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Dall’oralità alla scrittura, e ritorno

Se i tre spazi che abbiamo individuato sono stati ulteriormente arricchiti, come vedremo tra breve, dalla nuova realtà settecentesca dei caff è e dei circoli privati, colpisce osservare che essi furono tutti caratterizzati da una certa tendenza a ibridare forme dell’oralità e della scrittura. È quanto ac- cadde già nel secolo xv, quando i cenacoli umanistici sparsi su gran parte del territorio italiano trovarono un omologo letterario in quel recupero del genere dialogico che si sviluppò dalla tradizione platonica e ciceronia- na, spesso associata alla riscoperta degli scritti di Luciano di Samosata: intellettuali del calibro di Leon Battista Alberti e Giovanni Pontano ri- presero questi spunti, realizzando opere in cui argomenti dotti e questioni cruciali della vita politica venivano aff rontati in maniera scherzosa e para- dossale (si pensi al Momus del primo e al Charon e all’Asinus del secondo). Su questa stessa linea avrebbero continuato gli scrittori cinquecenteschi, che di solito abbandonarono però il latino optando per le lingue moderne, così da favorire una più alta illusione di mimesi delle conversazioni reali, che avevano luogo nelle corti o nelle dimore private dei signori e degli intellettuali in vista.

Senza entrare nel dettaglio della ricchissima produzione dialogica del secolo xvi italiano, basta esporre il caso signifi cativo di una lettera che Pietro Aretino inviò il 6 giugno 1537 al fi losofo Sperone Speroni. Ringra- ziando l’amico padovano per avergli regalato qualche giorno prima il ma-

174 l’umorismo letterario noscritto di una sua opera intitolata Dialogo d’amore, lo scrittore e «fusti- gatore dei principi», residente a quel tempo a Venezia, gli raccontava che poche sere prima

il Grazia con la graziosa maniera ha recitato in casa mia graziosissimamente il vostro Dialogo, a la cui nova armonia, senza più respirare, due dì, uno doppo l’al- tro, stetero appese le caste e dote orecchie del buon Fortunio e le mie, quali esse si sieno. (Aretino, 1997, pp. 209-11)

Nella sua lettera di cortesia, esprimendosi in maniera faceta ed elegan- te, noi diremmo “umoristica”, Aretino spiegava che per due giorni ave- va ascoltato (e c’è da supporre, aveva commentato), insieme a Giovanni Francesco Fortunio, la lettura ad alta voce del dialogo realizzata dal co- mune amico Niccolò Grassi, detto il Grazia. Aretino e i suoi commensali avevano insomma passato il tempo in maniera «onorata», dedicandosi alla rifl essione sul tema dell’amore, e al tempo stesso si erano intrattenuti in maniera piacevole inscenando una piccola rappresentazione teatrale. Già la sola pratica di leggere ad alta voce un testo mostra quanto fossero rilevanti in questa cultura le istanze di un’antropologia della presenza e dell’oralità, capaci di attrarre anche le pratiche più formalizzate dell’ela- borazione letteraria. Ma il caso diventa ancora più interessante quando lo si osserva da vicino. Grazia, cioè l’interprete del dialogo – e dunque colui a cui era stato affi dato il compito di recitarlo ad alta voce –, era infatti anche uno dei protagonisti principali del dialogo di Speroni, la cui “voce” era stata pertanto “trascritta” nell’opera. Si produceva in questo modo un vero e proprio cortocircuito tra oralità e scrittura, che era al tempo stesso una collisione assai suggestiva tra realtà e fi nzione: le battute di un perso- naggio letterario, che aveva il nome di un uomo reale (creando così una confusione tra realtà biografi ca e fi nzione letteraria), venivano lette non solo in un contesto reale (la casa privata di un personaggio di primo pia- no nella vita culturale di quegli anni) ma proprio da quello stesso uomo che aveva dato il nome al personaggio. Se si aggiunge che questa lettera sarebbe stata pubblicata l’anno dopo nella prima raccolta delle Lettere di Aretino, si vedrà l’intreccio tra lo spazio privato, che è al tempo stesso ora- le (la conversazione tra amici) e scritto (la comunicazione epistolare), e lo spazio pubblico, che è soltanto scritto (la circolazione di uno o più libri). Quando infi ne, nel 1542, il Dialogo d’amore sarebbe stato pubblicato per la prima volta a stampa, ogni lettore – e così è ancora oggi per noi – avrebbe

