Ma che cosa signifi ca la parola che Montaigne ha scelto per la sua scrittu- ra? Che cosa voleva dire essai, “saggio”, per un uomo della fi ne del Cinque- cento? In uno dei primi vocabolari della lingua francese, la Bibliothèque fr ançaise pubblicata nel 1584 da François Grudé, signore di La Croix du Maine, il termine è spiegato come «coup d’essai, ou apprentissage», cioè “primo tentativo, o apprendistato”. Al plurale, «essais ou expériences» sono invece quei «discours» pronunciati «pour se façonner à autrui»: saggi ed esperienze sono degli enunciati (dei discours) rivolti a se façon- ner, cioè a conformarsi agli altri (autrui) (cfr. Desan, 2007b). È un aspetto tipico della cultura dell’Antico regime, che fece della conversazione un atto sociale di primaria importanza (cfr. più avanti, cap. 8), dedicando alla pratica del discorrere un’intensa attività di rifl essione teorica e di inse- gnamento pratico, a partire dall’esperienza italiana inaugurata dal trattato latino De sermone di Pontano e soprattutto dal fondamentale Libro del Cortegiano (1528) di Baldassarre Castiglione, che Montaigne mostra di co- noscere assai bene, a esso rimandando in più punti della sua opera.
Coerentemente con questa tradizione, a quel tempo fortissima, Philip- pe Desan (2007b) ha sottolineato il carattere interactionniste del termine.
64 l’umorismo letterario In eff etti “conversazione” signifi cava innanzitutto, secondo la sua etimo- logia, il fatto di “stare insieme” (andare tutti in una medesima direzione: cum e vertor), sicché, al pari di ogni con-versare, essai implica sempre un’in- terazione, innanzitutto in senso verbale: ogni conversazione è al tempo stesso pluridiscorsiva (perché ci sono più voci) e interdiscorsiva (perché le voci si riprendono e citano a vicenda). Montaigne evidenzia questo ca- rattere, aff ermando che: «C’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose, e ci sono più libri sui libri che su altri argomenti: non facciamo che commentarci a vicenda» (Montaigne, 1962, III, xiii, trad. it. p. 1429). L’“interazione” è qui chiarissima, e ancor più chiara nel testo originale francese, dove leggiamo l’espressione «nous ne faisons que nous entregloser» (“non facciamo altro che commentarci a vicenda”), a proposito della quale Michel Foucault (1985, p. 55) ha osservato che, altro che una stanca ripresa della regola classicistica dell’imitatio, qui abbiamo a che fare con la «defi nizione dell’inevitabile rapporto che il linguaggio del secolo xvi stabiliva con sé stesso». L’interdiscorsività è insomma anche metadiscorsività, cioè una rifl essione sui meccanismi che presiedono alla letteratura e alla comunicazione linguistica. Che è, peraltro, uno dei prin- cipali caratteri della letteratura umorista.
Montaigne, in realtà, non usa molto frequentemente il sostantivo essai, al singolare o al plurale che sia. Se questo è senza dubbio il titolo, e dunque anche il “genere” o il tipo di discorso letterario che l’autore intende pro- porre al suo lettore, egli utilizza più frequentemente il verbo s’essayer. Vie- ne in questo modo sottolineata la centralità del soggetto, che non solo rea- lizza il saggio (je essaye), facendo il suo apprendistato con i diversi temi che a mano a mano aff ronta, ma che, stante la forma rifl essiva, si presenta come colui sul quale l’azione ricade (je m’essaye) (cfr. sulla digestio, Jeanneret, 1987, p. 127; Mazzacurati, 1990b).
