CARATTERE E AZIONE
3. Il problema del «noumeno»
Poiché costituisce una facoltà del «soggetto trascendentale» (A545/B573), la libertà è stata intesa – per lo più nella cornice di un’interpretazione ontologica dell’idealismo trascendentale – come una forma di «causalità noumenica»: come se, cioè, Kant stesse applicando la categoria della causalità stricto sensu a una facoltà di produrre effetti qua- le è la libertà, che di per sé appartiene al mondo del noumeno. Ciò richiederebbe di sta-
bilire un’inferenza causale dal fenomeno al noumeno22. Aggiungo pertanto alcuni chia-
rimenti in merito alle nozioni di «cosa in sé» [Ding an sich], «noumeno» [noumenon] e «oggetto trascendentale» [transzendentaler Objekt], per poter così affrontare nel para- grafo successivo il problema della causalità noumenica.
La prima questione riguarda la consistenza della «cosa in sé». Se con ciò si intendes- se infatti la cosa considerata come esistente in sé stessa, l’interpretazione non ontologi- ca dell’idealismo trascendentale ricondurrebbe in ultima analisi a una ontologica23. In un’interpretazione strettamente epistemologica, invece, considerare la cosa in sé signifi- cherebbe considerarla – negativamente – a prescindere dalle condizioni sotto le quali essa viene conosciuta da noi e – positivamente – quale la si potrebbe conoscere tramite un altro tipo di intelligenza24. In questo caso si potrebbe comunque continuare a parlare di proprietà e di relazioni della cosa in sé, senza tuttavia implicare che quest’ultima rap- presenti una sorta di sostanza noumenica, di per sé sussistente e ontologicamente sepa- rata25. Per affrontare la questione del senso, per il quale Kant introduca una «cosa in sé» [Ding an sich] in aggiunta alla «cosa che appare» [Erscheinung], se questo fosse quello di «fondare» – in senso metafisico – la cosa che appare, ci ritroveremmo entro un’interpretazione ontologica del rapporto tra cosa in sé e cosa che appare. Sulla base di un’interpretazione epistemologica, la relazione fondazionale tra apparenza e cosa in sé
può invece essere intesa in senso «semantico»26: non saremmo in grado di comprendere
l’idealità trascendentale del fenomeno, quindi nemmeno distinguere nell’esperienza un
fenomeno da un noumeno27, se non potessimo riferirla alla nozione della cosa conside-
22 Per una panoramica sulla critica in merito alla questione della «affezione noumenica», da un punto
di vista che la sostiene e interpreta attraverso di essa la teoria kantiana della libertà cf. D. HOGAN,
«Noumenal affection».
23 «He [Kant] denies that we have knowledge of things in themselves by saying that we have no
knowledge of the intrinsic properties of substances». R.LANGTON, Kantian Humility: our ignorance of things in themselves, 41. Langton sembra così presupporre che la cosa in sé coincida con una sostanza.
24 In questo senso, si istituisce una relazione speculare tra il concetto della «cosa in sé» e quello del
«fenomeno». Cf. G. PRAUSS, Kant und das Problem der Dinge an sich, 31-43.
25 H. E. ALLISON, Kant’s transcendental idealism, 52. 26 H. E. ALLISON, Kant’s transcendental idealism, 52.
27 Prauss riconosce la distinzione tra «cosa in sé» e «fenomeno» essere essenziale per una filosofia che
si configuri come riflessione trascendentale, ovvero «nichtempirische Theorie des Empirischen». Cf. G. PRAUSS, Kant und das Problem der Dinge an sich, 85. Sul rapporto tra la dimensione empirica e quella trascendentale di questa distinzione cf. ivi, 52-61. Il concetto di «fenomeno» viene inoltre esplora- to in ID., Erscheinung bei Kant, 10-4. Sulla distinzione tra trascendentale ed empirico in generale cf.
