54 l’umorismo letterario quotidianamente, in un oculato ascolto di sé stesso e delle proprie instabi- lità. Lo si legge con grande chiarezza in questo bel brano tratto dal saggio intitolato Del pentirsi:
Io non posso fi ssare il mio oggetto. Esso procede incerto e vacillante, per una natu- rale ebbrezza. Io lo prendo in questo punto, com’è, nell’istante in cui m’interesso a lui. Non descrivo l’essere [Je ne peinds pas l’estre.]. Descrivo il passaggio [Je peinds le passage]: non un passaggio da una età all’altra […], ma di giorno in giorno, di minu- to in minuto. Bisogna che adatti la mia descrizione al momento. Potrei cambiare da un momento all’altro [Je pourray tantost changer], non solo per caso, ma anche per intenzione […]. Se la mia anima [mon âme] potesse stabilizzarsi, non mi saggerei, mi risolverei [je ne m’essaierois pas, je me resoudrois]: essa [l’âme] è sempre in tirocinio e in prova. (Montaigne, 1962, III, ii, trad. it. p. 1067)
Soggetto nel tempo, e soggetto del tempo, Montaigne riconosce la costi- tutiva instabilità dell’anima, che non solo è «variable en toute sorte de formes», ma che è capace di conformare «a sé e al suo stato, quale che sia, le sensazioni del corpo e ogni altro accidente» (ivi, I, xiv, trad. it. p. 71). L’anima è dunque ben lontana dal rappresentare una forma dell’essere, e appare piuttosto come l’espressione di una sintesi ideale con la quale ten- tiamo di imbracare il nostro inesorabile muoverci e modifi carci. Lo dice quasi subito, l’autore, quando spiega che: «Io non sono del tutto padrone di me stesso e dei miei impulsi» («Je ne me tiens pas bien en ma posses- sion et disposition»), giacché «l’occasione, la compagnia, il tono stesso della mia voce traggono dal mio spirito più di quello che vi trovo quando lo sondo e lo uso per conto mio» (ivi, I, x, trad. it. p. 49).
L’occasione, le condizioni puntuali e minute, fatte di quelle piccole va- riabili che caratterizzano la vita di ogni giorno, infl uenzano dunque l’esprit, la cui «disposition» – abbiamo letto nel dizionario di Furetière – va rife- rita alle “passioni che si muovono in noi seguendo la disposizione o l’agita- zione dei suoi quattro umori” («passions qui s’esmeuvent en nous suivant la disposition ou l’agitation de ses quatre humeurs»). Benché nel recente Dictionnaire de Michel de Montaigne (2007) non vi si faccia riferimento, gli umori hanno in eff etti ampio spazio nei Saggi di Montaigne, che mo- stra di conoscere bene la teoria che abbiamo descritto in precedenza (se ne legge una formulazione sintetica in Montaigne, 1962, II, xxxviii, trad. it. p. 307). Ma ciò era ovvio a quel tempo, giacché il sistema, elaborato dagli antichi e fi ltrato dalla lunga e accurata meditazione cristiana, faceva parte del lessico concettuale di base di qualunque persona colta (e forse addirittu-
montaigne, o la prospettiva 55 ra di qualunque persona in assoluto). Più interessante è invece notare l’uso specifi co che se ne fa in quelle pagine, soprattutto per ribadire «l’incostan- za delle nostre azioni», la fl uttuazione, per dirla con Petrarca, come di chi sia «trasportat[o], come le cose che galleggiano […] secondo che l’acqua è agitata o in bonaccia», in quanto «chaque jour nouvelle fantasie» («ogni giorno c’è una nuova fantasia») «et se meuvent nos humeurs avecques les mouvements du temps» («e si muovono i nostri umori secondo i movi- menti del tempo») (ivi, II, i, trad. it. p. 432).
Per Montaigne, che trascorre quasi tutto il tempo a sua disposizione nella splendida biblioteca di un castello mentre all’esterno si agitano im- ponenti confl itti politici e religiosi, questa condizione non è negativa; la mancanza di un’autorità centrale, di una sorta di acropoli platonica, nella quale la ragione si possa chiudere e comandare tranquillamente al corpo, governando le instabilità dei sensi, non è da lui avvertita con angoscia. Anzi, anticipando Pirandello di quasi quattrocento anni, eccolo aff ermare che, «se dipendesse da me foggiarmi a modo mio, non vi è alcuna forma [façon] per quanto buona nella quale vorrei essere confi ccato così da non sapermene distaccare». La vita, insomma, è già alla fi ne del Cinquecento in confl itto con le immagini rigide, giacché essa «è un movimento inegua- le, irregolare e multiforme». Chi volesse limitarsi a una sola fi gura si com- porterebbe da schiavo: non sarebbe «amy de soi» («proprio amico») e ancor meno maestro, guida di sé stesso («moins encore maistre»: ivi, III, iii, trad. it. p. 1085).
