Se il gelòion, il riso, è un’attività che conosce i tre gradi dell’assenza (presso i tristi e i rustici), dell’eccesso (presso i buff oni) e della medietà (presso gli uomini civili e garbati, che sono norma a sé stessi, e dunque sono piena- mente, e non solo giuridicamente, liberi), esso può essere considerato an- che dal punto di vista della tecnica. Ridere è infatti il prodotto di una certa attività comunicativa, che accidentalmente può essere provocato da cause fi siche (il solletico), ma che è innanzitutto l’eff etto di un certo uso del lin- guaggio. Per questa ragione rientrò, sin dal mondo greco, nella rifl essione dei maestri di retorica, le cui lezioni erano fi nalizzate all’insegnamento dell’arte del discorso in pubblico.
Nemmeno in questo caso ci interessa fare una trattazione storica com- pleta della retorica del comico. Ci basterà ripercorrere la sua fondazione antica e fare qualche breve osservazione sul modo in cui la teoria è stata ripresa e sviluppata all’inizio dell’età moderna. A questo scopo, utilizzan-
che cos’è ridere 123 do soprattutto il De oratore di Cicerone (nel cui secondo libro si discute il discorso faceto) e la Institutio oratoria di Quintiliano (vi 3), divideremo il ragionamento in tre aspetti: a) per quali ragioni l’oratore debba saper sollecitare il riso; b) in che modo egli riesca a fare ridere il suo uditorio; c) quali siano le tecniche principali per indurre il riso. Concluderemo, poi, con due osservazioni generali (1. quali siano le caratteristiche dell’uomo faceto; 2. come e dove si debba esercitare il riso), che ci ricondurranno a un aspetto di quella dimensione etica cui siamo stati introdotti dal grande trattato di Aristotele.
Prima di iniziare la nostra breve analisi è bene ricordare che la rifl essio- ne del De oratore è inaugurata da una chiara ripartizione della materia de risu (“sul ridere”):
De risu quinque sunt quae quaerantur: unum quid sit; alterum unde sit; tertium sitne oratoris velle risum movere; quartum quatenus; quinque quae sint genera ridiculi. (ii 235)
La successiva trattazione dovrebbe pertanto rispondere a cinque quesiti, inerenti alla natura (quid) del ridere, a ciò che lo produce (unde), all’ap- propriatezza del ridere per l’oratore (sitne oratoris), ai limiti che l’oratore deve rispettare (quatenus) e infi ne ai tipi di discorso spiritoso (genera). Come si vede, Cicerone ripartisce con accuratezza il suo discorso, salvo segnalare che il primo aspetto, cioè quello fi siologico, «viderit Democri- tus» (ibid.), è argomento riservato ai fi losofi e ai medici. Vedremo più avanti (cap. 7) che, a partire dal secolo xvi almeno, i teorici sarebbero tornati con particolare interesse proprio su questo primo aspetto, perché convinti della stretta interrelazione tra corpo e animo (o esprit o ingenium, o wit, che dir si voglia).
Ciò detto, il primo punto che qui ci interessa riguarda le ragioni per le quali l’oratore debba saper sollecitare il riso nel suo uditorio. La risposta di Cicerone è molto chiara, già per la collocazione del discorso sul riso subito dopo una lunga considerazione sulla capacità di accattivarsi l’udi- torio. Come avrebbe sintetizzato alla metà del Cinquecento un professo- re dell’Università di Bologna, Francesco Robortello (1967, p. 51), il fi ne dell’oratoria è la persuasione («Finem oratoriae facultatis esse persua- dendi»), che può essere conseguita in tre modi («Eum fi nem nos triplici assequimur via»): insegnando, commuovendo e dilettando («docendo movendo oblectando»). Il diletto, concludeva il professore, si ottiene con
124 l’umorismo letterario un discorso piacevole («suavi oratione»), la quale si realizza «salibus ac facetiis», cioè con motti di spirito e raccontini divertenti.