rata in sé stessa (cf. ad esempio BXXVI-XXVII; A251-2; B306-7). Se, infatti, così co- me appare fosse l’unico modo in cui la cosa potesse darsi, non soltanto a noi ma in ge- nerale, non avrebbe alcun senso designarla come «ciò che appare». Né avrebbe senso distinguere le condizioni trascendentali sotto le quali una cosa può esserci data, dal mo- do empirico in cui essa ci viene effettivamente data. L’approccio «trascendentale»28 kantiano, invece, nel riferire l’oggetto della conoscenza alle condizioni sotto le quali es- so può essere conosciuto, presuppone il riferimento al medesimo oggetto, considerato indipendentemente dalle condizioni della conoscenza (distinzione trascendentale). In al- tri termini, il discorso sulle condizioni sotto le quali qualcosa può diventare per noi og- getto di una conoscenza – che è al centro della Critica della ragion pura – ha senso sol- tanto nella misura in cui quel qualcosa può essere considerato anche indipendentemente dalla nostra conoscenza. «Cosa in sé» e «ciò che appare» costituiscono, cioè, due facce della stessa medaglia. Essi devono, pertanto, essere considerati insieme, in un’unica o- perazione cognitiva – la «riflessione trascendentale» (cf. A261/B317) – e non, dunque, attraverso un processo inferenziale da «ciò che appare» alla «cosa in sé»29.
Sulla base di queste premesse, la «cosa in sé» costituirebbe per definizione un con- cetto vuoto, ovvero un puro pensiero: da una parte, non potendo essere fatta oggetto di alcuna forma di conoscenza, nessuna predicazione reale potrebbe inerirle in un giudizio sintetico; d’altra parte, riguardo alle sue proprietà e relazioni si potrebbero ancora for- mulare dei giudizi analitici, entro i quali la «cosa in sé» venisse pensata in conformità a una categoria logica30. Come si chiarirà in seguito, è in questo secondo senso, logico e non schematizzato, che la categoria causale si applica alla libertà, considerata come proprietà di una cosa in sé. Almeno in un’interpretazione non ontologica dell’idealismo trascendentale, non è immediatamente evidente che la distinzione tra ciò che appare e cosa in sé coincida con quella tra fenomeno e noumeno. In particolare, quella che non è chiara è la sovrapponibilità tra la cosa in sé e il noumeno.
Come esplicitato nello studio della risoluzione dell’antinomia, la definizione di «fe- nomeni» e «noumeni» viene fornita già all’interno della Dissertazione inaugurale (KGS II, 392): gli uni costituirebbero il correlato di una conoscenza sensibile, gli altri il corre- lato di una conoscenza intellettuale. Nella Critica della ragion pura, Kant sembrerebbe parlare dei fenomeni [phaenomena] come del risultato finale di un’operazione di cono- scenza: essi implicherebbero pertanto intuizioni spazio-temporali associate a operazioni concettuali (cf. B306). Avendo definito «ciò che appare» [Erscheinung] come «l’oggetto indeterminato di un’intuizione empirica» (A20/B34, corsivo mio), con il che Kant sembrerebbe riferirsi a un oggetto non ancora determinato concettualmente. È chiaro che dal significato di questa «determinatezza» dipende anche il rapporto tra ciò
I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, A12/B25. Bird colloca quest’ultima distinzione entro un approccio non ontologico all’idealismo trascendentale, definito «revolutionary» nel rispetto della lettera kantiana. Cf. G. BIRD, The revolutionary Kant, 83-95.
28 Sulla problematicità del concetto di «trascendentale» nella Critica della ragion pura cf. N.HINSKE,
La via kantiana alla filosofia trascendentale, 19-31. Per la genesi del problema e del concetto, cf. ivi, 33- 69.
