le attitudini e delle competenze facete e argute tipiche di un bello spirito e di un umorista, sorte originariamente in riferimento alla sfera dell’arte oratoria, vennero progressivamente applicandosi all’ambito privato. Già Pontano aveva contrapposto la comicità utilizzata nelle occasioni pubbli- che a quella tipica della frequentazione degli amici o delle riunioni disinte- ressate, sebbene fosse poi eff ettivamente diffi cile distinguere tra i due regi- mi discorsivi: così era per Pontano, così sarebbe stato ancora quattro secoli dopo per Samuel Johnson. Si tratta, dicevamo, di una peculiarità della so- cietà di Antico regime, in cui non è agevole separare questi ambiti in ma- niera netta, tanto che i trattati dedicati alle norme di comportamento e al saper vivere descrivono di solito delle circostanze «di tipo seminformale, a metà fra l’intimità familiare e l’incontro pubblico» (Burke, 1997, p. 45).
In tal senso, è interessante il caso di Jean-Louis Guez de Balzac, scrittore assai apprezzato nella Francia della prima metà del secolo xvii, che nel 1634 dedicava il suo Conversation des Romaines a Madame de Rambouillet, il cui salotto sarebbe stato un vero e proprio modello per almeno centocinquanta anni. Nella lettera di dedica, Balzac usava per la prima volta «l’espressione del tutto nuova di “gran mondo”», conferendo «alla conversazione i suoi titoli di nobiltà», così «riconducendola nel grande alveo della retorica an- tica»: si trattava, come ha notato Benedetta Craveri, «di una retorica dis-
la conversazione 161 simulata, discreta», che mirava all’otium e non al negotium, non alla sfera pubblica, ma a quella privata (Craveri, 2001, p. 457).
Esattamente lo stesso era già accaduto nell’opera di Castiglione, giacché la libertà del dialogo tra i cortigiani di Urbino è resa possibile dall’assenza del duca, costretto a letto da una malattia, e sostituito nella responsabilità politica dalla duchessa. Anche il testo fondativo di questa civiltà istitu- iva dunque la conversazione a partire da una particolare ibridazione tra dimensione privata e dimensione pubblica, sospendendo l’uffi cialità ma conservando l’ambientazione nel cuore stesso del potere ducale: la corte. Il modello che ne sortì, e che avrebbe raggiunto il suo apogeo in Francia tra Seicento e Settecento, era un incontro paritario, di corresponsabilità dei parlanti, nel senso sia di cooperazione sia di competizione. Come scri- veva Castiglione, «questo nome del conversare importi una certa parità» (ii 18), e Craveri, riferendosi alla realtà di duecentocinquanta anni dopo, ha spiegato che «ciò di cui i visitatori stranieri conquistati dai Lumi senti- vano più acutamente la nostalgia lasciando Parigi era il piacere della con- versazione»: un intrattenimento inteso «come confronto intellettuale fra uguali» (Craveri, 2001, p. 396).
Certo – come abbiamo già accennato in precedenza – non è facile stabilire che cosa fosse questa “uguaglianza” in una società, come quella di Antico regime, che aveva solide basi aristocratiche. Al tempo stesso, la “parità” (termine forse da preferire a quello di “uguaglianza”) implicava il comune riferimento a un complesso di norme e di comportamenti che costituiva un modello di vita o, come l’ha chiamata Quondam (2010), una forma del vivere condivisa. Più che la dimensione amicale, si deve dunque pensare a una condizione esistenziale, come dimostrano le considerazioni di Madame de Staël, grande aristocratica costretta all’esilio durante la pre- sa del potere da parte di Napoleone:
Mi sembra assodato che Parigi è la città al mondo in cui l’esprit e il gusto della conversazione sono più generalmente diff usi; e ciò che si suole chiamare nostal- gia, quell’indefi nibile rimpianto della patria che prescinde anche dagli amici che vi abbiamo lasciato, si riferisce in modo particolare al piacere di conversare. (Fu- maroli, 2001, p. 146)
Più che gli amici, insomma, per una baronessa colta e sofi sticata come era l’autrice di Corinne, praticare la conversazione signifi cava tutto un modo di essere nel mondo: era il termine sintetico per esprimere delle abitudini,
162 l’umorismo letterario ma soprattutto un tono stilistico e un certo tipo di apprendistato lingui- stico e comportamentale che costituiva, detto in una sola parola, l’educa- zione elegante.