Ciò ha peraltro a che fare con il gouster, con la degustazione, cioè con una lettura non avida ma sapiente, semmai ingorda, perché attratta da tan- te pietanze diff erenti, ma sempre rivolta alla delibazione accorta. E se Giu- sto Lipsio provò a tradurre essai proprio con il termine latino gustus, Mon- taigne fa riferimento alla sua attività dicendo che egli, guardandosi dentro («je regarde dedans moy»: ancora un’azione rifl essiva), si gusta: «je me gouste», ossia «mi saggio», come benissimo traduce Fausta Garavini (Montaigne, 1962, II, xvii, trad. it. p. 879). Parlando d’altro, il “saggista” parla di sé, si rivolge a sé, gusta e mette alla prova sé stesso. E qui si ripre- senta, ma invertito, il problema della soggettività che, una volta acquisita,
montaigne, o la prospettiva 65 fa scomparire l’oggetto, a quel modo che il giovane Lukács (1991) mise in evidenza nella sua opera su Essenza e forma del saggio, quando osservò che gli oggetti aff rontati in un saggio sono solo un «trampolino» con cui l’autore si lancia altrove, avendo in realtà come eff ettivo interesse solo la propria capacità di valutare, soppesare, stabilire connessioni.
Attraverso i temi aff rontati, “Io” tenta sé stesso, via via misurandosi con le cose del mondo e facendo in questo modo emergere la propria sog- gettività, la propria natura, che è, ovviamente, prima di tutto una natura discorsiva. Vi si sono soff ermati Émile Villemeur Telle (1968) e di nuo- vo Desan (2007b), il primo spiegando che «il saggio, in sé, è il giudizio al lavoro, messo sotto sforzo» (Villemeur Telle, 1968, p. 237); il secondo ribadendo che «il saggio, in quanto lavoro, mira a produrre un oggetto nuovo attraverso la trasformazione di una materia prima che appartiene a un altro»: «Sostenere un giudizio su un oggetto esterno, parlando sempre di sé stesso, riassume il lavoro di Montaigne», ha concluso Desan (2007b, p. 401). In eff etti, basta aprire il libro per trovare prove a sostegno di una simile descrizione, come nel caso del saggio Dei libri, dove l’autore dichia- ra che le sue pagine «sono le mie fantasie [fantasies], con le quali io non cerco aff atto di far conoscere le cose, ma me stesso», avvertendo subito dopo il lettore di non badare «agli argomenti, ma al modo come li tratto» (Montaigne, 1962, II, x, trad. it. p. 525). Se “cose” e “argomenti” contano meno dell’autore, di conseguenza il rapporto con la parola altrui, con gli scritti da cui preleva idee e citazioni non potrà che essere caratterizzato dal libero confronto, occasione per misurare sé stesso. «Non conto i miei prestiti, li soppeso [je les poise]» (ivi, trad. it. p. 526). Con questa franca dichiarazione l’autore spiega il suo lavoro rimandando all’etimo latino del verbo pensare come azione del pesare, e dunque del soppesare, valutare.
Da questo punto di vista, il capitolo Dell’arte di conversare diventa deci- sivo nella strategia del libro, soprattutto per le battute conclusive, quando Montaigne aff erma: «Io oso non soltanto parlare di me, ma parlare soltan- to di me; vado fuori strada [je fourvoye] quando scrivo d’altro e mi allonta- no [me desrobe] dal mio soggetto» (ivi, III, viii, trad. it. p. 1255). Questo non voler uscire fuori della pista, non volersi sviare dal vero “soggetto”, non è dovuto a eccessivo amor proprio o a incapacità da parte dell’autore di guardarsi dal di fuori, spassionatamente. Tra le sue pagine, egli ammet- te, ci sono sicuramente delle fole, dei passaggi di cui non ci si deve fi dare; il primo a diffi darne è anzi proprio l’autore, che per questo, negli annali di sé stesso, lascia cadere a caso dei «motti di spirito [boutades]» e delle «fi nes-
66 l’umorismo letterario ses verbales» di cui non si cura. Ne vien fuori un ritratto poliprospettico, da bizzarria fi amminga, al tempo stesso «in piedi e a giacere, davanti e di dietro, a destra e a sinistra, e in tutte le mie pieghe naturali» («debout et couché, le devant et le derrière, à droite et à gauche, et en tous mes naturels plis»). La conclusione è strepitosa: «Les esprits, voire pareils en force, ne sont pas toujours pareils en application et en goust» (Montaigne, 1962, III, viii, trad. it. p. 1256; cfr. anche Compagnon, 2014). Gli esprits, che in italiano Fausta Garavini traduce, opportunamente, «ingegni», sono tutti diversi, «per inclinazione e per gusto».
