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CARATTERE E AZIONE

2. Anomalia del mentale: la «linea kantiana» secondo Donald Davidson

2.3. Il carattere empirico e l’anomalia del mentale

Prendiamo quindi in considerazione più nel dettaglio la teoria dell’azione di Davi- dson insieme alla teoria dell’esperienza in Kant. Un primo punto di contatto riguarda il principio del carattere nomologico della causalità: come ricordato, anche secondo Kant nessuna causa potrebbe dirsi tale a meno di una legge che regoli il suo modo di operare. Anche la concezione davidsoniana di una legge potrebbe rientrare nella cornice kantia- na, per cui «giudicare se un enunciato è di carattere nomico o meno non vuol dire deci- dere semplicemente della sua verità; [...] la dichiarazione del carattere nomico dev’essere a priori»46: in altri termini, data un’asserzione generale, affinché valga come legge, è richiesto che essa sia non soltanto vera ma anche universale e necessaria, en- trambi caratteri che non possono essere stabiliti tramite l’esperienza ma soltanto pre- supposti. Potrei ad esempio formulare l’asserzione generale: «il narciso è un fiore blu» a partire da un certo numero di esperienze visive dello stesso fiore: quest’asserzione non sarebbe ancora una legge. Affinché lo sia, devo presupporre che essa abbia un valore normativo, per il quale ogni volta che (universalità) riconduco un oggetto sotto il con- cetto empirico di «narciso», esso deve essere (necessità) anche riconducibile sotto il concetto empirico di «blu». Diversamente che per Davidson, Kant intende tuttavia la normatività del principio causale in senso non empirico ma trascendentale: esso costi- tuisce cioè un principio dell’intelletto, a meno del quale non potremmo fare alcuna e- sperienza di eventi. Di conseguenza, da una parte esso coinciderebbe solo indirettamen- te con il determinismo naturale causale e dall’altra varrebbe sotto tutte le descrizioni possibili entro il mondo sensibile, sia mentali che fisiche. Per Davidson, in altre parole, il problema sta nel garantire l’universalità e la necessità del principio causale una volta che lo si sia definito empirico (ovvero l’irriducibilità del mentale al fisico qualora si presupponga l’universalità e la necessità del principio causale empirico); avendogli in-

45 D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 285. 46 D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 296.

vece conferito una dimensione trascendentale, Kant ha invece il problema opposto di garantire il rapporto tra trascendentale ed empirico.

Il cuore della teoria davidsoniana dell’azione risiede dunque nella questione dell’irriducibilità nomologica degli eventi mentali rispetto a quelli fisici. Secondo Davi- dson «se […] dovessimo imbatterci in una generalizzazione psicofisica vera e non sto-

castica, non avremmo ragione di crederla più che approssimativamente vera»47. Detto

altrimenti, i criteri dell’induzione non ci consentono di stabilire l’universalità e la neces- sità di una tesi se non comparativamente a un certo numero di casi verificati, cioè in senso esclusivamente probabilistico. Davidson adduce un’argomentazione intuitiva pre- filosofica e una filosofica, che vanno entrambe nella direzione di un «olismo del regno mentale»48. La prima, appoggiandosi all’esempio del comportamentismo, sostiene che in base alla nostra consapevolezza della complessità del mondo mentale e di quello fisi- co propenderemmo per diffidare di asserzioni universali e necessarie che li colleghino, e quindi faticheremmo ad accordare piena fiducia alla descrizione di un evento mentale in termini esclusivamente fisici. Saremmo piuttosto propensi a credere che un evento men- tale sia riconducibile ad altri dello stesso tipo, indefinitamente. La seconda ragione, tra- ducendo la prima in senso tecnico, sostiene che non potremmo in alcun modo provare la normatività di leggi psicofisiche, dal momento che esse non sarebbero, come per Kant, fondate su un principio trascendentale. Ad ogni modo, la normatività di una legge viene interpretata da Davidson come potere di convincimento: i criteri di universalità e neces- sità si traducono anche in questa seconda argomentazione in quello della certezza, rive- lando una concezione pragmatica della verità e della scienza49.

