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Io, dunque, trovo in me «altre facoltà di pensare secondo certi particolari modi» (Cartesio, 1986c, p. 258), tra le quali c’è anche una passiva quae- dam facultas sentiendi (“una certa facoltà passiva del sentire”), che non può essere aggirata perché sono così congiunto, anzi, commixtum (“pro- fondamente intrecciato”) al meum corpus (“corpo-mio-qui”) da doverlo considerare come me totum, “tutto me stesso” (cfr. anche Cartesio, 1996a, pp. 174-8). A questo proposito, Marion ha spiegato che il meum corpus va considerato come una res extensa, che al tempo stesso «diventa indivisibile (unita), perché la sua funzione di passività l’associa intrinsecamente (la unifi ca) alla res cogitans, il cui modo ultimo, il sentire, non diventa ope-

cartesio, o la corporeità 99 rativo se non per suo mezzo». Di conseguenza, «la mens resta forma so- stanziale del “suo” corpo soltanto perché senza di lui non potrebbe pensare secondo tutti i modi di una res cogitans». Insomma, l’unione tra le due res non conosce gerarchie; non c’è subordinazione di una parte più umile ri- spetto a una più illustre. Il corpo, anzi il corpo-mio, è necessario all’intellet- to per poter svolgere tutte le sue funzioni; altrimenti questo sarebbe una «sostanza pensante in maniera asfi ttica, ristretta a ciò che il suo pensiero attivo può produrre, autarchica e dunque orfana del sensibile, cieca, sorda, anestetizzata, letteralmente insensibile» (Marion, 2011, pp. 205, 211).

Marion stesso ha sottolineato la presenza di due hapax, a suo avviso molto signifi cativi, presenti nel lessico di questi fondamentali passaggi delle Meditazioni. Si tratta dei termini arrivement e avenir, che indiche- rebbero la forma dell’emersione, dell’avvento; la comparsa improvvisa e sorprendente, di qualcosa che s’impone, nella sua presenza, come qualcosa di diverso da me. È, alla lettera, l’inopinato, ossia ciò che accade in manie- ra impensata, senza averlo previsto in anticipo, e che agisce sui bordi del pensiero, su quella zona in cui si esercita il dominio dell’immaginazione, cui la res cogitans deve necessariamente rivolgersi in quanto è «arcte co- niuncta», cioè “strettamente congiunta” al suo corpo. Questa stretta con- giunzione fa sì che io percepisca il corpo-mio come qualcosa di diverso dagli altri corpi, i quali mi si presentano come pura estensione: è appunto questa percezione a permettere l’avvento, improvviso e impensato, della soggettività come di qualcosa che non è solo attività di pensiero, ma anche passività, impressione paziente del mondo esterno.

La questione può essere spiegata anche dal punto di vista fi siologico, ricordando che Cartesio (1996a, art. 7) ritiene che le sensazioni siano pro- dotte dai movimenti degli spiriti animali (esprits animaux), i quali corro- no lungo le cavità interne dei nervi, il cui complessivo sistema si presenta come una rete che unisce il cervello a tutte le parti del corpo. Se si conside- ra che l’anima, secondo il trattato dedicato, appunto, alle Passioni dell’a- nima, si trova dentro il cervello (ivi, art. 34), e più precisamente in una piccola ghiandola (generalmente conosciuta come “ghiandola pineale”), si capirà che anima e corpo sono davvero arcte, cioè “strettamente” unite. E tanto più ciò risulta lampante quando si consideri che già in L’Hom- me, la sezione del trattato generale di fi sica cui lavorò tra il 1630 e il 1633, Cartesio aveva aff ermato che la ghiandola del cervello (lì chiamata “ghian- dola H”) «è la sede dell’immaginazione e del senso comune» (Cartesio, 1986b, p. 124). La phantasie, insomma, si trova dentro il cervello, ed è ca-

100 l’umorismo letterario pace di muovere il corpo e al tempo stesso di riceverne le impressioni sen- soriali grazie al movimento degli spiriti animali che corrono lungo i nervi, dall’organo ricettore fi no alla ghiandola.

Si può allora concludere, ancora con Marion (2011, p. 237), che «in senso stretto, avere delle sensazioni non signifi ca tanto sentire un’altra cosa diversa da sé, e nemmeno provare la propria carne (meum corpus), quanto piuttosto sentire sé, sentirsi risentire e sentire che solo questa pas- sione di sé fornisce all’ego un accesso alla sua propria fenomenalità». Il soggetto moderno, fondato a partire dall’esaurimento del mondo, si ri- trova vincolato inestricabilmente alla sua carne, attività di pensiero che deve necessariamente patire per poter essere pensiero. È questa la singola- rità, cioè il vincolo di una mente a questo corpo-mio-qui; singolarità che Cartesio battezza con una parola che ormai conosciamo bene: ingenium (cfr. Santinelli, 1999, p. 203; cfr. anche Cartesio, 2000b, regula xii). Altro che aver cancellato le ragioni del corpo per lasciar apparire un ego fatto di sola rifl essione astratta, altro che aver realizzato un’autofondazione basata sull’esclusivo primato del pensiero e sull’assolutezza della Mens, il pensa- tore con il quale abitualmente si fa iniziare l’età moderna mostra dunque di aver ampiamente compreso la “passività” fondamentale del soggetto: il suo essere esposto alla mutevolezza del corpo, al cambiamento delle pro- spettive, all’improvviso, della corporeità.

Le oscillazioni, i fremiti, le intemperanze non sono soltanto accidenti del corpo, ma si presentano come elementi costitutivi della soggettività moderna. La genealogia del soggetto, che abbiamo inseguito a partire dall’opera di Petrarca, risulta allora non la storia di un’acquisizione lineare e progressiva, ma l’emersione di un modo di pensare l’essere umano come un singolo costituito da forze contrastanti. Un contrasto giocato tutto all’interno del corpo, giacché qui convergono sia le spinte provenienti dall’esterno (attraverso le percezioni) sia quelle provenienti dall’interno (con l’impulso dei grandi bisogni fi sici). A partire da questo modello di individualità, Cartesio verrà infi ne indotto a parlare delle rêveries come di un’erranza che il pensiero si concede attraverso le «tracce delle diverse impressioni» depositatesi nel cervello (Cartesio, 1996a, art. 21)6. Su que-

sta instabilità costitutiva dell’uomo, su questa tensione costante tra la di- spersione centrifuga nel mondo e la riappropriazione centripeta di un io: su questa contraddizione strutturale si fonda la cultura dell’umorismo7.