Sulla scena della conversazione il soggetto avanza sovrano: il discorso gli consente infatti di articolare la propria varietà individuale; esso è lo spazio dentro il quale si realizza un percorso di soggettivazione. Lo stile sarà pertanto vario, non soggiogato al rispetto delle regole della retorica in quanto, per statuto, la varietà della materia si sottrae alla separazione degli stili7. Nella costruzione di soggetto realizzata nei Saggi, lo stile sarà
basso, umile, semplice, uno stile contaminato con le faccende del mondo, attraverso il quale appare davvero, come ha sottolineato Erich Auerbach, l’humaine condition8. Questo stile è il frutto della congerie linguistica del
mondo, imbevuto di interdiscorsività ma soprattutto di pluridiscorsività, dei tanti discorsi diversi sulle tante cose diverse che abitano e attraversano il mondo. Lo stile di cui e con cui parla Montaigne è generato dal rapporto con il discorso altrui, soprattutto con quello degli antichi, ma spogliati di ogni sacralità. Si trattava di un rapporto centrale nella cultura umanistico- rinascimentale, egregiamente rappresentato dalla metafora della digestio, che raffi gura il soggetto mentre digerisce, cioè metabolizza quanto è stato prodotto linguisticamente dagli altri.
Come ha spiegato Michel Jeanneret, il verbo “digerire” è assai frequen- te nella rifl essione sulla imitatio, nella quale assume una duplice accezione: esso può infatti tanto indicare la fi gura retorica che realizza «la divisione di un’idea generale in più aspetti particolari», quanto rimandare all’am- bito fi sico dell’assunzione corporea e della conseguente elaborazione nel- lo stomaco (Jeanneret, 1987). In ognuno dei due casi la digestione indica il processo del fare proprio, attraverso l’attività intellettuale, ma con un accento indiscutibile sulla specifi cità individuale. Non era infatti una que- stione di institutio, cioè di formazione disciplinare, ma una questione di espressione: anche riprendendo le parole degli altri, al limite addirittura ripetendo le parole di tutti, è possibile ottenerne un’immagine dinamica. Lo aveva spiegato tra i primi Poliziano, rispolverando l’immagine dell’ape
montaigne, o la prospettiva 67 per mostrare che ogni scrittore si nutre del polline di tanti fi ori diversi per produrre il proprio miele9. Il che avrebbe appunto fatto Montaigne, il cui
lavoro, secondo Struever (1992) va assimilato alla tessitura di una rete (the spinning of the web).
Lo stile della humaine condition si realizza sempre in modo comparati- vo, e sempre nella forma dell’apprendistato provvisorio. Del resto, Mon- taigne rifugge da ogni specialismo, dichiarando a chiare lettere di non pos- sedere alcuna conoscenza appropriata degli oggetti da lui a mano a mano aff rontati: «Se c’è un argomento di cui non m’intendo aff atto, proprio per questo lo saggio [à cela mesme je l’essaye]» (Montaigne, 1962, I, l, trad. it. p. 390)10. Di conseguenza, le «fantasie informi e insolute» proposte
nelle sue pagine assomigliano alle «questioni dubbiose» che venivano discusse nelle aule universitarie, ma non hanno l’obiettivo di «stabilire la verità», quanto piuttosto di «cercarla» (ivi, I, lvi, trad. it. p. 409): il percorso, insomma, conta più della meta, l’operazione più del risultato11,
procedendo contro la linea retta, nella forma dell’andirivieni, della digres- sione, o semmai a zig-zag. E in eff etti la sua è una parola agita, «proferita al ritmo di una deambulazione»: «parlata e camminata [parlée et mar- chée]», la scrittura «si realizza come un atto fi sico, come un progresso che si sviluppa nel tempo e nello spazio»12. L’autore lo confessa quando
aff erma che «anche se sto seduto, sto poco fermo» (ivi, III, xiii, trad. it. p. 1482), mostrando che la scrittura alla scrivania non è un’operazione statica, ma al contrario profondamente dinamica, addirittura ginnica, se non – come nel caso delle dispute verbali – agonistica e combattiva.
