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120 l’umorismo letterario logica e psicologica del riso. Il secondo ha invece inteso rispondere alla do- manda Quo bono risus?, ossia ha cercato di individuare la natura e l’utilità del ridere nel rapporto tra l’uomo e la società (a che serve ridere? Quando e perché è opportuno farlo?). Il terzo, evidentemente, si è concentrato su che cosa faccia scaturire la risata (Unde risus?), al fi ne di individuare quelle che venivano chiamati i “fonti del ridicolo”, cioè gli aspetti e gli oggetti che ci inducono a ridere. Il quarto, l’indagine tecnica sul linguaggio poetico, ha, infi ne, spesso provato una sintesi tra i tre fi loni, dimostrando in parti- colare una forte dipendenza dalla tradizione retorica.

Si tratta di un sapere che, con le dovute diff erenze di declinazione, è sostanzialmente rimasto compatto, se non addirittura immobile per se- coli. Certo, durante una fase del Medioevo, la separazione tra le pratiche sociali dei gruppi dirigenti e quelle dei ceti subalterni, dovuta soprattutto a una certa interpretazione della religione cristiana, produsse un sospetto nei confronti del riso che in qualche modo inibì la rifl essione teorica, e forse addirittura ne ridusse la legittimità sociale. Se forse, soprattutto nei decenni passati, si è esagerato nel sottolineare questa frattura tra élite e masse popolari, tuttavia pratiche parodistiche e rituali dissacranti, per lo più collegati al Carnevale e in generale al tempo della festa, hanno lunga- mente assicurato, anche dentro la cultura cristiana, uno spazio importan- te al ridere: basti pensare al Risus paschalis, con l’esplosione di gioia per il mondo rinnovato dalla Resurrezione dopo il sacrifi cio del Cristo (cfr. Bachtin, 1968; Minois, 2004). Senza dimenticare che – come vedremo – il riso è sempre stato (anche nel Medioevo) uno strumento fondamentale per sanzionare comportamenti ritenuti irregolari e per degradare chi o ciò che viene ritenuto estraneo a una comunità.

Al di là di una possibile storia delle pratiche giocose e della teoria del riso, nella nostra ricostruzione dell’umorismo nel mondo europeo è in- nanzitutto necessario ragionare in termini tipologici. Occorre dunque tornare alla tripartizione tra medicina, retorica ed etica. A partire da quest’ultima. La prima rifl essione compiuta sul ruolo del ridere nella vita umana si trova, infatti, nel quarto libro dell’Etica nicomachea, dove Ari- stotele ragiona sulla virtù intermedia tra la millanteria e la dissimulazio- ne. Nonostante un certo apprezzamento per la stessa dissimulazione, in- tesa come segno di raffi natezza («I dissimulatori, i quali non parlano che per minimizzare, sono in tutta evidenza più raffi nati nei loro costumi», 1127 b 20-25), al fi losofo interessa individuare un elemento intermedio tra l’esibizione delle proprie capacità (spesso presunte: ecco la millanteria) e

che cos’è ridere 121 l’ingannevole segreto mantenuto sulle stesse (che è il problema dell’infi n- gimento, sempre collegato alla dissimulazione). Un tale elemento è per Aristotele una virtù, cioè l’esercizio di una specifi ca abilità; più precisa- mente, si tratta della virtù alla base della convivenza tra eguali, tra uomi- ni liberi che si riconoscono e che sanno vivere insieme senza aggredirsi vicendevolmente. Questa virtù va esercitata principalmente in tempo di pace, nella vita ordinaria, quando gran parte delle attività sono rivolte alla distensione dell’animo.

Il concetto viene ulteriormente spiegato ragionando sul ruolo che la facezia, e il discorso scherzoso in generale, ha all’interno di questa virtù: «Poiché nella vita ci sono momenti di riposo ed una forma di esso consiste nella distrazione accompagnata da divertimento, è comunemente ammes- so che anche in quest’ambito vi sono delle relazioni sociali appropriate» (1127 b 35). Secondo il consueto principio della mesotès, cioè della medietà tra due eccessi, Aristotele riconosce che il buon uso della facezia e del ridi- colo è prerogativa di quanti si trovano al centro tra «coloro che eccedono nella giocosità» e che pertanto «passano per essere buff oni ed insulsi» e «coloro che, non dicendo essi stessi nulla di spiritoso, si irritano con quel- li che lo dicono», passando «per essere dei rustici e dei caratteri duri». Tutti quelli che si trovano al centro tra i buff oni e i rustici, cioè quelli che «scherzano in modo conveniente», spiega infi ne il fi losofo, «sono chia- mati faceti (eutràpeloi), come per indicare che sono persone dallo spirito vivace» (1128 a 5-10). L’espressione greca (èthous […] kinèseis èinai) sot- tolinea il movimento, il guizzo, la velocità (kìnesis): connotazione fonda- mentale, come vedremo tra breve, del discorso umoristico. Denis Lam- bin, nella sua traduzione latina dell’Etica, pubblicata nel 1558, rese questa espressione aristotelica con una coppia di aggettivi che ben evidenzia la duttilità, la capacità di adattamento di quanti possiedono questa virtù, «fl exibili ac versatili ingenio praediti».

Chi ha letto i precedenti capitoli di questo libro s’imbatte qui in una parola di cui abbiamo già riconosciuto l’importanza nella storia dell’umo- rismo: rendendo ethous (“carattere”) con ingenium, evidentemente il tra- duttore non poteva non avere in mente la parola francese esprit: francese o latino che fosse, Lambin utilizzava in ogni caso un termine che rimandava a quell’unione tra corpo e animo che abbiamo individuato come tipica di questa tradizione di pensiero. Senza voler caricare di peso eccessivo le scelte del traduttore, è tuttavia interessante che qui emerga una parola così importante. L’etica è, infatti, almeno nell’operazione aristotelica, una ri-

122 l’umorismo letterario fl essione sugli èthē, sui caratteri degli uomini e sul modo in cui essi posso- no contemperarsi nella vita civile. L’eutràpelos, cioè quello che noi chia- meremmo l’uomo faceto, o meglio ancora “l’uomo di spirito”, è colui che esercita l’eutrapelìa, agendo in modo tale da non contristare chi lo ascolta, scherzando in modo adeguato al contesto e nel rispetto del suo uditorio. Come vedremo tra poco, il problema del contesto, cioè la necessità di usare le giuste cautele rispetto all’ambiente nel quale si agisce, sarebbe diventato tipico della successiva rifl essione, fi no alle soglie del mondo contempora- neo, e forse anche fi no ai nostri giorni. Per Aristotele – e ciò è molto inte- ressante – l’eutràpelos, cioè «la persona raffi nata e libera», si comporta in modo tale da risultare «in qualche modo legge a sé stessa» (1128 a 30). Il testo originale parla di coloro che sono charìeis kai eleuthèrios, e quindi che hanno la grazia (charis) e che agiscono in piena libertà (eleutherìa) di giu- dizio1, anzi in totale autonomia, tanto da diventare legge per sé stessi (no-

mos ôn eautô). È una dichiarazione davvero importante, perché chiarisce che il discorso scherzoso è tra le principali forme di espressione dell’uomo libero (essere legge a sé stessi signifi ca non essere condizionato da nessuna imposizione esterna, e dunque essere liberi), e getta le basi per quel che, più di duemila anni dopo, sarebbe stato chiamato “l’uomo di mondo” (cfr. Ossola, 1987; Domenichelli, 2002).