la pagina e la voce 175 potuto constatare questa intricata sovrapposizione, diventando a sua volta compartecipe di una trama letteraria in cui oralità e scrittura, spazio pri- vato e spazio pubblico, realtà e fi nzione erano inestricabilmente mescolati. Un fenomeno analogo è stato osservato da Craveri, che insieme ad altri studiosi ha messo in evidenza la trasposizione scritta del brulicante chiacchiericcio tipico dei salons francesi, in cui la vita mondana, «por- tata ad analizzare e a commentare costantemente sé stessa», fi nì con lo sconfi nare «insensibilmente, quasi involontariamente, dall’oralità alla scrittura» (Craveri, 2001, p. 76). Ciò accadde in molti modi: innanzitut- to negli scambi epistolari che, inserendosi nell’antica consuetudine della relatio, cioè del resoconto di eventi ritenuti signifi cativi o importanti a persone lontane che non avevano potuto parteciparvi, fi ssavano su carta «l’effi mero della parola, dei gesti, delle situazioni irripetibili»; vi erano poi gli aneddoti e i ritratti di persone famose, che riempivano le pagi- ne dei libri di memorie; e anche le «migliaia di versi destinati non alla lettura ma all’ascolto e che, tuttavia, fi nivano per circolare manoscritti» (ibid.); vi erano infi ne gli Ana, cioè le raccolte di frasi e pensieri attribuiti a un autore o una persona famosi e pubblicati sotto quel nome seguito dal suffi sso -ana. Si trattava di una delle forme principali di diff usione dell’umorismo, giacché queste raccolte contenevano soprattutto battu- te, pointes, motti, barzellette, storielle piccanti e divertenti, sulla scorta peraltro della pratica tipicamente italiana – iniziata ai primi del Quat- trocento da Poggio Bracciolini – delle compilazioni di facezie (su cui cfr. Fontes-Baratto, 1987).

Se gran parte di questi materiali transitavano dall’oralità alla scrittura per tornare però nel mondo caldo della conversazione mondana, giacché i libri che li raccoglievano off rivano un modello da imitare e soprattutto degli “esempli” concreti da utilizzare, era però anche possibile una sorta di “parassitazione” dello scritto da parte dell’oralità. È il caso delle memorie, che sono una derivazione scritta delle conversazioni mondane anche dal punto di vista dell’impostazione linguistica e della ricerca dello stile. In quanto «redatte per lo più al crepuscolo della vita», esse si presentano come «improvvisazioni orali scritte»: più che «raccontare la storia del loro autore o quella del suo tempo», le memorie «riassumono le rifl es- sioni, i commenti, le cose viste e riferite, i ritratti e i caratteri raccolti in una vita di conversazione» (Fumaroli, 2001, p. 156). In questo modo, gli scritti di ricordi costituivano una sorta di registrazione in diff erita delle conversazioni realmente verifi catesi decenni prima, o almeno si propone-

176 l’umorismo letterario vano come la continuazione solitaria, mentale, di quella frequentazione mondana di cui l’autore aveva fatto parte in passato.

Ci sono poi altre forme, più letterarie, di contaminazione tra oralità e scrittura. Come nel caso del già menzionato Clélie, ammiratissimo roman- zo di Madeleine de Scudéry, nel quale si può leggere un cospicuo numero di brani di conversazione fi ttamente intercalati alla trama narrativa, tanto che la stessa forma romanzesca si indebolisce a causa della dispersione del racconto nei singoli, numerosi argomenti aff rontati nelle parti dialogiche. I dialoghi, appunto, dovevano risultare particolarmente interessanti per i lettori dell’epoca, se è vero che l’autrice li avrebbe poi pubblicati in dieci volumi autonomi qualche anno dopo, con il titolo di Morale du monde ou conversations.

La conversazione infl uenzò dunque stile e lingua del Seicento francese, fornendo le basi concrete per un certo ideale di chiarezza, misura e ra- zionalità. Era tutto un colore, un’allure di tipo genericamente intellettua- le a orientare il goût du monde, sempre più caratterizzato dall’analisi dei caratteri, dall’eleganza fredda dello stile, che avrebbe fi nito con il deter- minare la letteratura d’Oltralpe nel suo complesso. Stile medio, esigenza di chiarezza e limpidezza razionale sono del resto i caratteri considerati tipici della cultura letteraria francese, almeno da quando le idee di Carte- sio cominciarono a diff ondersi. Ma a questi occorre aggiungere anche una certa propensione alla teatralità, la tendenza ad apprezzare le competenze performative, come dimostra la nuova importanza attribuita alla voce, al suo timbro, al suo tono e volume, sino ad arrivare alla posizione estrema – attribuita a Ninon de Lenclos (il cui salon fu all’epoca celeberrimo) – secondo cui vi sarebbe una continuità tra l’arte della conversazione e la musica, dove la voce è accompagnata dal liuto (Salazar, 1995; 1999, p. 803).