La duplice natura, spaziale e temporale, è rimarcata soprattutto quan- do si parla dell’insieme dei Saggi come libro. Se esso infatti «è sempre uno», tuttavia, «via via che ci si mette a ristamparlo», egli vi aggiunge «qualche tassello in più»: il processo di accrescimento dell’opera produce però «un po’ di confusione cronologica, poiché i miei racconti sono col- locati secondo la loro opportunità, non sempre secondo la loro età» (ivi, II, ix, trad. it. p. 1283); capita così che, rimandando il lettore a un luogo nel quale ha già trattato un argomento, egli si trovi a rinviarlo non a una pagina precedente (come vorrebbe la stessa logica del rinvio a un evento passato), ma a una pagina successiva (ivi, II, x, trad. it. p. 535, che allude a ivi, II, xxxi, trad. it. pp. 947-56). Siamo davvero innanzi a «un andamen- to da ubriaco, titubante, preso dalle vertigini, informe» (ivi, III, ix, trad. it. p. 1284): quel che è stato già detto viene dopo, quel che invece è nuovo viene prima, con un sovvertimento dell’ordine librario e tipografi co che è
68 l’umorismo letterario l’eff etto diretto di una scrittura vissuta come esercizio di soggettività, che implica il continuo ritornare sulle stesse questioni da altri punti di vista e con materiali sempre nuovi.
La concreta temporalità di Montaigne scrittore irrompe peraltro in modo prepotente nell’opera, come tempo che passa eff ettivamente tra vita e scrittura. Lo mostrano, tra l’altro, queste formule:
Mi ritrovavo or ora su quel passo dove Plutarco dice di sé stesso…
(Montaigne, 1962, II, iv, trad. it. p. 468: «J’estoy à cett’heure sur ce passage») Rimasticavo poco fa quel bel detto…
(ivi, II, xv, trad. it. p. 816: «Je remaschois tantost») Ho visto l’altro ieri un fanciullo…
(ivi, II, xxx, trad. it. p. 945: «Je vis avant hier un enfant») Sfogliavo, neppure un mese fa, due libri scozzesi…
(ivi, III, vii, trad. it. p. 1222: «Je feuilletois, il n’y a pas un mois, deux livres escossois») Fantasticavo or ora…
(ivi, III, xi, trad. it. p. 1370: «Je resvassois presentement»)
Si riferisca a una lettura recente («neppure un mese fa»), a un incontro casuale («Ho visto l’altro ieri»), o a un pensiero subitaneo («or ora»), il soggetto si misura sempre a partire dal proprio tempo, che è innanzitutto tempo della scrittura, intesa come eff ettiva pratica fi sica dello scrivere. In questo modo Montaigne fa due cose, simili ma diff erenti: 1. egli c’invita al suo scrittoio, facendoci accomodare dall’altra parte del quaderno su cui sta vergando i suoi pensieri; 2. egli ci costringe a seguire il suo improvviso, i suoi movimenti continui, i suoi passaggi di umore. Scandendo la scrittura sull’«or ora», l’autore calibra tutta la comunicazione su una sorta di pre- sente continuo, di ininterrotta e interminabile convocazione: gli essais si presentano così all’insegna dell’apertura permanente.
Questa varietà, questo muoversi, questa costante off erta all’altro attra- verso l’altro, nonché il fatto stesso di assumere nella propria rete – come fa il ragno – pezzi di libri altrui per nutrirsene, sono tutti fenomeni tipici della letteratura umorista, che nella digressione, nella rielaborazione dei frammenti e insomma nella digestione e assimilazione del mondo esterno ha uno dei suo caratteri più distintivi. A questo proposito, Bruno Roger- Vasselin (2007) ha isolato «tre grandi tendenze umoristiche»: una, ag- gressiva e anzi talvolta feroce; un’altra, improntata all’allegria e non priva di un certo gusto delirante; l’ultima segnata dall’educazione elegante e in defi nitiva riconducibile all’arte della conversazione. Al di là delle tipolo-
montaigne, o la prospettiva 69 gie, qui ci interessa ricondurre queste diverse tecniche a un aspetto strut- turale della “comunicazione spiritosa” in Montaigne, che va fatta risalire al senso del mutamento, all’indipendenza dai percorsi regolati, progressivi e rettilinei, e alla tendenza alla rifl essione sui procedimenti dello stesso comunicare.