Abbiamo ricordato una baronessa, Madame de Staël, che esprime il rimpianto di non poter più partecipare a una conversazione tra pari; e una donna era anche Madame de Rambouillet, che riceve in omaggio un dia- logo erudito sulla cultura classica. Se al tempo di Castiglione e Guazzo la società riservava ancora una parte subalterna alla componente femminile (cfr. Quondam, 2007, p. 175), sin dai primi anni del secolo successivo le donne conquistarono in Francia una posizione di assoluto rilievo, tanto che fu loro «concesso di assumere il controllo» di quel nuovo spazio so- ciale che si era creato «a metà strada tra la sfera uffi ciale della corte e la sfe- ra propriamente domestica delle residenze private»: nasceva così il mon- do dei salons, i celebri salotti francesi, che a partire da quello già ricordato di Madame de Rambouillet, passando per quello di Ninon de Lenclos, di Madame de Sévigné e di altre gentildonne, avrebbero dominato la cultura fi no alla fi ne del Settecento e poi ancora, in modo diverso, nel secolo xix (cfr. Craveri, 2001, p. 41).
Non si trattò soltanto di una maggiore capacità di carattere organiz- zativo. I liberi incontri che avevano luogo nei salotti ebbero, infatti, una grandissima infl uenza sullo sviluppo della lingua francese: sotto l’impulso di questi circoli si diff use l’idea che si dovesse adottare un modo “naturale” di esprimersi, senza indulgere nelle formule ristrette e ripetitive della reto- rica uffi ciale. La lingua parlata venne così riconosciuta come un campo di competenza femminile, tanto che grandi intellettuali, come per esempio Malherbe, fi nirono con l’uniformarsi all’uso invalso in quegli ambienti. I salons divennero inoltre un modello empirico del comportamento elegan- te, del savoir-vivre. I costumi delle nobildonne, la loro superiorità morale contribuirono al progresso della politesse, ossia all’assestamento delle nor- me ritenute valide per la vita elegante (Magendie, 1970, p. 10).
Questa centralità femminile fu fondamentale per la cultura dei salot- ti parigini. Per riprendere una considerazione di Marc Fumaroli (2001, p. 165), sulla quale torneremo, se il luogo e il tempo «della conversazione mondana» sono rispettivamente collocati in «una dimora privata», e nel tempo «dello svago», il gioco dello scambio reciproco tra pari «ha un arbitro: la padrona di casa». La caratterizzazione femminile sarebbe du- rata per tutto il Settecento, quando ancora, nonostante il cambiamento velocissimo di quel secolo, con il suo epilogo rivoluzionario, «la fedel-
la conversazione 163 tà ai modelli di comportamento elaborati centocinquant’anni prima ai tempi lontani dell’hôtel de Rambouillet» sarebbe stata clamorosamente confermata (cfr. Craveri, 2001, pp. 496, 359). E nemmeno la Rivoluzione, nonostante la sua «ostentata rivincita della virtù virile e dell’eloquenza maschile sulle grazie fl essuose dei soprani e sul rumoroso chiacchiericcio dei contralti che caratterizzavano i salotti dell’Ancien Régime» (Fumaro- li, 2001, p. 175), poté davvero vanifi care quell’esperienza, come mostra la celebre scena descritta da Hippolyte Taine:
In prigione, uomini e donne si abbiglieranno con cura, si faranno visita, terranno salotto […] avranno ancora il puntiglio di essere non meno eleganti, gai e aggra- ziati di prima […]. Davanti ai giudici, sulla carretta, conserveranno la loro dignità e il loro sorriso; le donne, soprattutto, andranno al supplizio con l’eleganza e la serenità che avrebbero avuto a una serata di gala. Tocco supremo del saper vivere che, eretto a dovere unico e diventato per questa aristocrazia una seconda natura, si ritrova nelle sue virtù come nei suoi vizi […] e l’adorna fi no alla morte dove l’ha condotta. (Taine, 2008, pp. 315-6)
Prerogativa della nobiltà, le pratiche della conversazione vennero via via allargandosi anche ad altri ceti, in corrispondenza con le diverse sorti della mobilità sociale nelle diverse regioni d’Europa. Abbiamo visto nel para- grafo precedente come il romano De Luca si ponesse il problema di quel che considerava una nobiltà impropria, cioè i rappresentanti del mondo borghese (della fi nanza o delle professioni) che ambivano a essere accolti nella frequentazione del mondo aristocratico. E già alla metà del Cinque- cento le nuove edizioni del Libro del Cortegiano, opera che in origine si rivolgeva al pubblico ristretto di quanti frequentavano le corti italiane più raffi nate, si arricchivano di indici, note e commenti che trasformavano la rappresentazione di un ambiente aristocratico estremamente selezionato in una sorta di manuale contenente le istruzioni fondamentali che qua- lunque segretario o funzionario provinciale doveva conoscere a memoria. Per quanto riguarda la Francia, l’apertura sociale era addirittura pro- grammatica nel caso di Nicolas Faret che, pubblicando L’honnêste hom- me ou l’art de plaire à la cour (1630), si rivolgeva «a un gruppo sociale tutt’altro che omogeneo, costituito da nobili, non-nobili, borghesi e gente venuta dal nulla» (Craveri, 2001, p. 319). Vi era dunque oltralpe, almeno a partire dal secolo xvii, una signifi cativa compresenza di ceti diff erenti: come ha spiegato Fumaroli (2001, p. 149), «i rapporti fra le diverse classi concorrevano a favorire, in Francia, la sagacia, la misura e il decoro della
164 l’umorismo letterario socievolezza», giacché «i ranghi [nobiliari] non erano nettamente defi - niti e le ambizioni si agitavano incessantemente nello spazio incerto che ciascuno poteva di volta in volta conquistare o perdere». Tant’è vero che cento anni dopo, alla metà del secolo xviii, i salotti dell’alta borghesia e della fi nanza si sarebbero imposti all’attenzione del gran mondo.
