver- mögen leidend ist (und gehört zur Rezeptivität). Daher erkenne ich mich durch innere Erfahrung immer nur, wie ich mir erscheine; welcher Satz dann oft böslicherweise so verdreht wird, dass er so viel sagen wolle: es scheine mir nur (mihi videri), dass ich gewisse Vorstellungen und Empfindungen habe, ja über- haupt dass ich existiere. Der Schein ist der Grund zu einem irrigen Urteil aus subjektiven Ursachen, die fälschlich für objektiv gehalten werden; Erscheinung ist aber gar kein Urteil, sondern bloß empirische Anschauung, die durch Reflexion und den daraus entspringenden Verstandesbegriff zur inneren Erfah- rung und hiermit Wahrheit wird». I.KANT, Anthropologie, KGS VII, 142. Sembrerebbe qui che la natura

fenomenica del senso interno dipenda dal suo contenuto, dal fatto cioè che essa rappresenti il soggetto come passivo. Quest’interpretazione sembrerebbe escludere che si possa avere coscienza di sé in tutti quei casi nei quali il soggetto compie delle azioni, il che sarebbe contro-intuitivo. Avendo poi appreso che anche nella ricettività il soggetto è, almeno dal punto di vista formale, attivo e che, quindi, la distinzione tra recettività e spontaneità non coincide con quella tra passività e attività, la conoscenza di sé rischiereb- be di non avere alcun contenuto. Sulle ragioni dell’associazione – comunque problematica – tra affezione e passività, cf. p. 167-8 nota 17. In ogni caso, la distinzione tra senso interno e appercezione pura è perciò da intendersi come tra due metodi di relazionarsi epistemicamente al medesimo soggetto, sulla base dei quali due diversi aspetti di esso vengono alla luce: una volta il soggetto colto come oggetto, una volta come soggetto. In questo senso le azioni del soggetto sarebbero disponibili alla coscienza di sé, ma solo al prezzo di essere interpretate come meri eventi naturali. Il carattere peculiare della loro spontaneità non sa- rebbe trasparente per il senso interno (così come non lo sarebbe per la conoscenza esterna). La fenomeni- cità dell’esperienza interna fa da perno al rifiuto dell’idealismo di matrice cartesiana, che pone in dubbio l’esistenza del mondo esterno. Cf. I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, A226-35/B274-88. Posto che la

conoscenza interna e quella esterna si collocano sullo stesso piano, negare la possibilità di quella esterna dovrebbe infatti mettere in dubbio anche quella interna. Su questo punto cf. N. KEMP SMITH, A commen-

scrizione – contenuta nell’Analitica – del processo di auto-affezione la discussione – contenuta nella Dialettica – del «paralogismo». Con quest’ultimo termine, Kant si rife- risce a una peculiare forma di parvenza trascendentale60 cui la ragione perviene, nel suo uso teoretico, quando concepisce – come condizione ultima di un sillogismo assertivo – il soggetto del pensiero (cf. A333-4/B390-1). Tale parvenza fornisce i contenuti per una «dottrina trascendentale dell’anima (psychologia rationalis)» (A334/B391)61. L’esame di questo processo ribadisce la natura squisitamente trascendentale dell’autocoscienza, negando la possibilità di accedere a una conoscenza del sé noumenico a partire dal sen- so interno: ne esce, così, confermata la distinzione tra appercezione trascendentale ed empirica, ma prendono corpo anche – confrontandosi peraltro con la dottrina cartesiana del «cogito» – alcune riflessioni sul soggetto pensante. Nella seconda edizione della

Critica, il filosofo esplicita il ragionamento in questi termini:

Ciò che non può essere pensato altrimenti che come soggetto, non esiste anche altrimenti che come soggetto, e dunque è sostanza.

Ma un essere pensante, considerato semplicemente come tale, non può essere pensato altri- menti che come soggetto.

Quindi, esso esiste anche soltanto come soggetto, ossia come sostanza (B410-1).

