LIBERTÀ E FACOLTÀ DELL’ANIMO
1. Oggetto della conoscenza, giudizio e appercezione
La nozione di «appercezione» non è stata coniata da Kant. Al contrario, egli si inseri- sce in una tradizione già leibniziana, per quanto riguarda il significato epistemico del termine, ed ereditata, in un’accezione psicologica, dalla Scolastica tedesca1. Kant non elabora, tuttavia, in nessuna delle sue opere una trattazione sistematica sull’appercezione e questo rende senz’altro più difficile il compito di ricostruirne la teo- ria2. La nozione di «appercezione» compare, invece, all’interno di una trattazione più ampia, dedicata alla «deduzione» (B129) dei concetti puri dell’intelletto: ciò che Kant effettivamente ci dice è, quindi, il ruolo dell’appercezione nella sintesi giudicativa, tra- mite la quale si costituisce per noi un oggetto della conoscenza3. È, dunque, questa la trattazione a cui ricorro.
1 Nei Principi della natura e della grazia, Leibniz distingue due stadi della chiarezza di una cono-
scenza: la percezione, ovvero lo stato rappresentativo di una monade, e l’appercezione, nella quale i con- tenuti della conoscenza sono accompagnati dalla coscienza di sé. I Nuovi Saggi si soffermano proprio sull’autocoscienza epistemica propria dell’uomo: questi può infatti, riflessivamente, prescindere dai pro- pri contenuti di coscienza e rientrare completamente in sé, accedendo così alla conoscenza delle verità e- terne e delle idee innate. Sul significato epistemico dell’appercezione, Leibniz fonda quello personale e morale: il primo presuppone la semplice continuità delle rappresentazioni; il secondo e il terzo comporta- no una unità numerica e temporale del sé – in questo senso, la dottrina leibniziana dell’identità costituisce il riferimento per il secondo e il terzo paralogismo della ragione. Wolff, Baumgarten, Meier e Crusius impiegano la nozione leibniziana dell’appercezione nell’accezione descritta in queste ultime righe, inse- rendola all’interno di una teoria psicologica della conoscenza. Su questo tema, cf. W. JANKE, «Apperzep- tion» e ID., «transzendentale Apperzeption».
2 Di questo aspetto, Sturma offre una ragione filosofica oltre che strategica. Cf. D.STURMA, Kant über
Selbstbewusstsein, 11-2.
3 Tutta la prima parte della Logica trascendentale si concentra, d’altronde, sulle condizioni di possibi-
lità di una conoscenza in generale: è proprio questo il significato attribuito al termine «trascendentale» nell’Introduzione alla Critica. Cf. I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, A11/B25. Su questo tema cf. p. 48.
Privilegia questo aspetto, anche in riferimento all’appercezione, Pippin, secondo il quale l’Analitica tra- scendentale subordina una riflessione metodologica ed epistemologica – che riguarda, appunto, le pro- prietà formali e non materiali – a un’autentica preoccupazione per la metaphysica generalis, quella di po- ter parlare di ciò che è. Cf. R. PIPPIN, Kant’s theory of form, 10. Ciò si realizza, secondo Pippin, anzitutto
Diversamente dalla deduzione elaborata per la prima edizione della Critica, quella che compare nella seconda edizione riporta il principio dell’appercezione all’inizio della deduzione4. Ciò che Kant ci dice nel §16 dell’Analitica prende, però, effettivamente corpo soltanto nei §§17-20, nei quali si articola il tema della sintesi oggettiva (§17 e §18) che avviene nel giudizio (§19) per mezzo delle categorie (§20). Un’analisi di que- sti momenti può quindi essere d’aiuto per meglio comprendere anche il tema dell’appercezione5.
La tesi centrale del §20 dell’Analitica sostiene che «il molteplice che si trova in un’intuizione data sottostà necessariamente alle categorie» (B143). Essa costituisce non soltanto la conclusione del paragrafo in questione, ma anche dell’intera argomentazione condotta nella prima parte dell’Analitica: nei §§10-13, la «deduzione metafisica» (B159) ha, infatti, provveduto, introducendo la logica trascendentale, a mostrare la cor- rispondenza tra le categorie e le forme del giudizio, le quali di per sé perterrebbero alla logica generale6; nei §§16-18, la «deduzione trascendentale» (B159), che qui trova la sua prima parte, ha, invece, articolato il modo in cui si costituisce un oggetto nell’intelletto, ovvero una rappresentazione del molteplice come molteplice. Nel §19 il giudizio è stato definito come «modo di portare delle conoscenze date all’unità oggetti- va dell’appercezione» (B141): è, dunque, nel giudizio che l’oggetto (e l’unità che è tipi- ca di quest’ultima) e il soggetto di una relazione epistemica si corrispondono7.