Per tornare a Cicerone, il suo parere è che suscitare il riso è sicuramen- te un compito dell’oratore («est plane oratoris movere risum»), perché in questo modo si mitiga la tristezza e la serietà del discorso («tristitiam ac severitatem mitigat et relaxat») e l’eff etto di rilassamento sull’uditorio permette di aff rontare temi e questioni anche penose. Ciò che con il solo ragionamento non potrebbe essere discusso, può trovare invece soluzione con lo scherzo e il riso («dolorose odiosasque res saepe, quas argumentis dilui non facile est, ioco risuque dissolvit», ii 236).
Accertato, dunque, che il campo del riso è di competenza dell’oratore, in quanto rientra nell’ambito della retorica (esso è strumento di persuasio- ne), resta però il suo carattere particolare, che rende necessaria un’accurata preparazione tecnica. Per fare ridere l’uditorio, l’oratore deve infatti at- tingere alla specifi ca «regione» del ridicolo, che consiste nel trattamento della bruttezza e della deformità, giacché «principalmente, se non esclu- sivamente, si ride di quelle cose che rappresentano la turpitudine in un modo non turpe» («sola vel maxime, quae notant et signant turpitudi- nem aliquam non turpiter», ibid.). Com’è evidente, l’oratore deve badare soprattutto alle predilezioni del suo uditorio, evitando di agire in maniera avventata parlando male di coloro che sono prediletti dagli ascoltatori. In- somma, per dirla con una massima, in iocando moderatio (ii 237): “Ogni scherzo ha un limite”. Ma non è sempre facile capire quando bisogna tace- re. Il limite in questione non è solo di tipo “soggettivo”, cioè riguardante l’eventuale eccessiva propensione alla facezia, tipica di coloro che si lascia- no tanto prendere dal gusto della battuta comica da abbandonarsi allo «scurrilis iocus […] aut mimicus», cioè agli scherzi grossolani (scurrilis, da scurra) o addirittura degni di un pagliaccio (mimicus) (ibid.). Cicerone ha qui presente anche l’aspetto “oggettivo” del limite, riguardante cioè la scelta dell’oggetto del ridicolo. Proprio perché il riso scaturisce dalla consi- derazione di una certa deformità dell’anima (per esempio l’avarizia) o del corpo (per esempio la balbuzie), si devono però escludere dall’aggressione comica sia le persone benvolute dall’uditorio, sia le persone che vanno in- vece commiserate, sia, infi ne, le persone “degne del patibolo”2. Come ve-
dremo nel capitolo 7, sarebbe stato proprio questo aspetto a subire i cam- biamenti più signifi cativi con il mutare del contesto sociale. Resta però che, per ragioni strutturali sue specifi che, il riso nasconde un’insidia assai pericolosa: quella di potersi ritorcere contro colui che intende fare ridere
che cos’è ridere 125 gli altri. Del resto, come spiega Quintiliano, si può ridere o degli altri, o di noi stessi, o di qualcosa che si trova “in mezzo” tra noi e gli altri, cioè che non riguarda direttamente né l’oratore né il suo pubblico: il diffi cile equilibrio nel rendersi ridicolo senza perdere di dignità è uno degli aspetti pericolosi del riso che occorre saper controllare3.
In ogni caso, l’oratore fa ridere i suoi ascoltatori ricorrendo a due di- versi generi di discorso spiritoso: uno «aequabiliter in omni sermonem fusum», cioè “distribuito lungo tutto il discorso”, il quale viene chiamato cavillatio; l’altro «peracutum et breve», cioè “fulminante e sintetico”, che invece si chiama dicacitas (ii 218). Quanto al primo tipo, esso consiste in un racconto comico con cui si rappresentano i caratteri degli uomini o in maniera diff usa ed esplicita oppure soltanto con un breve riferimento4.