Che qualcosa non possa essere pensato altrimenti che come soggetto implica che sot-

to tutti i possibili punti di vista esso debba poter essere pensato come tale: qualora esi-

stesse, anche nell’intuizione spazio-temporale. Senz’altro, affinché un molteplice dell’intuizione spazio-temporale possa essere pensato come soggetto, si renderebbe ne- cessario il criterio enunciato (almeno) dalla prima analogia dell’esperienza: ma non è questo, qui, il punto della discussione. La premessa maggiore si riferisce infatti a «un oggetto in generale» (B411 nota), che in quanto tale potrebbe essere istanziato anche, ma non solo, da un oggetto dell’intuizione spazio-temporale. Di quest’ultimo oggetto, la premessa maggiore presuppone che non possa essere pensato altrimenti che come sog- getto. Che questo qualcosa non possa esistere altrimenti che come soggetto, presuppone invece che esso esista: secondo i postulati del pensiero empirico, ciò dipende dalla pos- sibilità di essere colto direttamente o indirettamente per mezzo di leggi empiriche trami- te un’intuizione spazio-temporale. Ma ancora una volta non ne va qui dell’affermare l’esistenza di quest’oggetto, che viene invece presupposta: «nella premessa maggiore si parla di cose [Dingen]» (B411 nota) e le «cose» [Dingen], per definizione, esistono. In altri termini si ritiene qui che (a) qualora un oggetto in generale non possa essere pensa- to altrimenti che come soggetto e (b) qualora esso esista allora (c) esso non potrebbe es- sere che sostanza. Dire che «è sostanza» «ciò che […] non esiste […] altrimenti che come soggetto» e che «ciò che non può essere pensato altrimenti che come soggetto, non esiste anche altrimenti che come soggetto» sono due affermazioni sintetiche (poiché includono un predicato d’esistenza), sebbene a priori.

La premessa minore contiene un’ambiguità. Tutto ciò che, considerato semplicemen- te come tale, non potrebbe essere pensato altrimenti che come soggetto è, infatti, esclu-

60 Il paralogismo contraddistingue un unico errore, sebbene Kant lo articoli in quattro forme nella

prima edizione della Critica.

61 Kant si riferisce alla psicologia razionale elaborata dai principali esponenti della filosofia scolastica

tedesca, ma anche a quella da lui professata nel periodo pre-critico. Cf. ad esempio I. KANT, Träume,

sivamente il soggetto trascendentale, il soggetto – cioè – considerato «soltanto relativa- mente al pensiero, e all’unità della coscienza» (B411) 62, quale semplice «forma del pensiero» (B411 nota). È questa, infatti, la natura dell’appercezione trascendentale deli- neata nei paragrafi precedenti. Dire che il soggetto trascendentale non possa essere pen- sato altrimenti che come soggetto del pensiero costituisce un’affermazione analitica: la nozione di «soggetto trascendentale» contiene, infatti, per definizione, quella di «sog- getto». Ma essa non implica, di per sé, l’esistenza: potrebbe, cioè, darsi che l’atto del pensiero sia, di fatto, esercitato da qualcosa di non permanente e che, in ultima analisi, nell’intuizione sensibile non possa mai darsi un permanente spazio-temporale cui attri- buire la sostanzialità, quindi il concetto di «anima». Sulla base di questo ragionamento, la conclusione rappresenterebbe un non sequitur (cf. B412 nota): l’esistenza sarebbe, qui, illegittimamente presupposta. L’ambiguità riguarda, quindi, la nozione di «essere pensante» e, in particolare, quella di «essere». Se, infatti, considerarlo «come tale» è strettamente equivalente al pensarlo «come soggetto», allora «come tale» significa «come soggetto trascendentale» e si riferisce, nella nozione di «essere pensante», al fat- to che sia – appunto – pensante, mentre la nozione di «essere» dev’essere intesa in sen- so debole, non esistentivo. Se, invece, si intende l’«essere» in senso forte, esistentivo e, come «essere pensante», il soggetto non più in senso trascendentale, ma empirico (ad

esempio psicologico)63, perché considerarlo «come tale» dovrebbe univocamente signi-

ficare pensarlo «come soggetto» e, dunque, come sostanza? La nozione di «essere pen- sante» non contiene, infatti, quella di «soggetto» e l’affermazione sarebbe, pertanto, sin- tetica e, peraltro, nemmeno potrebbe ritenersi giustificata alla luce dell’Analitica

trascendentale. Affinché la premessa minore sia valida, in questo caso, la soggettività