È tipico del lessico dell’Antico regime, esemplato spesso (come in que- sto caso) sul lessico della classicità greco-romana, contrapporre la con- dizione dello schiavo delle passioni a quella dell’uomo libero in quanto maître delle proprie azioni. Si tratta di un concetto già presente in Platone, ripreso nell’Etica nicomachea di Aristotele, riapparso in Cicerone e soprat- tutto in Seneca e poi ampiamente sviluppato nel mondo cristiano. Eppure Montaigne qui appare piuttosto originale, in quanto per lui la schiavitù consisterebbe nel costringersi ad assumere una sola “maschera” (per conti- nuare a citare Pirandello), mentre la maîtrise, o padronanza di sé, sarebbe invece quell’attitudine che permette al soggetto di accompagnare in ma- niera consapevole il movimento del tempo e così sintonizzarsi con l’evol- versi continuo dei propri sentimenti e delle proprie passioni.
In eff etti, la questione della maschera è fondamentale in questo nostro percorso nella storia dell’umorismo e della letteratura umorista, e per due ragioni: 1. perché l’umorismo è uno dei modi in cui più radicalmente si
56 l’umorismo letterario è realizzata nei secoli la critica della maschera, intesa come camuff amen- to della vera natura umana; 2. perché l’umorismo è espressione, al tempo stesso, di una maschera o, per dir meglio, è la produzione discorsiva di una certa persona, intesa etimologicamente come proiezione esterna di un determinato carattere individuale (la “maschera” del teatro antico). Il pri- mo aspetto verrà chiarendosi proseguendo in questo libro, ed è in ogni caso ben comprensibile quando si pensi alla carica aggressiva, appunto di “smascheramento”, che la comicità, l’ironia e la satira hanno sempre avuto, e continuano ad avere, nella comunicazione umana. Il secondo aspetto è invece più complesso, ed è alla base del concetto moderno di “soggetto”, che qui stiamo vedendo sorgere attraverso la letteratura.
Di recente, Alain de Libera ha proposto una ricostruzione analitica di questo processo, che a suo avviso si sarebbe realizzato attraverso un pro- fondo ripensamento di alcune categorie teologiche, prima tra tutte quella di “persona”. Non riprendo la complessa e aff ascinante discussione propo- sta da questo studioso; mi limito a ricordare che, alla fi ne di questo percor- so, John Locke potrà aff ermare, nel suo Essay Concerning Human Under- standing (1693), che l’identità (identity) di una persona (person) coincide con l’estensione, andando indietro verso il passato, della consapevolezza relativa alle azioni da lui realizzate («as far as this consciousuness can be extended backwards to any past action or thought, so far reaches the identity of that person»: II, xxvii, § 9) e che, anzi, l’identità personale non può risalire più indietro di dove arrivi una tale coscienza («personal identity reaching no further than consciousness reaches»: ivi, § 14). Il fi lo- sofo scozzese giungeva a queste dichiarazioni a seguito di un dibattito tra teologi cattolici e anglicani, le cui premesse si basano su quell’incontro tra teologia trinitaria e fi losofi a realizzatosi nel lungo periodo che va dai primi secoli dell’Era cristiana al secolo xvii e che, in particolare, fu riassunto nell’opera di Tommaso d’Aquino, nella cui Summa Th eologiae sono per la prima volta messi insieme il pensiero fi losofi co di Aristotele, attraverso il commento di Averroè, e l’opera teologica di Agostino. Incontro da cui scaturisce il concetto di persona che sarebbe poi divenuto abituale, e cioè quella «sostanza individuale di natura ragionevole che ha la padronanza dei suoi atti, e che non è dunque semplicemente agita come le altre, ma agisce di per sé stessa»3.