insistendo sul concetto di «legge». Cf. ivi, 11. Un altro strumento è il nesso tra oggettività e soggettività. Cf. ivi, 14-7. Le «forme» cui si riferisce la filosofia trascendentale – tra queste, l’appercezione trascen- dentale ricopre senz’altro un ruolo privilegiato – rivelerebbero, dunque, velate assunzioni metafisiche (ad esempio, quelle legate al concetto di «spontaneità») che potrebbero fornire un importante riferimento per la filosofia pratica (in particolare, per il concetto di «libertà»). Cf. ivi, 220. Su un’interpretazione norma- tiva della spontaneità del pensiero insiste anche, illustrandone peraltro i limiti, D. STURMA, Kant über
Selbstbewusstsein, 35. Un’interpretazione strettamente funzionalista è elaborata da A.BROOK, Kant and
the mind. In particolare, Brook si concentra sui meccanismi cognitivi che presiedono alle nostre rappre- sentazioni intuitive e concettuali, tramite i quali si costituiscono per noi oggetti dell’esperienza. L’appercezione trascendentale, in quanto condizione di possibilità di questi meccanismi, assume pertanto un valore proto-cognitivo. Cf. ivi, 93. Pur astenendosi dal giudizio su questo argomento, Brook non e- sclude che questa interpretazione sia compatibile con una concezione materialista della mente. Cf. ivi, 22. Su un’interpretazione funzionalista, in senso psicologico, dell’appercezione trascendentale insiste invece Kitcher, che traccia anche lei una connessione tra la deduzione trascendentale delle categorie e gli interes- si della filosofia pratica. Cf. P. KITCHER, «Kant on self-identity», 42.
4 Per spiegare questo fatto è stato verosimilmente ipotizzato che, a differenza della prima versione del-
la deduzione, la seconda si collochi su un piano non tanto psicologico, quanto piuttosto logico- epistemologico. Sotto quest’ultimo punto di vista, l’appercezione costituisce la condizione ultima e dun- que il principio di ogni conoscenza. Su questa differenza cf. B. LONGUENESSE, Kant and the capacity to
judge, 59.
5 Il §17 è dedicato alla nozione di «oggetto», che è stata sufficientemente chiarita nel Capitolo IV di
questo lavoro. Il §18 si occupa invece di distinguere l’unità oggettiva dell’appercezione da una meramen- te soggettiva: questo tema sarà ripreso nella discussione dell’appercezione empirica. Al centro del presen- te paragrafo rimangono, pertanto, i §§19-20. In quanto segue mi rifarò principalmente alla ricostruzione di H. E. ALLISON, Kant’s transcendental deduction, 348-73.
6 Su questo aspetto cf. K.REICH, Die Vollständigkeit der kantischen Urteilstafel,
7 Si è chiarito, nel Capitolo IV di questo lavoro, che Kant definisce l’oggetto in funzione dell’unità
dell’appercezione, in senso debole, come mero correlato epistemico di quest’ultima e, in senso forte, co- me un molteplice dato nello spazio e nel tempo, in ogni caso riconducibile all’unità del soggetto. Cf. p. 145. Nella definizione appena fornita confluisce anche quella del giudizio come «Vorstellung der Ein- heit des Bewußtseins verschiedener Vorstellungen oder [...] Vorstellung des Verhältnisses derselben, so- fern sie einen Begriff ausmachen». Cf. I.KANT, Logik, KGS IX, 101. Longuenesse rintraccia inoltre, nei
Affinché si possa capire qualcosa dell’appercezione, bisogna dunque comprendere in cosa consista l’«unità oggettiva» che si manifesta nel giudizio, nella misura in cui essa si distingue da un’unità meramente soggettiva. Secondo Kant, l’oggettività si esprime tramite l’uso di un verbo nel modo indicativo: ad esempio, la copula «è» nel giudizio «il fuoco è caldo» (cf. B141-2). In questo caso, «la copula designa […] il rapporto di que- ste rappresentazioni con l’appercezione originaria, e la loro unità necessaria» (B142). L’oggettività è dunque legata a un tipo di necessità. Che non si tratti della categoria modale della «necessità», si chiarisce immediatamente: ogni giudizio, anche «allor- quando […] sia empirico, e quindi contingente» (B142) esprime tuttavia quest’unità og- gettiva, ovvero necessaria. Il filosofo approfondisce questa distinzione, spiegando che non è detto
che queste rappresentazioni appartengano necessariamente l’una all’altra nell’intuizione em- pirica, bensì […] esse appartengono l’una all’altra in virtù dell’unità necessaria dell’appercezione nella sintesi delle intuizioni, e cioè secondo quei principi della determina- zione oggettiva di tutte le rappresentazioni, dai quali può risultare una conoscenza: principi, questi, che a loro volta derivano tutti dalla proposizione fondamentale dell’unità trascenden- tale dell’appercezione (B142).