La centralità della voce non escludeva però, come abbiamo visto nel caso della lettera di Aretino a Speroni, una forte valorizzazione dell’in- crocio tra oralità e scrittura, che si accompagnava alla sovrapposizione tra vita associata (conversazione nel senso di “brigata” o “comitiva” solita riunirsi in un certo luogo) e modellizzazione letteraria. La Francia forni- sce un notevole esempio di trasferimento dal mondo caldo della compre- senza conversante al mondo in apparenza siderale della pagina scritta: si tratta della celeberrima Carte du Tendre, inserita nel primo volume del già ricordato Clélie. Il Pays du Tendre (“paese della tenerezza”) è un luogo im- maginario costituito da tre città dislocate lungo il corso di un fi ume, che rappresentano le diverse fasi dell’innamoramento e dell’amore. Si trat-

la pagina e la voce 177 tava, come ha spiegato Benedetta Craveri, di un percorso iniziatico a cui il personaggio Saff o (che rappresentava l’autrice, Madeleine de Scudéry) sottopone Acante (sotto cui si nascondeva Paul Pellisson, un suo cor- teggiatore) per poterlo promuovere come amico del cuore. Non si tratta però soltanto di immaginazione letteraria, giacché, come sappiamo gra- zie alla testimonianza dello stesso Pellisson, la situazione si era realmente verifi cata in una delle serate presso Madame de Rambouillet. Una situa- zione privata in cui, in compagnia di pochi e selezionati amici, la regina del salotto aveva recuperato il gusto medievale di costruire uno spazio immaginario, animandolo di signifi cati allegorici (si pensi al giardino nel Roman de la rose di Jean de Meung e Guillaume de Lorris) e conferendo- gli un nuovo signifi cato mondano e galante. Lo spazio immaginario pren- deva infi ne la forma di una vera e propria carta geografi ca, rappresentante un luogo ideale e inserita come supporto visivo nel racconto di una storia d’invenzione, destinata a sua volta a diventare un modello per le succes- sive pratiche di vita comunitaria, cioè per altre conversazioni (cfr. Lacan, 1975; Bruno, 2006).

Dalla Francia proviene anche un secondo esempio di intreccio tra prati- che discorsive e letteratura, particolarmente importante, come il lettore di questo libro comprenderà subito, per la storia dell’umorismo. Si tratta del caso di Montaigne, i cui Saggi hanno fornito, ancora a parere di Fumaroli, «il modello francese e moderno della conversazione». In quanto «vasta improvvisazione dettata o scritta, i Saggi conservano l’impulso spontaneo, il tono amichevole, le divagazioni impreviste di un colloquio familiare e socratico», che dai lettori eff ettivi si estendeva agli antichi, i quali, come accadeva del resto già in Petrarca e in Machiavelli, «ridiventano interlo- cutori di una discussione appassionante». A partire da Montaigne e per i due secoli successivi tutti i generi letterari, compresa la poesia, si metteran- no in Francia al servizio «della conversazione, della vivacità, dell’urbanità e lucidità mordace e brillante». I Saggi «inaugurano la socialità orale e la civiltà dei costumi» così caratteristiche, ha concluso Fumaroli, della cul- tura francese di Antico regime (cfr. Fumaroli, 1997, pp. 456-7)1.

Dal nobile esercizio di costruzione soggettiva realizzato da Montaigne (cfr. cap. 2) si passava così senza alcuna soluzione di continuità alle ben poco eccellenti raccolte di massime, pensieri, rifl essioni e aneddoti rappre- sentate dagli Ana secenteschi e da altre pratiche archivistiche della mon- danità del tempo, come per esempio quei Manuscrits lasciati in eredità ai posteri da Mademoiselle de Lespinasse, nei quali si rifl ette una «cultura