Come ricordato, secondo Davidson il processo di generalizzazione tramite il quale si perviene a un principio normativo è empirico. Egli distingue tra generalizzazioni omo- nomiche e eteronomiche: sono omonomiche quelle «generalizzazioni i cui esempi posi- tivi ci danno ragione di credere che la generalizzazione stessa possa essere migliorata aggiungendo ulteriori condizioni e limitazioni espresse nello stesso vocabolario genera- le della generalizzazione originaria»50; sono eteronomiche quelle «generalizzazioni che, una volta esemplificate, possono darci ragione di credere che vi sia all’opera una legge ben precisa, però tale da potersi formulare solo passando a un altro vocabolario»51, que- sta distinzione suonerebbe come una reminiscenza di quella kantiana tra antinomie ma- tematiche e dinamiche, delle quali le seconde prevedevano la possibilità che un membro della serie esplicatoria dal condizionato alla condizione fosse eterogeneo rispetto agli al- tri.

Che una generalizzazione sia omonomica richiede la coerenza con una cornice teori- ca forte. Quest’ultima – nella scienza fisica, per esempio, la misurabilità sulla base di un ordine di grandezza – implica un dominio concettuale (ad esempio, la definizione de- scrittiva di un’unità di misura) e leggi fondamentali che regolino i rapporti tra i suoi e- lementi (ad esempio, la definizione operativa dell’unità di misura). Nelle parole di Da- vidson «l’intero sistema di assiomi, leggi o postulati per la misurazione della lunghezza è parzialmente costitutivo dell’idea di un sistema di oggetti macroscopici, rigidi, fisi-

47 D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 296. 48 D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 297. 49 Cf. D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 300. 50 D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 300. 51 D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 300.

ci»52. In altri termini, un asserto coerente con il sistema di misurazione della lunghezza sarebbe omonomico rispetto al mondo fisico. In questo caso, la coerenza della genera- lizzazione con la cornice di riferimento, ovvero l’omonomicità rispetto al mondo fisico, sarebbe garantita dal rispetto di (i) un postulato di significato che stabilisce cosa sia una lunghezza, rispetto ad esempio ad altre unità di misura e (ii) un postulato di transitività per cui se a è più lungo di b, e b di c, allora c non sarà mai più lungo di a53. In genera- lizzazioni di questo tipo, una volta che le osservazioni le abbiano confermate, «non ab- biamo alcuna ragione di credere che possano essere precisate indefinitamente facendo uso di ulteriori concetti fisici»54, ovvero le si può riconoscere come leggi empiriche u- niversali e necessarie: vere fino a prova contraria, se si fondassero su una prova indutti- va, vere fino a un miglioramento della teoria, qualora la prova si intendesse in senso probabilistico. Come accennato sopra, in un certo senso le due prove coincidono.

L’eteronomicità di una generalizzazione si capisce in funzione della omonomicità. Detto altrimenti, affinché generalizzazioni di tipo mentale siano coerenti con una corni- ce teorica forte (quale sarebbe per Davidson una qualsiasi cornice di riferimento descrit- ta in termini fisici) è necessario che tali generalizzazioni vengano tradotte nei termini propri di quella cornice, ad esempio che gli atteggiamenti proposizionali si ritengano espressi dal comportamento linguistico o da altri comportamenti: sebbene non possiamo fare a meno di interpretare il comportamento esplicito degli agenti riferendolo agli e- venti mentali impliciti, di presupporre cioè una relazione inferenziale dai secondi verso i primi, «la vita è quel che è, non ci sarà una teoria semplice»55, ovvero leggi universali e necessarie che regolino questa relazione e ci consentano di conoscerla con certezza. La traduzione dal mentale al fisico è strutturalmente aperta. Di conseguenza «il carattere eteronomico degli asserti generali che collegano il fisico e il mentale va ricondotto a questa decisiva funzione della traduzione nella descrizione degli atteggiamenti proposi- zionali, nonché all’indeterminatezza della traduzione»56.