trascendentale di ciò che esiste come pensante dovrebbe essere presupposta. È, dunque, soltanto nella prima accezione che la premessa minore risulterebbe giustificata, sebbene questa stessa accezione non consentirebbe di giustificare la conclusione. Viceversa, la conclusione sarebbe giustificata se si intendesse la premessa minore nella seconda acce- zione, nel qual caso sarebbe però la premessa stessa a risultare ingiustificata64. In altri termini, la sostanzialità può essere legittimamente predicata di un soggetto soltanto in senso empirico, mentre al soggetto trascendentale non è possibile attribuire la categoria dell’esistenza. Nel paralogismo della ragione accade, invece, che l’«essere pensante» venga interpretato, nella premessa minore, ora come soggetto trascendentale, di modo che la premessa minore sia vera, ora come soggetto empirico, per legittimare il passag- gio alla conclusione65.

62 Sul soggetto trascendentale considerato sotto l’aspetto dell’unità della coscienza pone l’accento

P. KITCHER, «Kant’s paralogisms», 526. L’autrice ne dà, tuttavia, un’interpretazione psicologica sulla ba-

se della quale l’attribuzione al soggetto della predicazione esistentiva potrebbe considerarsi esistentiva, diversamente da quanto detto in ciò che segue.

63 In questo ambito, Kitcher distingue tuttavia da una descrizione sostanziale e una sì psicologica, ma

funzionale, la quale si sottrarrebbe al paralogismo. Cf. P. KITCHER, «Kant’s paralogisms», 545.

64 Un ragionamento simile si trova in H.E.ALLISON, Kant’s transcendental idealism, 334-41 e 346-

51. Egli attribuisce tuttavia l’ambiguità all’espressione «come tale» e non, come qui, all’espressione «es- sere pensante» e quindi alla nozione di «essere».

65 Nella prima edizione della Critica, il paralogismo poneva l’accento sulla questione della sostanzia-

lità piuttosto che su quella della sostanza: «Dasjenige, dessen Vorstellung das absolute Subjekt unserer Urteile ist und daher nicht als Bestimmung eines andern Dinges gebraucht werden kann, ist Substanz. Ich, als ein denkendes Wesen, bin das absolute Subjekt aller meiner möglichen Urteile, und diese Vorstellung von mir selbst kann nicht zum Prädikat irgendeines andern Dinges gebraucht werden. Also bin ich, als

Secondo Kant, la confusione di un principio analitico – quello per cui il soggetto tra- scendentale non può essere pensato che come soggetto – con uno sintetico – quello che predica la sostanzialità del soggetto trascendentale – presuppone una oggettivazione del

denkend Wesen (Seele), Substanz». I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, A348. Anche in questo caso