178 l’umorismo letterario del frammento» che, collocata «al confi ne tra oralità e scrittura», inten- deva salvaguardare il pulviscolare chiacchiericcio aristocratico, affi dandolo alla solidità del testo scritto, così da poterlo riproporre nuovamente alla società dei salons «come nuovo oggetto di commento e di conversazione» (Craveri, 2001, p. 426). Aveva dunque davvero ragione Montaigne quando scriveva che «nous ne faisons que nous entregloser» (“gli uomini non fan- no altro che commentarsi tra di loro”), secondo le tipiche strategie di una cultura del riuso che ancora Fumaroli ha effi cacemente descritto:

I mots, le battute che riassumono in modo pertinente un pensiero estemporaneo, che s’improvvisano nel benessere stimolante di un ambiente ricco di talenti, che s’imprimono nella memoria e divertono l’immaginazione, contribuiscono a pro- durre quell’ebrezza leggera senza la quale non esiste conversazione. Queste argu- zie settecentesche, anch’esse raccolte sotto forma di ana, diff use in tutta Europa, riempiono volumi e volumi. (Fumaroli, 2001, p. 187)

Volumi e volumi… Proprio come nel Cinquecento italiano, quando si dif- fuse la moda di raccogliere facezie e battute divertenti, anche in Francia i libri che pubblicavano facezie e arguzie continuavano a rivelarsi strumenti utili per il riciclaggio di materiali effi caci nella conversazione mondana.

C’è, a questo proposito, una divertente testimonianza contenuta nelle Lettere persiane (1721), in cui il barone di Montesquieu fi nge di raccoglie- re lo scambio epistolare tra due viaggiatori persiani, Usbek e Rica. Adot- tando il punto di vista esotico di un uomo proveniente da un mondo a quel tempo lontanissimo com’era il Medio Oriente, Montesquieu poteva ironizzare sulle caratteristiche principali della società del suo tempo, mo- strandone gli automatismi linguistici e i più tipici pregiudizi culturali. Tra le lettere nelle quali sono descritte e commentate le abitudini pari- gine, ce n’è una in cui Rica racconta a Usbek l’animata discussione che quella stessa mattina ha per caso ascoltato tra due francesi alloggiati in una camera d’albergo adiacente alla sua. Uno di loro si lamentava di non riuscire a riscuotere l’agognato successo in società perché accolto con freddezza dalle dame dei salotti da lui frequentati: a nulla gli erano servite le storielle, gli aneddoti, i bon mots che aveva attentamente preparato; le tre o quattro «vielles dames», arbitre indiscusse di quell’ambiente, non lo avevano nemmeno ascoltato. L’altro si off re allora di fargli da spalla: entrerà ridendo nei salotti dicendo a tutti di avere appena ascoltato da lui una splendida storiellina, e gli chiederà, con il massimo candore del mondo, di ripeterla a giovamento dei presenti: «Travaillons de concert à

la pagina e la voce 179 nous donner de l’esprit», “lavoriamo insieme per procurarci dello spiri- to”; «ci accorderemo con dei segnali convenzionali della testa. Oggi sarai tu a brillare; domani tu sarai il mio secondo». Entreranno così nei diversi salotti a volte limitandosi ad approvare quel che dirà l’altro, a volte con il sorriso ben visibile sulle labbra, altre volte ancora scoppiando a ridere a bocca aperta per simulare un gran divertimento («rire tout-à-fait et à gorge déployée»): così fi niranno con il trionfare addirittura in Acca- demia, applauditi da tutti. Ma per risultare vincitori in una bataille così impegnativa è necessario studiare, perché dipende tutto dai modelli che si scelgono («tout depend d’avoir des modèles»). E allora «sarà oppor- tuno comprare quei libri, in cui si raccolgono motti di spirito, composti a uso di quelli che non ne hanno, di spirito, e che pertanto vogliono fi ngere di averne» («Il faudra acheter de certains livres qui sont des recueils de bons mots composés à l’usage de ceux qui n’ont pas d’esprit, et qui en veulent contrefaire»: Montesquieu, 1949, pp. 209-11). Eccolo dunque, nelle parole di un autore d’inizio Settecento, il circolo semiotico così ti- pico di quella cultura: dall’oralità primaria delle serate galanti alla trascri- zione scritta delle migliori conversazioni, e dalla scrittura delle raccolte di motti e storielle all’oralità secondaria di chi ricicla battute imparacchia- te a memoria. Su quei libri si costruiva il tessuto dell’opinione comune, dell’endoxa condivisa nella società del tempo: a uso di quanti, ed erano numerosissimi, avevano l’ambizione di riuscire in società, mostrandosi abili e brillanti conversatori, uomini di spirito pieni di humour, profondi conoscitori delle regole della mondanità.