29 Che l’intera prima Critica possa quindi essere considerata come un esercizio di riflessione trascen-
dentale è riconosciuto da Cf. R. K. WESTPHAL, «Noumenal causality reconsidered: affection, agency and meaning in Kant», 224. Per il resto, Westphal insiste proprio sul concetto di causalità noumenica che in questi paragrafi è in discussione.
che appare e il fenomeno. Si potrebbe, tuttavia, semplificare dicendo che un fenomeno è più di ciò che appare, nel senso stretto del termine «fenomeno». Lo si può considerare equivalente a ciò che appare, in un senso ampio del termine: ciò che appare è, infatti, almeno in potenza, un fenomeno. Corrispondentemente si potrebbe ipotizzare che, es- sendo la cosa in sé qualcosa di indeterminato, il noumeno le corrisponderebbe come il modo in cui essa sarebbe determinata da una conoscenza non umana. La cosa in sé sa- rebbe quindi la medesima cosa che appare, considerata a prescindere dalle condizioni sotto le quali essa viene intuita; diversamente, il noumeno sarebbe qualcosa di positivo, che non appare31.
Nella Nota all’Anfibolia, rimasta invariata tra la prima e la seconda edizione della
Critica, Kant distingue due possibilità di intendere gli oggetti semplicemente intellegi-
bili. Nel primo caso (p1) li si considererebbe come «quelle cose che vengono pensate
tramite categorie pure, senza alcuno schema della sensibilità» (A286/B342). Sebbene nella Dissertazione inaugurale Kant avesse difeso la possibilità reale di questi oggetti (cf. KGS II, 411-2), nella Critica egli prende da essi definitivamente congedo dichia- randoli impossibili32. Nel secondo caso (n1), l’unico possibile, i noumeni sarebbero
«oggetti dell’intuizione non sensibile» (A286/B342; cf. inoltre A253). Nel capitolo de- dicato a fenomeni e noumeni, così come rielaborato nella seconda edizione della Criti-
ca, Kant riporta una diversa distinzione fra i significati del termine «noumeno». In un
caso (p2) esso designa «l’oggetto di un’intuizione non sensibile» (B307), nell’altro (n2)
«una cosa, in quanto non è oggetto della nostra intuizione sensibile» (B307). Il signifi- cato negativo elaborato nella prima edizione (n1) viene qui inteso come positivo (p2=n1):
da esso Kant si congeda a favore del significato negativo elaborato nella seconda edi- zione (n2). In questo senso il ruolo del noumeno «non è escogitato arbitrariamente»
(A255/B311), ma serve per «circoscrivere la pretesa della sensibilità» (cf. A2567B311): è soltanto intendendolo in questo significato, elaborato nella seconda edizione della Cri-
tica, che il noumeno può essere considerato equivalente alla cosa in sé (cf. B307;
A254/B310; A256/B312; A259/B315; B423n)33. Anche il capitolo sull’antinomia rima-
ne pressoché invariato tra la prima e la seconda edizione della Critica. Ma questo prova anche che la risoluzione dell’antinomia, come possiamo ancora leggerla, doveva essere risultata idonea alla revisione della seconda edizione. Ripercorrendo questo testo, mi pa- re che, sebbene l’autore ceda talvolta a un lessico pre-critico, che lasci presupporre una concezione positiva del noumeno, le affermazioni kantiane siano tuttavia sostanzial-
31 H.E.ALLISON, Kant’s transcendental idealism, 57-8.
32 Sulla plurivocità della nozione di «mondo intellegibile» negli scritti pre-critici cf. K. KAWAMURA,
Spontaneität und Willkür, 105-6.