l’ambiguità risiede nella premessa minore. La rappresentazione di me stesso che non può essere usata come predicato di un’altra cosa qualsiasi è infatti l’«io penso», considerato come soggetto meramente lo- gico e in questo senso assoluto (analitico). In virtù di un’oggettivazione, il concetto meramente logico di un soggetto assoluto produce quello reale di un essere pensante. Il concetto di «soggetto» viene, quindi, inteso ora come quello di un soggetto meramente logico, ora come quello di un soggetto reale. Solo in virtù della seconda interpretazione è possibile sussumerlo nella premessa maggiore, che di per sé enuncia un principio per l’applicazione della categoria sostanziale a un oggetto in generale. È solo grazie a questa interpretazione, dunque, che si rende possibile la conclusione. La topica della dottrina razionale dell’anima prevede l’attribuzione all’«io penso» non soltanto della categoria sostanziale, ma anche, sulla base di questa, della semplicità (o identità sincronica), dell’unità (o identità diacronica) e della separatez- za rispetto a possibili oggetti nello spazio (cf. ivi, A344/B402). Su di esse si fonda a sua volta l’attribuzione di altri predicamenti (immaterialità, incorruttibilità, personalità, spiritualità, vita e immorta- lità, cf. ivi, A345/B403). Mentre nella seconda edizione della Critica, la discussione dell’applicazione delle altre categorie all’«io penso» si riduce a tre brevi paragrafi di chiarimento (cf. ivi, B407-9), essa da- va luogo ad altri tre paralogismi nella prima edizione della Critica (cf. ivi A351; A361 e A366-7). Nel se- condo paralogismo, la premessa minore si riferiva alla dottrina kantiana dell’appercezione trascendentale: «weil die Vorstellungen, die unter verschiedenen Wesen verteilt sind (z. B. die einzelne Wörter eines Verses) niemals einen ganzen Gedanken (einen Vers) ausmachen: so kann der Gedanke nicht einem Zu- sammengesetzten, als einem solchen inhärieren» (ivi, A352), il che equivaleva a dire che «viele Vorstel- lungen in der absoluten Einheit des denkenden Subjekts enthalten sein müssen» (ivi, A352). In questo ca- so l’unità assoluta (universale) e necessaria dell’appercezione veniva considerata ora come una condizione formale del pensiero, relazionata a quest’ultimo in senso logico, ora come una condizione ma- teriale del pensiero, relazionata a esso in senso causale. Nel primo caso si trattava di un principio analiti- co, nel secondo caso si tratta di un principio sintetico (cf. ivi, A353). Il terzo paralogismo si riferiva all’identità numerica del soggetto rispetto alla successione delle rappresentazioni: ancora una volta, la premessa minore considerava l’«io penso» ora come appercezione trascendentale, la cui identità numerica è tutt’uno con l’atto stesso di pensare e ora come appercezione empirica, la quale ci fornisce tuttavia un’esperienza di ciò che siamo soltanto fenomenicamente. Nel primo caso, equivalente al punto di vista della prima persona singolare, non si sarebbe nemmeno autorizzati a porre la domanda sull’identità rispet- to al tempo poiché l’autocoscienza trascendentale è solo logica e quindi al di fuori del tempo. Nel secon- do caso, equivalente al punto di vista della terza persona singolare, si può porre la domanda sull’identità dell’«io penso» nel tempo ma se ne otterrebbe soltanto una risposta parziale, relativa al sé fenomenico (cf. ivi, A362-3). Se invece si prescindesse da ogni punto di vista, l’«io penso» potrebbe comunque essere considerato soltanto nella sua funzione logica. Il quarto paralogismo consentiva al filosofo di confrontarsi con una serie di questioni riguardanti il rapporto dell’anima con il corpo. A questo proposito, Kant distin- gueva il principio analitico, di per sé legittimo, per cui «ich unterscheide meine eigene Existenz, als eines denkenden Wesens, von anderem Dingen außer mir (wozu auch mein Körper gehört)» (ivi, B409) da quello sintetico, secondo il quale l’io esiste indipendentemente dalle cose esterne, tramite le quali delle rappresentazioni possono essere date. Quest’ultimo si origina dall’erronea oggettivazione di un’idea me- ramente logica, consistente nell’astrazione dell’appercezione trascendentale da tutti i suoi contenuti rap- presentativi. In questo caso, infatti, «verwechsele ich die mögliche Abstraktion von meiner empirisch be- stimmten Existenz mit dem vermeinten Bewusstsein einer abgesondert möglichen Existenz meines denkenden Selbst, und glaube das Substantiale in mir als das transzendentale Subjekt zu erkennen, in dem ich bloß die Einheit des Bewusstseins, welche allem Bestimmen, als der bloßen Form der Erkenntnis, zum Grunde liegt, in Gedanken haben». Ivi, B426-7. Ameriks identifica nella trattazione kantiana una dottrina positiva della mente. Cf. K. AMERIKS, Kant's theory of mind. Diversamente, Rosefeldt rintraccia nelle predicazioni analitiche attribuite all’io una teoria semantica, volta a rendere conto dei possibili usi di questo indicale. Cf. T.ROSEFELDT, Das logische Ich.

soggetto trascendentale (cf. B411 e ss.) 66. Una corretta interpretazione del paralogismo restituisce, invece, definitiva chiarezza alla distinzione tra il senso interno, tramite il quale è possibile attribuire una sostanzialità fenomenica al soggetto empirico, e l’appercezione, che implica soltanto una coscienza della propria soggettività pensante67.