Agire o essere agiti: risiede qui, com’è evidente, la questione dell’im- putabilità tipica del soggetto moderno, cioè la responsabilità pubblica per le proprie azioni; ed è dunque qui che si stabilisce quella relazione tra
montaigne, o la prospettiva 57 “soggetto” e “persona” che è il «problema fondamentale da cui è uscita la nozione moderna di soggetto» (cfr. Libera, 2007, p. 343, il corsivo è nell’o- riginale). Montaigne ci aiuta a vedere quanto delicata sia questa relazione, soprattutto perché egli rifi uta, in maniera molto evidente, ogni immagine statica del soggetto (e quindi l’esistenza di una sola persona). Anzi, proprio la mobilità strutturale dell’io si contrappone al principio dell’imputabi- lità: non perché gli uomini non debbano essere ritenuti responsabili del- le proprie azioni (al contrario, i Saggi presuppongono un impianto etico piuttosto tradizionale, proveniente dalle fi losofi e ellenistiche e impronta- to al continuo esercizio di sé; cfr. Hadot, 2005; Montaigne: scepticisme, métaphysique, théologie, 2004), ma perché il soggetto viene riconosciuto come il prodotto di una serie complessa di forze che sono attive in lui, a partire proprio dall’infl uenza degli umori.
La questione del soggetto in Montaigne è stata aff rontata a suo tempo da Antoine Compagnon a partire dal problema del nome proprio. Si trat- ta di un tipico problema della logica e della linguistica, che deve spiegare lo statuto particolare di quei nomi che non rimandano a una categoria (con- creta o astratta che sia), ma a degli individui, e dunque a qualcosa di non universalizzabile: l’espressione “Michel de Montaigne” vuol dire qualcosa? Oppure essa si limita a indicare qualcuno? E si può dare conoscenza (cioè “scienza”) di un individuo, visto che è impossibile predicare al suo propo- sito qualcosa di universale, cioè attribuirgli qualcosa che valga al di fuo- ri della determinazione contingente di quell’individuo-là? Compagnon (1980, p. 25) ha spiegato che Montaigne mostra di aderire nei Saggi alla posizione nominalista, secondo la quale gli universali non esistono al di fuori del pensiero, sicché i concetti vanno considerati soltanto dei nomi, senza alcuna esistenza in re. Diffi cile dire se abbia conosciuto direttamente l’opera di Guglielmo di Occam, se abbia letto i testi della tarda Scolastica, o se sia arrivato a delle conclusioni apparentabili a quella fi losofi a medie- vale sulla base degli stoici e degli scettici antichi, che invece lesse con molta attenzione. Certo è, in ogni caso, che lo scrittore aderisce ai due principali “assiomi” del nominalismo, e cioè: 1. «gli universali sono delle parole»; 2. «solo gli individui esistono».
Si può notare, tra l’altro, che anche in questa prospettiva il problema dell’incarnazione di Dio e delle tre persone della Trinità resta decisivo, perché vi si pongono le due domande sulla predicabilità universale della natura di Cristo e sulla natura della distinzione tra le tre persone divine. Se una tale rifl essione non doveva essere priva di conseguenze dopo la chiu-
58 l’umorismo letterario sura del Concilio di Trento (1543-65) e nel pieno delle guerre di religione – e infatti l’autore dovette confrontarsi anche con la censura ecclesiasti- ca –, è più utile per la nostra ricostruzione soff ermarci sulla radicalità con cui Montaigne ribadisce la singolarità del soggetto umano, per esempio quando spiega che la «forme de nostre estre» («la forma del nostro esse- re»), «dipende dall’aria, dal clima e dal paese nel quale nasciamo», e non solo ne sono infl uenzati «il colore, la statura, la complessione e il modo di comportarci [contenances], ma anche le facoltà dell’anima» (Montaigne, 1962, II, xii, trad. it. p. 763). Date queste premesse, la variabilità dell’indi- viduo non consente alcuna risalita verso l’universale: l’uomo è singolare; la sua unicità è irriducibile a un’essenza astratta.
Come si farà, allora, a dire “io”? Lo stesso Compagnon (1980, p. 48) ha segnalato che la «tesi iperbolica» di Montaigne si basa sull’osserva- zione che lo stesso nome è regolarmente attribuito a più individui, sic- ché, paradossalmente, la “soggettività” non sarebbe predicabile per nessun “soggetto”. E tuttavia, grazie alla conoscenza della logica medievale – che a partire da Porfi rio (autore di una Isagoge, ossia introduzione, all’opera di Aristotele) e da Boezio aveva stabilito che «un predicato è attribuibile non solo a un’essenza intellegibile ma a un individuo concreto» –, egli poteva recuperare uno spazio per la determinazione individuale, per una riappropriazione della soggettività da parte del soggetto4. Come scrive nel
già citato saggio Del pentirsi,
ogni uomo porta in sé la forma intera [la forme entiere] dell’umana condizione. Gli autori si presentano al popolo con qualche segno particolare ed esteriore; io, per primo, col mio essere universale [par mon estre universal], come Michel de Montaigne, non come grammatico o poeta o giureconsulto. (Montaigne, 1962, III, ii, trad. it. p. 1068)
In questo modo, Montaigne si riappropria del nome facendosi autore. Ed è la materia del suo libro, cioè lui stesso, a fornire la “forma”, che è la via d’accesso all’«essere universale» di sé stesso. Un essere che si presenta come variazione continua, perché sempre sottoposto agli umori e alle pas- sioni dell’anima.