Sebbene anche la cavillatio attinga specifi camente al ridicolo, la natura del discorso spiritoso si esprime in maniera più chiara nel secondo tipo, dica- citas, che, come è stato spiegato ormai quasi un secolo fa da una studiosa americana, ha a che fare con il «verbal witticism where the intellectual quality of the jest, its acumen, is the chief characteristic» (Grant, 1924, p. 111). Ho qui lasciato il testo inglese per mostrare quanto sia davvero lunghissima la tradizione di alcune parole e concetti che riguardano l’u- morismo e in generale la comunicazione comica. Parlando della dicacitas, Mary Grant non poteva fare a meno di evocare ancora una volta il wit, cioè l’ingenium dei latini, assimilandogli quel jest, o capacità inventiva, che il grande personaggio shakespeariano di Amleto aveva riconosciuto più di trecento anni prima in Yorick, il buff one di corte al quale, due secoli dopo, alla metà del Settecento, si sarebbe ispirato il più grande umorista di ogni tempo, Laurence Sterne, seguito dopo altri due secoli dal geniale scrittore americano David Foster Wallace. He was a fellow of infi nite jest: la formula utilizzata da Amleto alla vista del teschio di Yorick si ricollega per via diretta alle trattazioni di Cicerone e Quintiliano, alle cui spalle c’erano Aristotele e un numero imprecisabile di oscuri piccoli maestri di retorica, greci e latini, i quali avevano tutti in vario modo collaborato alla defi nizione dell’uomo di spirito, cioè di colui che mostra un particolare acume nell’associare le parole o nel mettere in contatto oggetti provenien- ti da campi diversi, scatenando nei suoi interlocutori il riso. O almeno il sorriso, se è vero che, talora, colui che utilizza la dicacitas può indulgere a un certo spirito amaro («the dicax [is] oft en bitter») e al piacere di pun- zecchiare, se non addirittura attaccare personalmente («with taunts and personal attacks»), i suoi avversari (ivi, pp. 111-2).
126 l’umorismo letterario Le insidie del comico, come si vede, non fi niscono mai. Ma prima di occuparcene è utile approfondire brevemente il carattere della battuta effi cace, la quale, secondo Cicerone, «ante illud facete dictum emissum haerere debeat, quam cogitari potuisse videatur» (ii 220), cioè deve col- pire il bersaglio (o meglio, aderirvi: haerere) prima che ci si possa pensare (cogitari). Si tratta di un aspetto che tornerà identico per secoli, anzi mil- lenni, arrivando fi no alla rifl essione di Freud sul Motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1972) e oltre: la battuta fa ridere prima ancora che ci si ragioni, ma non per questo senza una partecipazione dell’intelletto. Il ridicolo che nasce dalle battute consiste infatti in una certa acutezza della parola o del pensiero («In dicto autem ridiculum est id, quod verbi aut sententiae quodam acumine movetur», ii 244), per cui – come osservò Robortello (1967, p. 55) – esso è tipicamente prodotto da un ingegno ben coltivato e sviluppato, e anzi dotato di una straordinaria acuzie dello spiri- to («ex bene culto et subacto ingenio, et summo mentis acumine»): non tutti, concludeva il professore cinquecentesco, sono capaci di realizzare adeguatamente uno scherzo o di pronunciare un buon motto di spirito, ma solo gli ingeniosi. È del resto quel che aveva detto Cicerone (ii 254), quando aveva stabilito che gli «ingeniosi» fanno muovere la mente de- gli ascoltatori in una direzione diversa da quella attesa, provocando lo stupore. E anzi, è quello che, prima di tutti, aveva aff ermato Aristotele, quando aveva spiegato che la comicità si sprigiona in seguito a un errore interpretativo (in greco hamartèma o hèmarton), dovuto al fatto che il destinatario, ascoltando, immagina uno sviluppo diverso del discorso ed è, infi ne, costretto a riconoscere che è stato ingannato nella sua aspettativa, rimanendone stupito (cfr. Manetti, 2005)5.