66 Il nocciolo del problema sta nel fatto che, come il filosofo avrà a dire nella discussione sull’ideale

trascendentale, «Sein ist […] kein reales Prädikat, d. i. ein Begriff von irgend etwas, was zu dem Begriffe eines Dinges hinzukommen könne». I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, A598/B626. Non è possibile af- fermare l’esistenza di qualcosa sulla sola base di condizioni formali, ma si rendono necessarie condizioni materiali che siano fornite tramite l’intuizione spazio-temporale. La critica del paralogismo fornisce così l’occasione per confrontarsi con la dottrina cartesiana del «cogito, ergo sum», che Kant interpreta come un’inferenza (cf. A355 e B422n) a partire dalla presunta, implicita premessa secondo la quale «alles, was denkt, existiert» (B422n). Sulla base di questo ragionamento, Sellars ammette la possibilità che l’io venga considerato alla stregua di un sistema neurofisiologico. Cf. W. SELLARS, «Metaphysics and the concept of

a person».

67 Nell’Antropologia pragmatica, Kant riporta non soltanto l’antropologia ma anche la psicologia a

una forma di conoscenza interna: «Die Wahrnehmungen desselben [des inneren Sinnes] [...] ist nicht bloß anthropologisch, wo man nämlich davon absieht, ob der Mensch eine Seele (als besondere unkörperliche Substanz) habe oder nicht, sondern psychologisch, wo man eine solche in sich wahrzunehmen glaubt, und das Gemüt, welches als bloßes Vermögen zu empfinden und zu denken vorgestellt ist, als besondere im Menschen wohnende Substanz angesehen wird». I. KANT, Anthropologie, KGS VII, 161. Sulla conoscen-

za empirica di sé, cf. H. KLEMME, Kants Philosophie des Subjekts, 219-21. Sempre nell’Antropologia, e-

gli definisce il senso interno come coscienza psicologica, l’appercezione pura come coscienza logica (cf. ivi, 142). Sembrerebbe così potersi concludere che «Ich denke, ist […] der alleinige Text der rationalen Psychologie» (I.KANT, Kritik der reinen Venrunft, A343/B401), ma anche che non si possa dedurre da

esso alcun sapere, senza sconfinare nel campo dei fenomeni e quindi della psicologia empirica. La critica del paralogismo rivela infatti che «durch dieses Ich, oder Er, oder Es (das Ding), welches denket, wird nun nichts weiter, als ein transzendentales Subjekt der Gedanken vorgestellt=x, welches nur durch die Gedanken, die seine Prädikate sind, erkannt wird, und wovon wir, abgesondert, niemals den mindesten Begriff haben können» (ivi, A346/B404). Secondo Sellars Kant ammetterebbe, a conclusione del paralo- gismo, che l’io possa venire rappresentato da un automaton spirituale sotto il profilo teoretico. Per una discussione di questo problema cf. W. SELLARS, «…This I or He or It (the Thing) which Thinks…». Sulla stessa affermazione kantiana cf. inoltre D. STURMA, Kant über Selbstbewusstsein, 75. La distinzione tra

esperienza di sé e appercezione trascendentale consente di interpretare questo soggetto trascendentale=x in un duplice modo. Nell’Antropologia pragmatica, Kant osserva che «Hier scheint uns nun das Ich dop- pelt zu sein [...]: 1) das Ich als Subjekt des Denkens (in der Logik), welches die reine Apperzeption be- deutet (das bloß reflektierende Ich), und von welchem gar nichts weiter zu sagen, sondern dass eine ganz einfache Vorstellung ist; 2) das Ich als das Objekt der Wahrnehmung, mithin des inneren Sinnes, was eine Mannigfaltigkeit von Bestimmungen enthält, die eine innere Erfahrung möglich machen». I. KANT, An- thropologie, KGS VII, 134. Apparentemente contravvenendo a questa indicazione, Kitcher riconosce nel paralogismo il profilarsi di un sé psicologico-epistemico che si distingue tanto da quello semplicemente fenomenico che da quello noumenico. Cf. P. KITCHER, «Kant’s paralogisms», 546. In particolare, Kant si

riferisce a un esempio nell’ambito pedagogico: il bambino, che parlando in terza persona di sé mostra sol- tanto di percepirsi, nell’apprendere a parlare di sé in prima persona comincia a pensare (cf. ivi, 127). Al di là dell’effettiva validità dell’osservazione, essa conferma una volta di più la distinzione fondamentale tra