Anche se non è forse la parte più nuova del suo pensiero, per il nostro discorso può essere utile riferirci al saggio intitolato Della paura, la cui ri- fl essione è aperta da una dichiarazione interessante: «Non sono un buon naturalista (come si dice) e non so per quali impulsi [ressors] la paura agisca
montaigne, o la prospettiva 59 in noi; fatto sta, però, che è proprio una strana passione; e dicono i medici che non ve n’è un’altra che trasporti più rapidamente il nostro intellet- to [jugement] fuori del suo assetto naturale [deuë assiette]» (ivi, I, xviii, trad. it. p. 95). L’autore dichiara il proprio difetto di conoscenza; egli non è «bon naturaliste», ossia fi losofo naturale, come si chiamavano a quell’e- poca gli scienziati che indagavano le cause naturali dei fenomeni. Egli tut- tavia riconosce alla paura lo statuto di passion, anzi di «strana passione», capace di trascinare la ragione (o più precisamente il jugement, la facoltà del giudizio) dalla sua naturale collocazione, dal suo «assetto» abituale. L’ideale di ragione che qui Montaigne sembra abbracciare è quello classico di chi guarda il mondo esterno sicuro della propria incolumità, di cui Lu- crezio, come abbiamo visto, ha fornito un’effi cace immagine raffi gurando uno spettatore che assiste al naufragio di una nave mentre si trova al sicuro sulla terraferma (cfr. cap. 1). Naufr agio con spettatore, s’intitola il saggio in cui Blumenberg (1985) ha ricostruito la storia di quest’immagine dive- nuta, come recita il sottotitolo del suo studio, addirittura il Paradigma di una metafora dell’esistenza: la «metafora» è quella che abbiamo già visto nel capitolo dedicato a Petrarca, cioè la vita come un viaggio che tende a un porto sicuro; il «paradigma» è fornito dal rapporto tra la vita e la sua osservazione. Visto quel che abbiamo detto a proposito dello sguardo “in movimento” di Montaigne, è evidente che anch’egli si è soff ermato su que- sto modello concettuale, dimostrandone la profonda affi nità con la natura sostanzialmente maligna e invidiosa dell’essere umano.
Ma è interessante che il gentiluomo francese insista sul turbamento della ragione prodotto dalla paura; l’eff etto rapinoso e insieme rovinoso del timore consiste nell’errore razionale che ne consegue. E non manca di colpire che la rifl essione su questo turbamento sia attribuita ai «medici»: bisogna infatti essere «buoni naturalisti» per ragionare della paura. Ecco perché il capitolo si apre con una notevole citazione: «Obstupui, stete- runtque comae, et vox faucibus haesit» (“Rimasi stupito, i capelli mi si rizzarono in testa e la voce restò chiusa in gola”). Siamo nel secondo libro dell’Eneide, quando Enea racconta della distruzione della sua città. Ebbe- ne, la memoria dell’autore corre a questi versi perché vi si descrive il senti- mento della paura come reazione corporea distinta da quella della ragione. Si tratta di un’interpretazione di tipo fi siologico-naturale, secondo cui un’impressione proveniente dall’esterno s’imprime sull’anima sensitiva, la quale la elabora passandola all’anima intellettiva; in questo passaggio l’immaginazione gioca un ruolo decisivo, caricando l’immagine di aff et-
60 l’umorismo letterario tività. La ragione viene così spodestata dal suo alloggio abituale; al suo posto fanno irruzione i sentimenti. A questo punto, per quel rapporto che Montaigne ritiene ci sia tra spirito e corpo, per quella «estroite cousture de l’esprit et du corps», alla cui analisi il medico spagnolo Juan Huar- te de San Juan aveva dedicato l’Examen de ingenios (1575, cfr. cap. i, 3), il gentiluomo francese non può mancare di fare spazio alla corporeità, la quale non può essere «dissociata dallo spirito» (Desan, 2007a), in quan- to, come ha spiegato Starobinski (1993, p. 272), l’uomo è per lui «tout ensemble esprit et corps».