2.4. «Ragioni» e «cause»

Un’indicazione implicita in merito alla definizione positiva dell’eteronomicità ovve- ro dell’anomalia del mentale ci proviene da un altro saggio, nel quale Davidson intende mostrare in che modo gli eventi mentali possano interagire con eventi fisici e dunque esercitare un potere causale su questi ultimi.

Si può considerare un’azione «razionalizzata» allorché essa può essere spiegata da una «ragione», ovvero qualora si fornisca per tale azione «la ragione dell’agente nel fare ciò che ha fatto»57. Due sono le condizioni necessarie affinché una ragione R si possa considerare la «ragione primaria» di un’azione A sotto la descrizione d: «R consiste in un atteggiamento favorevole dell’agente nei confronti di azioni dotate di una certa pro- prietà, e in una credenza da parte dell’agente che A, sotto la descrizione d, ha questa proprietà»58; ed è inoltre richiesto che la ragione primaria di un’azione ne sia anche la

52 D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 302. 53 Cf. D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 301. 54 D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 300. 55 D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 303. 56 D. DAVIDSON, «Eventi mentali», 303. 57 D. DAVIDSON, «Azioni, ragioni e cause», 41. 58 D. DAVIDSON, «Azioni, ragioni e cause», 44.

causa59. La prima condizione stabilisce che la ragione primaria di un’azione consista nel binomio di un desiderio e una credenza, secondo un modello che si potrebbe far risalire a Hume60. Nella prima classificazione rientrano stimoli di varia provenienza, sia sensi- bili che intellettuali, «nella misura in cui essi possono essere interpretati come atteg- giamenti di un agente diretti verso azioni di un certo tipo»61. Nella seconda rientrerebbe «la convinzione, quantunque temporanea, che ogni azione di un certo tipo debba essere effettuata, o valga la pena di essere effettuata, oppure sia, a conti fatti, desiderabile»62. Si noti che la distinzione tra credenza e desiderio, della cui non ovvietà Davidson si mo- stra consapevole nell’apprestarsi a precisarla, è in fondo una distinzione tra contenuti di eventi mentali ovvero tra determinati attributi di eventi fisici, sebbene questi ultimi sia- no considerati sotto una descrizione non fisica.

La seconda condizione sembra gettare maggiore luce sulla prima, rivelando l’autentica preoccupazione dell’autore: «per la relazione tra una ragione e l’azione da essa spiegata, è fondamentale l’idea che l’agente abbia compiuto l’azione perché aveva quella ragione»63. Davidson sembrerebbe adombrare l’idea che, preso un set di inten- zioni (binomio desiderio-credenza) che possano esercitare una funzione esplicativa nei confronti dell’azione, soltanto alcune di esse costituiscono di fatto ragioni primarie per la medesima azione, e cioè quelle che, entrando nella catena causale naturale, interagi- scono con eventi fisici producendo degli effetti. Pertanto una ragione primaria è condi- zione sufficiente a rivelare un’intenzione (ovvero l’intenzione è condizione necessaria perché vi sia una ragione dell’azione, che altrimenti rimarrebbe inspiegabile) sebbene non sia vero il reciproco: «la funzione giustificativa di una ragione dipende dalla fun- zione esplicativa; ma la conversa non vale»64. La comprensione dell’azione non potreb- be per questo mai funzionare come un processo inferenziale dall’azione alle ragioni, ma è sempre un’interpretazione di quelle che fra le intenzioni abbiano funzionato come ra- gioni primarie: pur essendo le ragioni primarie delle cause, le spiegazioni delle azioni «non contengono una legge in modo essenziale»65. Quanto detto sopra in termini di tra- duzione dal mentale al fisico viene qui chiarito in termini di «ragioni» e «cause».