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Un «loco», e il suo tema

In eff etti, a partire dai primi anni del secolo xx si è ripetutamente osserva- ta la convergenza tra il titolo del trattato di Huarte de San Juan e il fron- tespizio originale del romanzo cervantino, nel quale veniva presentato per

cervantes, o l’ingegno 77 la prima volta El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha. Nel 1605, quando veniva data alle stampe quella che sarebbe stata la prima parte del- le avventure di don Chisciotte, l’Examen contava già dieci edizioni in spa- gnolo e altrettante in traduzione; esso era ampiamente citato dai dotti del tempo, a partire da quei teorici della poesia, come Pinciano, che Cervantes conobbe senza alcun dubbio, senza parlare delle chiare allusioni dirette al trattato che egli fa in altre sue opere. Tra i tanti, è stato in particolare Mauricio de Iriarte a porre attenzione al rapporto tra il trattatista e il ro- manziere, dedicandogli un capitolo del suo libro, nel quale ha spiegato che «quel che Cervantes intendeva per ingenioso era, senza dubbio, un’indole d’animo vivace inclinata ad azioni singolari e rare (egli avrebbe detto “non comuni”)»6.

L’opposizione più autorevole alla convergenza tra l’ingenioso di Cer- vantes e l’ingenio di Huarte de San Juan è venuta da Francisco Rico, grande studioso spagnolo e splendido editore del romanzo, che ha os- servato che il frontespizio non va necessariamente confuso con il titolo dell’opera. Se vogliamo considerare questo come la formula sintetica con la quale l’autore indirizza il suo lettore, bisogna però tener conto dei criteri culturali, variabili con il tempo, che giocano nell’eff ettiva presen- tazione del testo: in età tipografi ca, le necessità editoriali infl uenzano regolarmente la composizione materiale del frontespizio. A parere di Rico (2005a), il vero «titolo» dell’opera di Cervantes è Don Quijote de la Mancha, con il quale l’autore fornisce al lettore alcune informazioni essenziali: 1. stabilisce il rapporto tra il suo protagonista e «il modello del celebre “Lanzarote”», cioè, in italiano, “Lancillotto”; 2. individua il protagonista con un nome che ricorda il sostantivo quijote, con il qua- le ci si riferiva a un pezzo dell’armatura; 3. attribuisce al protagonista l’ingiusta autoappropriazione della particella nobiliare “don”, che per estrazione sociale non gli appartiene (la questione è peraltro aff rontata nel romanzo, al cap. 2); 4. suggerisce che l’«arida e solitaria» regione di “la Mancha” non è una cornice adeguata alle imprese cavalleresche desiderate dal protagonista.

È possibile che, in cuor suo o a tavola con gli amici, Cervantes chia- masse il romanzo Don Quijote de la Mancha; resta però il fatto che nella richiesta al Consiglio di Castiglia per ottenere la licenza di stampa, egli lo designò – come ricorda lo stesso Rico – El ingenioso hidalgo de la Mancha. E comunque nel frontespizio si legge El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, formula regolarmente ripresa negli intertitoli delle diverse parti

78 l’umorismo letterario di cui il romanzo è composto («Primera parte del ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha»; «Segunda parte…» e così via)7.

Va da sé che quel che conta è il personaggio, con il suo nome e la sua provenienza, peraltro richiamati puntualmente negli omaggi poetici si- tuati tra il Prologo dell’autore e l’inizio del vero e proprio racconto ro- manzesco. Allo stesso tempo, bisogna però insistere sul fatto che la fama dell’opera si diff use anche grazie a quell’aggettivo, come mostra il fatto che nell’autunno 1614, quando venne pubblicata, a opera di un misterioso Avellaneda, la continuazione abusiva del romanzo, anche questa volta il frontespizio fu inequivoco: «Segundo tomo del ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha, que contiene su tercera salida y es la Quinta Par- te de sus aventuras». Si tratti degli operatori tipografi ci che preparano la pagina iniziale del libro, dello stesso autore che si rivolge all’autorità pub- blica per chiedere la licenza di stampa, o di un plagiaro che si appropria di un personaggio di successo, appare evidente che furono innanzitutto i lettori a riconoscere che la particolarità di don Chisciotte risiede nel suo carattere: egli, prima di ogni altra cosa, è ingenioso, è dotato di un ingenio o ingegno particolare, di un esprit, avrebbe detto un francese, di un wit tutto suo, avrebbe pensato un inglese. È l’indole del personaggio cervantino a caratterizzare la sua storia.