33 Si tenga presente che, nella fase che intercorre tra la prima e la seconda edizione della Critica, il
rapporto tra fenomeni e noumeni viene ancora descritto, almeno in alcuni casi, come di tipo causale, o comunque fondativo. Mi riferisco ad almeno due casi rilevanti. Il primo è tratto dai Prolegomeni: «In der Tat, wenn wir die Gegenstände der Sinne, wie billig, als bloße Erscheinungen ansehen, so gestehen wie hierdurch doch zugleich, dass ihnen ein Ding an sich selbst zum Grunde liege, ob wir dasselbe gleich nicht, wie es an sich beschaffen sei, sondern nur seine Erscheinung, d. i. die Art, wie unsere Sinne von diesem unbekannten Etwas affiziert werden, kennen». I. KANT, Prolegomena, KGS IV, 314-5. L’altro ca-
so è nella Fondazione. Cf. ID., Grundlegung, KGS IV, 451. Allison suggerisce che almeno in
quest’ultimo caso Kant avrebbe potuto scegliere di esprimersi in un linguaggio metafisico per il fatto che questo fosse più familiare ai suoi interlocutori. Cf. H.E.ALLISON, Kant’s Groundwork of the metaphysics of morals, 324. Si tenga presente che anche i Prolegomeni nascono come esercizio preparatorio alla prima Critica. Cf. I. KANT, Prolegomena, KGS IV, 261.
mente coerenti con la cornice concettuale definitiva della filosofia trascendentale. Ora, si è visto che la più forte delle critiche mosse dall’interpretazione compatibilistica a quella incompatibilistica riguarda la necessità, che quest’ultima avvertirebbe, di postula- re una realtà noumenica positiva, della quale si potrebbe invece fare a meno. Tenendo presente la concezione negativa del noumeno, se anche si volesse intendere la libertà – in senso incompatibilistico – come una forma di causalità noumenica, quest’ultima tut- tavia non comporterebbe alcuna realtà positiva, e si sottrarrebbe con ciò alla critica34.
Come è già stato osservato nello studio della risoluzione dell’antinomia, il problema di chiarire il concetto di «oggetto» si pone già nella prima versione della deduzione tra- scendentale delle categorie (cf. A104-9)35. In questo testo, il passaggio dal punto di vi- sta ontologico a quello trascendentale impone che un «oggetto [Gegenstand] corrispon- dente alla conoscenza, e quindi da essa distinto» (A104) – ovvero, come si chiarisce al termine del ragionamento, l’«oggetto non empirico, cioè trascendentale» (A109) – si de- finisca come «qualcosa in generale=x» (A104. A109): non lo si può, infatti, designare altrimenti, poiché non possediamo alcun elemento oggettivo al di fuori della conoscenza stessa. Più precisamente, la tesi per cui il concetto di un «oggetto della conoscenza» non possa identificare altro che un generico «x» ha due importanti significati. Essa mostra, infatti, che (1) nella prospettiva trascendentale, il problema dell’oggetto viene interna- lizzato e la domanda sulle condizioni di possibilità dell’oggetto si traduce in quella sulle condizioni di possibilità della conoscenza dell’oggetto; di conseguenza (2) l’oggetto, in quanto alter di una nostra cognizione, costituisce soltanto una possibilità residuale del pensiero.
Parte (1). Il fatto che una conoscenza sia «oggettiva» equivale a dire che la relazione tra conoscenza e oggetto viene concepita come «qualcosa di necessario» (A104). Ora, questa necessità potrebbe essere intesa in due modi. In un senso, la si potrebbe intendere come una necessità causale e materiale: essa dipenderebbe, cioè, dalle caratteristiche di un oggetto esterno alla conoscenza, in virtù delle quali esso affetterebbe in un determi- nato modo il soggetto. Quest’interpretazione troverebbe conferma nell’identificazione dell’oggetto con il termine tedesco «Gegenstand», che letteralmente significa «ciò che sta di fronte». Ma Kant sembra riferirsi alla necessità in un altro senso, normativo e formale. Come il filosofo si accinge immediatamente a chiarire, l’oggettività di una co- noscenza identifica una relazione necessaria nel senso che «l’oggetto viene considerato come ciò che si oppone al fatto che le nostre conoscenze siano determinate a casaccio o
34 Cf. R. MEERBOTE, «Kant on the non-determinate character of human actions», 160-161. Cf. anche
G. TOGNINI, Azione e fenomeno, 17 e 214-17. In questo caso bisognerebbe tuttavia chiarire in che modo
la libertà, fondata su una concezione negativa del noumeno, implichi l’incompatibilismo – di questo mi occuperò nel prossimo paragrafo e nelle sezioni successive. Una interdipendenza tra incompatibilismo e concezione positiva del noumeno è affermata in B. VILHAUER, «Incompatibilism and ontological priority
in Kant's theory of free will» (dalla priorità ontologica dei noumeni all’incompatibilismo) e ID., «Can we
interpret Kant as a compatibilist about determinism and moral responsibility?» (dall’incompatibilismo a una concezione positiva del noumeno). Per un’interpretazione della libertà come causalità noumenica cf. anche R. K. WESTPHAL, «Noumenal causality reconsidered: affection, agency and meaning in Kant»,
in particolare 241-4.