Kant sembrerebbe alludere qui non tanto al fatto che determinate rappresentazioni, in un’esperienza, siano date necessariamente insieme ad altre – ciò che dipenderebbe inte- ramente dal modo in cui il mondo esterno si configura – bensì al fatto che, per poter af- fermare, nel giudizio, una relazione oggettiva tra le rappresentazioni, devo presupporre che il loro rapporto sia normato da principi, e quindi riconducibile alla necessità espres- sa da questi ultimi. I principi di cui qui è il discorso sono le regole di applicazione dei concetti, implicitamente espresse dall’intensione di questi ultimi, siano essi empirici o puri8. Ad esempio, il concetto di «mela» esprime una regola, per cui a tutti gli oggetti
Prolegomeni e non solo, una più generica definizione del giudizio come «regola», che a suo dire ricon- durrebbe la seconda definizione alla prima. Cf. B. LONGUENESSE, Kant and the capacity to judge, 81-106.
In tutti e tre i casi si tratta di una definizione operativa del giudizio, che pone l’accento sulla sua funzione normativa. Tale definizione, pertinente alla logica trascendentale, approfondisce e spiega quella fornita poche pagine prima, appartenente alla logica generale, del giudizio come «mittelbare Erkenntnis eines Gegenstandes, mithin die Vorstellung einer Vorstellung desselben». I.KANT, Kritik der reinen Vernunft,
A68/B93. Il riferimento all’unità categoriale dell’appercezione, che verrà poi ulteriormente specificato tramite l’introduzione delle categorie, ha infatti il compito di spiegare in cosa consista la mediazione ope- rata dal giudizio. Sia chiaro che entrambe le definizioni, tanto quella operativa che quella descrittiva, non esauriscono il campo di tutti i giudizi possibili: esse escludono, ad esempio, quelli morali e quelli estetici ma anche, tra i giudizi teoretici, quelli matematici. In altri termini, il giudizio come mediazione individua esclusivamente quello tramite il quale un soggetto conosce un oggetto. Kant dichiara di preferire queste definizioni a quella classica del giudizio come «Vorstellung eines Verhältnisses zwischen zwei Begriffe». Cf. I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, B140. Egli osserva infatti che quest’ultima definizione è, sotto l’aspetto della logica trascendentale, troppo generica in quanto non spiega in cosa consista questa relazio- ne e, sotto l’aspetto della logica generale, troppo specifica perché esclude giudizi che non siano categori- ci, conducendo così alla fallacia delle quattro figure sillogistiche. Su questo punto cf. in particolare H. E. ALLISON, Kant’s transcendental deduction, 363-5.
8 Anche nei Prolegomeni, che si collocano tra la prima e la seconda edizione della Critica, Kant af-
fronta la questione della necessità propria dei giudizi, distinguendo tra giudizi d’esperienza e di percezio- ne: «Wenn ich sage: Erfahrung lehrt mir etwas, so meine ich jederzeit nur die Wahrnehmung, die in ihr liegt, z. B. daß auf die Beleuchtung des Steins durch die Sonne jederzeit Wärme folge, und also ist der Er- fahrungssatz so fern allemal zufällig. Daß diese Erwärmung notwendig aus der Beleuchtung durch die Sonne erfolge, ist zwar in dem Erfahrungsurteil (vermöge des Begriffs der Ursache) enthalten, aber das
cui esso si attribuisce deve potersi attribuire anche quello di «frutto» e quello di «cadu- co». Nel giudizio «non tutte le mele sono verdi» la particella «non» esprime una regola di applicazione dei concetti ad altri concetti, in base alla quale quel giudizio risulta esse- re negativo; l’aggettivo «tutte» esprime la regola per cui quel giudizio è universale, il verbo all’indicativo norma la categoricità e l’assertorietà del medesimo giudizio. Anche se nel primo caso («mela») si tratta di un concetto empirico, la necessità che caratterizza la norma che esso esprime non è minore di quella espressa dai concetti puri dell’intelletto9. È dunque questa la necessità in base alla quale soltanto
può nascere un giudizio, cioè una relazione oggettivamente valida, e che si distingua suffi- cientemente da quella relazione delle medesime rappresentazioni che avesse una validità semplicemente soggettiva, per esempio seguendo le leggi dell’associazione (B142).