Soff ermiamoci allora sul celebre primo capitolo dell’opera. «In un luogo della Mancha, il cui nome non riesco a, o non voglio [no quiero], ricordare», viveva un gentiluomo di schiatta antica ma di non grandi ri- sorse economiche. L’uomo, che aveva cinquant’anni ed era ancora asciut- to d’aspetto, grazie soprattutto alla vita sana che conduceva e all’amore per la caccia, nei momenti di ozio, «che erano la gran parte dell’anno», si metteva a «leggere libri di cavalleria, con tanta aff ezione e piacere che dimenticò quasi del tutto l’esercizio della caccia e la conduzione della sua tenuta». Questa lettura, diciamo maniacale, non impediva al cavaliere di apprezzare la capacità letteraria degli autori da lui amati, tra i quali prefe- riva senza dubbio Feliciano de Silva, i cui «intricati ragionamenti gli sem- bravan perle», e i cui arzigogolati biglietti di sfi da erano per lui fonte di particolare piacere, tanto da rimanersene sveglio notti intere nel tentativo d’intenderne il senso: roba che, commenta il narratore, «non l’avrebbe capita lo stesso Aristotele, se fosse resuscitato apposta per quello» (Cer- vantes, 1999, i, 1, p. 38). Il gentiluomo aveva, in eff etti, qualche dubbio sulla verosimiglianza delle storie che leggeva e aveva in animo di porre fi ne lui stesso, un giorno, alle interminabili avventure di don Belianís,

cervantes, o l’ingegno 79 come del resto promette il suo autore alla fi ne di ogni libro. Ma, intanto, continuava a leggere appassionatamente, tanto che il fascinoso mondo incantato delle avventure cavalleresche prese il sopravvento sul mondo ordinario della caccia e dell’amministrazione domestica. L’economia, go- verno della casa, venne così sopraff atta dalla realtà straordinaria dei libri. Insomma,

s’immerse tanto in quelle letture, che passava le notti a leggere dal tramonto all’al- ba e i giorni dall’alba al tramonto. E così, dormendo poco e leggendo molto, gli si seccò il cervello sino a perdere la ragione. La fantasia gli si riempì di tutto quel che leggeva nei suoi libri […] e gli si piazzò nell’immaginazione la certezza che l’intera macchina di tutte quelle invenzioni fantastiche che leggeva fosse la verità, tanto che per lui al mondo non esisteva una storia più sicura. (ivi, i, 1, p. 39)8

Riprendendo le considerazioni di Harald Weinrich sulla diff erenza tra la lettura intensiva dell’uomo medievale, sempre concentrato su uno o po- chissimi libri che per lui contengono la verità del mondo reale, e la lettura estensiva dell’uomo gutenberghiano, che si lascia scivolare da libro a li- bro immergendosi in modo totale nel mondo di fi nzione, Gabriele Frasca (2015) ha proposto di interpretare il romanzo cervantino come il racconto di chi, pur appartenendo all’età tipografi ca, continua a cercare il senso del mondo leggendo intensivamente i numerosi libri che a mano a mano riem- piono il suo scrittoio e poi tutti gli scaff ali della sua stanza, fi no a separarlo defi nitivamente dal mondo.

In eff etti, la descrizione dell’impazzimento presenta il protagonista ab- bandonato a una lettura continua, di tipo estensivo («los libros», non un solo libro), mentre al tempo stesso si impegna a cercare un senso eff et- tivo in quel che legge: «Con queste ragioni, il povero caveliere perdere la sua, di ragione, e restava sveglio per sforzarsi di capirle» («Con estas razones perdía el pobre caballero el juicio, y desvelábase por entenderlas», Cervantes, 1999, i, 1, p. 38). Ma, come suggerisce lo stesso Frasca, la pazzia del gentiluomo è innanzitutto il frutto di un’intossicazione linguistica: il juicio, cioè la facoltà aristotelica del “giudizio razionale” (vis aestimativa, la chiamavano nei commenti al De anima) si perde a causa dei giri di fra- se convoluti, delle astruserie stilistiche, delle retoriche basate sulla ripeti- zione e sulla aequivocatio. Se il tossico letterario agisce sulla «fantasía» e sulla «imaginación» (che sono la stessa cosa, giacché phantasìa, nel greco di Aristotele, diventa imaginatio, nel latino dei commentatori), quel che accade nella stanzetta «in un luogo della Mancha» è del tutto analogo a