35 «Und hier ist es denn notwendig, sich darüber verständlich zu machen, was man denn unter dem
Ausdruck eines Gegenstandes der Vorstellungen meine». I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, A104. Se- guirò la ricostruzione di H. E. ALLISON, Kant’s transcendental deduction, 221-34. Su questo problema cf.
arbitrariamente» (A104, corsivo mio) e implica invece che queste ultime si accordino
«necessariamente l’una con l’altra» (A105, corsivo mio). Per potersi ritenere oggettive, le conoscenze «devono» (A105) – e in questo dovere sta, appunto, la necessità – essere «determinate in un certo modo a priori» (A104, corsivo mio): questo modo contraddi- stingue la «unità che costituisce il concetto di un oggetto» (A105), senza la quale, cioè, esse non sarebbero conoscenze di un oggetto. Tale unità coincide, per Kant, con la «uni- tà formale della coscienza nella sintesi del molteplice delle rappresentazioni» (A105). Tramite il riferimento alla coscienza, la nozione di «oggetto» si trasferisce dall’esterno all’interno del soggetto conoscente: tale nozione va, cioè, a coincidere con le forme – cioè i modi – in base alle quali la coscienza unifica, tramite discrete operazioni di sinte- si, i suoi contenuti in un «oggetto». L’oggettività di una conoscenza presuppone, pertan- to, una «unità sintetica nel molteplice delle rappresentazioni» (A105), le cui regole fon- damentali sono esplicitate dalla deduzione trascendentale. In particolare, nella prima versione della deduzione tali regole stabiliscono le condizioni per una triplice sintesi: quella dell’apprensione nell’intuizione, quella della riproduzione (combinazione) nell’immaginazione, quella della ricognizione nell’appercezione. Non sarebbe, infatti, possibile alcun concetto – e, corrispondentemente, alcun oggetto – se il molteplice che lo costituisce non fosse stato riprodotto nell’immaginazione e prima ancora appreso (si tratta di una relazione logica, non cronologica). Le norme che presiedono al lavoro con- cettuale si estendono, pertanto, all’immaginazione e all’intuizione36.
Per spiegare la funzione normativa dei concetti, Kant offre due esempi. Nella geome- tria «un triangolo» (A105) costituisce per noi un oggetto nella misura in cui il suo con- cetto offre una regola per la costruzione della figura nello spazio. Tale regola istituisce per noi una necessità: agli oggetti cui si applica il concetto di «triangolo» devono potersi applicare anche tutti gli altri predicati compresi in questo concetto (ad esempio, che la somma degli angoli interni è di 180° e così via). Nelle scienze naturali «un corpo» (A106) costituisce per noi un oggetto nella misura in cui il concetto corrispondente for- nisce una regola per la rappresentazione di qualcosa nello spazio. Anche in questo caso, una regola può dirsi tale nella misura in cui «rappresenta nei fenomeni dati la riprodu- zione necessaria del loro molteplice, quindi l’unità sintetica nella coscienza di essi» (A106): in particolare, agli oggetti cui si applica il concetto di «corpo» devono potersi applicare anche tutti gli altri predicati compresi in questo concetto (l’impenetrabilità, la
36 L’oggetto kantiano è stato in alcuni casi interpretato come un sistema, che implica il pensiero e con
esso le categorie che lo contraddistinguono. A. C. EWING, A short commentary on Kant’s Critique of Pu- re Reason, 87. Egli fornisce, peraltro, uno schema molto utile per chiarire la biunivocità tra unità dell’autocoscienza e unità dell’oggetto.
forma, etc.)37. Così anche un concetto puro esprime una regola prescrivendo a priori il modo in cui determinate rappresentazioni empiriche debbono essere unificate38.