Per chiarire questa conclusione, il filosofo offre un esempio.
In base a queste ultime [leggi dell’associazione], io potrei dire soltanto: se porto un corpo, lo sento gravare col suo peso; e non invece: esso, il corpo, è pesante. Dire questa seconda cosa significa che queste due rappresentazioni sono congiunte nell’oggetto, a prescindere cioè da quale sia lo stato del soggetto, e che non sono semplicemente raccolte nella percezione (per quante volte la si possa anche ripetere) (B142).
Sembrerebbe però che il giudizio «se porto un corpo, lo sento gravare col suo peso» esprima più di una mera associazione di rappresentazioni. Si è, infatti, detto che l’associazione corrisponde a un’unità meramente soggettiva delle rappresentazioni. Ri- ferendola esplicitamente a Hume, Kant sembra intenderla come una relazione tra rap- presentazioni sensibili (intuizioni), la cui ripetizione nell’esperienza produrrebbe una abitudine, ovvero una necessità soggettiva (cf. B127; A112-14 e A121-5). Quest’ultima basterebbe appena a fondare una legittima aspettativa che da antecedenti simili si abbia- no simili conseguenti. Come tale, una necessità soggettiva può costituire la base per l’eventuale applicazione di concetti puri, ma non può coincidere con essa. Ma l’applicazione in sé esprime sempre una relazione oggettiva. Così è anche nel giudizio «se porto un corpo, lo sento gravare col suo peso», la cui modalità è senz’altro ipotetica me nel quale, ciononostante, la coppia «se […] allora […]» esprime una regola necessa- ria per l’applicazione dei concetti, rendendo oggettiva l’unità che essi costituiscono. In altri termini, il parlante è ben consapevole della necessità soltanto soggettiva caratteriz- zante il giudizio che pronuncia. Viceversa, ogni giudizio, qualsiasi ne sia il contenuto, è più di una semplice associazione e l’unità dell’appercezione ne è garanzia ultima.
La «validità oggettiva», in senso ampio, consiste nella necessità normativa, formale (in quanto pertinente alla forma dei giudizi) o anche categoriale (in quanto dipendente
lerne ich nicht durch Erfahrung, sondern umgekehrt, Erfahrung wird allererst durch diesen Zusatz des Verstandesbegriffs (der Ursache) zur Wahrnehmung erzeugt». I. KANT, Prolegomena, 305 nota [corsivo
mio]. In questo contesto, Kant sembrerebbe riferirsi a una nozione materiale di necessità, che - consisten- do in quella modalità di giudizio, per cui qualcosa segue immancabilmente a qualcos’altro – caratterizza i giudizi di esperienza, ma non quelli di percezione. Per una discussione di questo problema cf. B. LONGUENESSE, Kant and the capacity to judge, 167-209. Il significato della distinzione tra sogget-
tivo e oggettivo è, inoltre, esplorato da H.HOPPE, Synthesis bei Kant.
9 La distinzione tra concetti empirici e concetti puri si traduce così in quella tra regole di primo e di
secondo ordine, per l’applicazione dell’intelletto ai contenuti della sensibilità. Cf. H. E. ALLISON, Kant’s
dalla funzione delle categorie in rapporto all’unità della coscienza) sopra descritta. Ogni giudizio la possiede nella misura in cui esprime la sussunzione del molteplice di un’intuizione in generale sotto l’unità dell’appercezione. In virtù di essa, ogni giudizio si riferisce a un oggetto nel senso forte del termine ed esercita una pretesa di verità. Essa si distingue tuttavia da un senso stretto di «validità oggettiva», consistente in una neces- sità materiale o fattuale (dipendente dagli schemi trascendentali): quest’ultima pertiene soltanto ai giudizi di esperienza (cf. B166-7), nella misura in cui essi esprimono la sus- sunzione sotto l’unità dell’appercezione, tramite le categorie, del molteplice di un’intuizione spazio-temporale10. Alla luce della distinzione tra un senso forte e uno debole del concetto di «oggetto», bisogna osservare che soltanto i giudizi si riferiscono all’oggetto nel senso forte del termine, poiché solo nei giudizi, tramite gli schemi tra- scendentali, le categorie si applicano alla sintesi di un molteplice spazio-temporale. In questo senso, già da un punto di vista logico-formale, Kant definisce i concetti quali «predicati di giudizi possibili» (A69/B94) e l’intelletto, poiché «facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile» (A51/B75), come «facoltà di giudicare» (A69/B94). La costituzione dell’oggetto, nel senso forte del termine, ha come condizione necessa- ria, sebbene non sufficiente, l’unità oggettiva dell’appercezione.