80 l’umorismo letterario quel che si spiegava da secoli e secoli a proposito dei processi dell’innamo- ramento.

Nel passaggio dalla percezione al concetto, Aristotele aveva contem- plato il ruolo fondamentale della facoltà immaginativa, capace di gene- ralizzare il contenuto delle percezioni, le quali, di per sé, pertengono al singolo soggetto. Questo livello, chiamato sensus communis dai commen- tatori antichi e dai medici, era suddiviso tra una parte più orientata ver- so la materia, la phantasìa, e un’altra, la cogitativa o aestimativa, protesa verso la ragione. Come spiegò Robert Klein (1975, p. 62; cfr. cap. 1), «in quanto facoltà intermedia tra il senso e l’intelletto», l’immaginativa fi - niva con l’«intervenire nel processo astrattivo da un lato e, dall’altro, nell’applicazione dell’universale al particolare», funzione che la tra- dizione assegnava invece alla «cogitativa o iudicativa». Il confl itto tra facoltà dell’anima, la tensione tra il basso, verso l’oggetto materiale, e l’alto, dov’è la purezza del concetto, si esprimeva con particolare eviden- za nell’amore. Già Arnaldo da Villanova aveva dichiarato che «l’amor heroicus è una “vehemens concupiscentia ab erroneo iudicio […] aesti- mativae virtutis”», per cui era «la “intentio convenientiae seu boni” a mettere in moto il processo di innamoramento». Questa tesi esprimeva «una diagnosi di natura fi siologica: non venendo dall’esterno, dato che l’amore patologico è per defi nizione la donazione di un surplus di valore o di signifi cato rispetto a ciò che sarebbe normale dare, la intentio conve- nientiae deve nascere dal turbamento dell’estimativa da parte degli spiriti sovraeccitati» (Piro, 1999, p. 105).

Non conta qui mettere in fi la tutti i passaggi che dal mondo antico portano al Medioevo e poi alla medicina e alla psicologia cinquecente- sche, soprattutto attraverso il fondamentale contributo di Marsilio Fi- cino; si sarà notato, però, che queste categorie chiamano nuovamente in ballo Huarte de San Juan, il quale, tornando sull’incontro a noi già noto di Democrito e Ippocrate, aveva bellamente illustrato che la lesione del fi losofo, la causa della sua pazzia non risiedeva nell’intendimento, ma nell’immaginativa: la stessa situazione ambivalente, la stessa tensione si verifi ca nel caso del gentiluomo cinquantenne, la cui immaginativa si è eccessivamente riversata su quel particolare “oggetto d’amore” che sono i libri di cavalleria. E così, «rematado ya su juicio», “consumata ormai tutta la sua potenza cogitativa”, diremmo noi, quel signore «vino a dar en el más estraño pensamiento que jamás dió loco en el mundo» (“fi nì con l’avere il pensiero più strano che mai pazzo abbia avuto al mondo”:

cervantes, o l’ingegno 81 Cervantes, 1999, i, 1, p. 40): diventare cavaliere errante e chiamarsi «don Quijote de la Mancha» (ivi, i, 1, p. 43). Comincia qui la grande locura del protagonista (ivi, i, 1, p. 49), il suo investimento patologico nei confronti del mondo cavalleresco, nel momento in cui l’«humor estraño» (ivi, i, 1, p. 42), consistente nella sovrapposizione dei libri di cavalleria alla real- tà comunemente condivisa, si stabilizza in un convincimento anormale. don Chisciotte è un loco, un matto, e il suo tema è il mondo dei cavalieri erranti. Ma questo mondo è prima di tutto un linguaggio, un codice lin- guistico per impossessarsi del quale il gentiluomo di campagna ha dovuto trascorrere un lungo apprendistato. La coerenza del suo fi ctional world, il mondo di fi nzione che per lui si è trasformato in realtà, è garantita innan- zitutto dalla sua omogeneità stilistica: il gentiluomo che aveva pensato di scrivere la conclusione delle avventure di don Belianís, dopo esser pas- sato per la lettura intensiva di un patrimonio librario estensivo, si trova a vivere in un mondo che è già tutto scritto. Lo mostra il racconto della sua prima uscita, quando don Chisciotte considera tra sé stesso i seguenti pensieri:

Sono sicuro che nei tempi a venire, quando vedrà la luce la storia vera [verdaera historia] delle mie famose imprese, il saggio che la scriverà userà queste parole quando arriverà a raccontare la mia prima uscita di mattina così presto: «Il ru- bicondo Apollo aveva appena steso sull’ampia e spaziosa terra le redini dorate dei suoi splendidi cavalli […], quando il famoso cavaliere don Chisciotte della Mancia, abbandonando le oziose piume, montò sul famoso cavallo Ronzinante e iniziò ad attraversare l’antico e celebre campo di Montiel». (ivi, i, 2, pp. 46-7)9

Vi è dunque, all’inizio delle avventure erranti (andanzas) del protagoni- sta, un sabio, uno scrittore che riporterà la vera storia «delle sue famose imprese»: anzi, che le riporta in diretta, se è vero che questo saggio è den- tro la testa dello stesso don Chisciotte (cfr. Close, 1994). Il sabio appare anche altrove nel corso del libro: per esempio in i, 21 (Cervantes, 1999, p. 232), quando il protagonista ipotizza una certa versione di quel che gli è appena successo, o quando lo stesso narratore descrive l’incontro di don Chisciotte con la fanciulla Dorotea utilizzando le «palabras caballerescas y andantescas», che si possono leggere proprio nel racconto del sabio (ivi, i, 44, p. 516).

Ecco dunque il tema, come avrebbe detto Huarte de San Juan, della locura di don Chisciotte. Al pari dei quattro malati all’organo della vi- sta, che, avendo il cristallino maculato di rosso, giallo, bianco e nero, non

82 l’umorismo letterario percepiscono l’azzurro del panno di tela che viene loro presentato e anzi giudicano un’assurdità che gli altri possano errare nell’individuare il co- lore, allo stesso modo il protagonista cervantino non può che “vedere” «attraverso il suo linguaggio». Lo ha ben spiegato Carlo Montaleone (2005, p. 31), il quale ha ribadito che «le evidenze che uno ha», cioè le convinzioni che ciascuno matura a partire dall’interpretazione delle pro- prie percezioni (nel gioco tra immaginativa ed estimativa), «non vengono meno sia nel caso uno segua eff ettivamente una regola sia credendo, come l’hidalgo, di seguirla». Don Chisciotte, potremmo allora dire noi, ha una vera e propria “voce nella testa”, che lo guida nelle sue avventure e che rico- difi ca costantemente le percezioni in base alla sua immaginazione, satura di letture cavalleresche.

C’è un passaggio, nel secondo volume del romanzo, che rende con grande effi cacia la condizione del protagonista. Don Chisciotte ha appena vissuto il terribile smacco di vedere la sua amata Dulcinea, non secondo quel che egli crede, e cioè bellissima, ma al contrario brutta, deforme e del tutto priva di educazione e grazia. Cammina embelesado, perso nei suoi pensieri, quando Sancho lo richiama alla “realtà” del suo impegno di cava- liere, proponendogli di mandare al diavolo le Dulcinee del mondo. Don Chisciotte gli impone di rispettare il destino della sua amata, che solo per colpa sua è stata così crudelmente fatata dai suoi nemici. Dopodiché, ri- ferendosi al precedente episodio in cui Sancho aveva raccontato del suo incontro con Dulcinea, il protagonista ne approfi tta per fare una lezione sulle regole della descrizione dell’amata:

Mi dipingeste male la sua bellezza, perché, se non ricordo male, diceste che ha gli occhi di perla. Ma gli occhi che sembrano perle sono piuttosto di un pesce lesso che di una dama. Per quel che credo, gli occhi di Dulcinea devono invece essere screziati di verdi smeraldi, con due archi celesti per sopracciglia. Togli queste perle dagli occhi e passale ai denti, Sancho, che senza dubbio ti sei confuso scambiando gli occhi coi denti. (Cervantes, 1999, ii, 11, p. 713)10

Coloro che hanno studiato il codice del ritratto poetico femminile han- no mostrato adeguatamente il sistema di sostituzioni tra parti del corpo umano ed elementi naturali, soprattutto minerali e metalli preziosi: per cui i capelli biondi saranno “oro”, la fronte “avorio”, i denti “perle”, le labbra “rubini” e così via (Pozzi, 1979; Pozzi, 1980). Il medesimo sistema è qui utilizzato da don Chisciotte per passare dalla percezione (reale ma non

cervantes, o l’ingegno 83 creduta) alla immaginazione (non reale ma creduta): è in virtù del codice poetico della descriptio che il protagonista può continuare a ingannarsi. Al tempo stesso, è in virtù di quello stesso codice che egli può comunicare agli altri il suo inganno proponendolo come mondo reale. Il codice caval- leresco (nel quale è contenuto il più ristretto codice poetico) è dunque ciò che oggettiva, rendendola comunicabile, la soggettività: si passa in questo modo dalla intransitività delle percezioni alla comunicazione; dalla chiu- sura in un’allucinazione individuale alla trasmissione di un mondo che, per quanto di fi nzione, è pur sempre un mondo.

In altri termini, se «la particolarità del don [Chisciotte], la sua disgra- zia, è nel decifrare diversamente i segni che anche gli altri decifrano», se dunque il «credere così», cioè il fatto di avere una certa credenza, nel suo caso non si appoggia sul «controllo incrociato eseguito da altri giudicanti» (Montaleone, 2005, pp. 24, 29), tuttavia la sua particolare destemplanza, il modo tutto suo di attribuire un certo colore al famoso panno azzurro di Huarte de San Juan, può essere comunicata grazie a un determinato co- dice storico. Ed è per questo che don Chisciotte perde le staff e (estribos) soltanto quando gli si parla di avventure cavalleresche (Cervantes, 1999, i, 49, p. 562), perché appunto è lì, in quel codice (non in quelle azioni, ma nel modo in cui quelle azioni sono presentate) che si gioca per lui la defi nizione di sé stesso, il tema della sua locura.

Questo tema, bisogna dire, costituisce il fi lo della storia. Tolte infatti le digressioni, che peraltro abitualmente presentano il destino di altri lettori intensivi in epoca estensiva (cfr. Frasca, 2015, p. 87), quel che conta nel ro- manzo sono le imprese di don Chisciotte, secondo quella centralità delle azioni umane nel racconto poetico riproposta con forza sin dalla metà del Cinquecento grazie alle nuove letture di Aristotele, che Cervantes cono- sceva assai bene (cfr. Riley, 1988). Di un hilo, fi lo della storia da individuare al di là dei «cuentos y episodios», il narratore parla del resto in maniera esplicita (Cervantes, 1999, i, 28, p. 317): e questo fi lo, cioè le azioni di don Chisciotte, sono infl uenzate dal suo carattere, sempre disposto a seguire «invenciones y mentiras» (“invenzioni e bugie”), purché abbiano «el estilo y modo de las necedades de sus libros» (“lo stile e il modo delle sciocchezze dei suoi libri”: ivi, i, 30, p. 356). La sua storia, di per sé intermi- nabile, perché il carattere del personaggio è immodifi cabile (Montaleone, 2005, pp. 79-80), sarà dunque il prodotto di un certo codice letterario che è diventato codice d’interpretazione, senza il quale il senso del mondo (e di sé stesso) si perderebbe11. C’è del resto una battuta che chiarisce perfet-

84 l’umorismo letterario tamente lo stretto rapporto tra eventi e codice: «Se queste disgrazie non mi accadessero, io non potrei considerarmi un famoso cavaliere errante» («si estas calamidades no me acontecieran, no me tuviera yo por famo- so caballero andante»). È proprio vero, come aveva detto Huarte de San Juan pochi anni prima: cada loco con su tema.