Di conseguenza la sua opera, osservò Sergio Solmi (1966), si presenta come un «libro in movimento». Da questo pensiero mobile, pur nella sua stasi apparente, da questi «remuements fermes» («stirring stills», o “fremiti fermi”, li avrebbe chiamati Samuel Beckett quattro secoli dopo) emerge un’ipotesi di soggetto che si direbbe opposta a quella cartesiana: non un cogito inteso come punto di vista fi sso (come nella prospettiva pittorica), che irradia concatenazioni di pensiero sistemando il mondo intorno a lui, ma un soggetto instabile, associativo, agglutinante. Come mostra benissimo un fondamentale passaggio dello scritto dedicato alla Rassomiglianza dei fi gli ai padri:
Questo aff astellamento di tanti pezzi diversi si compie in queste condizioni, che io non vi metto mano se non quando un ozio troppo fi acco mi pesa, e non altrove che a casa mia. Così si è costruito con diversi intervalli e soste, poiché le circostan- ze mi trattengono altrove a volte per parecchi mesi. Del resto, io non correggo le mie prime idee con le successive; ossia, qualche parola sì, forse, ma per variare non per togliere. Io voglio riprodurre il corso dei miei umori [le progrez de mes humeurs], e che ogni parte sia veduta nel suo nascere. Avrei piacere di aver comin- ciato prima e di rendermi conto del procedere dei miei mutamenti [le train de mes mutations]. (Montaigne, 1962, II, xxxvii, trad. it. p. 1005)
Se il primo obiettivo dei Saggi può dunque apparire la contenzione di sé, in ottemperanza a quel «retour à soi» (ritorno a sé) che viene dalla sag- gezza antica, nel corso della scrittura la scena interiore si sregola, lasciando apparire le rêveries e i fantasmi del pensiero. Aff rontando il rischio dello smarrimento di sé stesso, della perdita di unità soggettiva13, Montaigne
costruisce un libro in cui intende rappresentare la propria caratteristica principale, cioè il fatto di essere una creatura “in movimento”. La scrittura, che lascia apparire i fantasmi e che è essa stessa rêverie, è anche il modo per apparire sulla scena del mondo e dirsi io. Registrando le fl uttuazioni dell’esprit in una serie di osservazioni variamente orchestrate, Montaigne diventa in questo modo autore, cioè soggetto14.
Confermando che ogni essai giunge ineluttabilmente al corpo, così da ricondurre il continuo fl usso degli umori alla interminabilità della scrit-
70 l’umorismo letterario tura dei Saggi come libro («Chi non vede che ho preso una strada per la quale, senza posa e senza fatica, andrò fi nché ci sarà inchiostro e carta al mondo?»: Montaigne, 1962, III, ix, trad. it. p. 1257), siamo tornati alla questione del soggetto e alla sua genealogia. Se infatti «dire “io” signifi ca dire “io parlo”, “io sono una persona”, “io parlo a qualcuno” (io sono una persona, come te, al quale io parlo o che mi parla)» e se, come avrebbe mostrato Immanuel Kant nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico del 1797, ogni Satz è un (Ich)-Satz, ogni aff ermazione è un’aff ermazione dell’io, è però anche vero che «essere una persona non è suffi ciente per l’“Io”. Bisogna essere “una sola e medesima persona”: è la funzione devo- luta all’unità della coscienza, al di là di ogni cambiamento che possa av- venire». «È qui il soggetto moderno», ha concluso De Libera15: con il
gioco tra fl usso degli umori e registrazione delle opinioni, con lo scarto tra percorso rettilineo e deviazione laterale, con l’asincronismo tra vita e scrit- tura, e insomma con il costituirsi della tradizione dell’umorismo letterario osserviamo il progressivo emergere del soggetto occidentale come para- dossale idem et ipse, individuabilità e unitarietà a dispetto (o forse proprio in virtù) dei suoi continui cambiamenti.