Se, dunque, l’oggetto è – come si è detto all’inizio – «niente di più che un qualcosa, di cui il concetto esprime […] necessità della sintesi» (A106) e questa necessità dipende dalle funzioni concettuali, le quali riposano in ultima analisi sull’unità della coscienza, quest’ultima costituisce il «fondamento trascendentale» (A106) sulla base del quale possiamo intuire e conoscere, quindi la condizione di possibilità di un oggetto in gene- rale come anche di tutti i nostri oggetti empirici. Nei due paragrafi successivi, Kant i- dentifica, come condizione ultima dell’oggettività di una conoscenza, l’appercezione trascendentale (cf. A106-9), anticipando così la definizione dell’oggetto, nel capitolo dedicato a fenomeni e noumeni, come «correlatum dell’unità dell’appercezione» (A250).
In questa prospettiva, il concetto di un oggetto trascendentale coincide con il concet- to trascendentale di un oggetto: esso è «ciò che in tutti i nostri concetti empirici può procurare relazione ad un oggetto, cioè realtà oggettiva» (A109). Si tratta, cioè, di una nozione di secondo ordine, i cui predicati esprimono le condizioni sotto le quali soltanto qualcosa può costituire per noi un oggetto, sotto le quali – cioè – concetti di primo ordi- ne esprimono un riferimento oggettivo. Riferendosi alla costruzione di un oggetto nello spazio, i concetti matematici possiedono per definizione una funzione oggettivante. Non è così per i concetti empirici, la cui funzione oggettivante dipende dal rispetto di norme. Si tratta di norme trascendentali proprio perché per loro tramite si rende possibile il rife- rimento di concetti a oggetti, nella conoscenza. Queste norme sono le funzioni dell’unità sintetica della coscienza. Di conseguenza, la «relazione ad un oggetto tra- scendentale, ovvero la realtà oggettiva della nostra conoscenza empirica» (A109) di- pende dal fatto che i fenomeni si possano ricondurre alle funzioni della sintesi. Il con- cetto trascendentale dell’oggetto esprime «quell’unità che si deve incontrare in un molteplice della conoscenza, nella misura in cui si trova in relazione con un oggetto» (A109). Quest’unità è quindi quella «della sintesi del molteplice mediante una funzione comune dell’animo» (A109) la quale corrisponde alla «unità necessaria [cioè analitica] della coscienza» (A109). L’oggetto trascendentale costituisce, quindi, il punto di fuga nel quale convergono le norme trascendentali della conoscenza e come tale, considerato cioè positivamente, «è sempre lo stesso in tutte le nostre conoscenze=x» (A109). Nella misura in cui queste norme sono le funzioni sintetiche della coscienza, l’oggetto corri- sponde specularmente all’identità analitica del soggetto.
Risultato della parte (1) è quindi che appercezione trascendentale e oggetto trascen- dentale costituiscono due poli della conoscenza: il primo ne esprime la dimensione sog-
37 Kant si riferisce in questo esempio anche all’estensione, la quale – tuttavia – inerisce analitica-
mente al concetto di «corpo» e, pertanto, non costituisce un predicato significativo, poiché la regola che prescrive di applicare il concetto di «estensione» a ciò che riteniamo essere un «corpo» sarebbe una tauto- logia. La forza normativa del concetto si riferisce, invece, a tutti quei predicati che, pur non essendo ana-