Certo, a seguire, come qui facciamo, la classica descrizione di Magen- die, si ricava l’impressione che all’inizio non dovesse essere proprio così, e tuttavia con il passare del tempo ci fu una progressiva circolazione di idee comuni tra mondo borghese e mondo aristocratico, cui contribuì il convergere negli stessi salotti dei mondani appartenenti all’aristocrazia e di alcuni letterati che provenivano dai ceti più bassi: un fenomeno carat- teristico del mondo francese, che favorì il costituirsi di un’autonoma con- cezione borghese della honnêteté, con cui s’intendeva «un insieme unifor- me» che includeva le «qualità mediocri» (qualités moyennes), oppure, ma solo «al più alto grado», alcune «delle più elevate» (des plus distin- guées). Se il termine astratto, honnêteté, si diff use dunque ai diversi livelli sociali, l’espressione equivalente di honnête homme si applicò alle persone intellettualmente addestrate (le «personnes dont la raison est éclairée»), che sapevano osservare la misura. Anche in questo caso, «gli scrittori che appartenevano alla borghesia o alla piccola nobiltà di toga» mostrarono di riferirsi soprattutto a virtù più tradizionali; e tuttavia ritroviamo ancora una volta la ripresa di un modello che, da un lato, mirava al giusto mez- zo, in ossequio a un principio basilare dell’etica classica (Magendie, 1970, pp. 893-6), e dall’altro proponeva un insieme concreto di precise capacità e competenze. È quel che troviamo in uno dei testi più letti a quell’epoca, il romanzo Clélie (1654-60) di Madeleine de Scudéry, dove leggiamo che l’honnêste homme non può presumere di essere tale «senza saper cantare o dipingere o far versi» (Scudéry, 1973, p. 1074): prescrizione rigorosa che recupera la descrizione del perfetto cortigiano fornita centocinquant’anni prima da Castiglione.
Dietro il palazzo di Rambouillet e la sua lunga infl uenza sui rituali francesi c’era dunque il modello italiano. Non perché i testi italiani venis- sero ripresi o citati puntualmente, ma perché in Italia era stato defi nito il grande sistema concettuale della modernità, che aveva sancito il defi nitivo abbandono delle abitudini municipali, sostituendo alle pratiche legate in maniera diretta ed esclusiva ai rapporti locali, un codice valido univer- salmente: un “modello” cui riferirsi al di là di ogni precisa collocazione temporale o spaziale. Dentro questa lunga tradizione si spiega inoltre l’ap-
la conversazione 165 parizione del nuovo concetto di gusto, che era a sua volta «strettamente connesso a quello di honnêteté» (cfr. Craveri, 2001, p. 285). Esso forniva il criterio di base per la selezione sociale a partire dai comportamenti, e so- prattutto dai comportamenti linguistici, come mostra il fatto che nel salon della marchesa, e poi in seguito in tutti i salotti delle gran dame parigine, il pédantisme e la cultura accademica sarebbero stati rigidamente banditi (Magendie, 1970, p. 131).
Il principio restava quello di sempre: la seconda natura, e diremmo quasi la seconda pelle, dell’honnête homme, come un secolo prima in Italia era accaduto con il cortigiano, si doveva conformare al buon gusto mon- dano, che consisteva insomma nel mantenersi in costante equilibrio «tra la naturalezza e la norma, tra la fedeltà a sé stessi e l’obbedienza alle esigen- ze della “buona compagnia”» (Craveri, 2001, p. 117). Come ha detto Jean- Paul Sermain (1999, p. 881), il gusto è una nozione complessa, «al tempo stesso soggettiva e oggettiva, aff ettiva e razionale, individuale e sociale, ale- atoria e normativa», tale da rispondere a un valore dell’oggetto (stimato dall’esterno), che è anche un valore soggettivo (di colui che mostra di sa- persi conformare). Si precisa in questo modo un un «insieme di precetti e di esempi, che insegnano come meglio gestire il proprio ruolo nella società elegante» («corps de préceptes et d’examples, qui enseignent comment mieux tenir un rôle dans la société polie»), cui provvedono tanto degli umili trattati dedicati alle buone maniere, quanto delle considerazioni fi - losofi che sulla politesse, tutti convergenti nella necessità di codifi care quel- la dimensione libera, ma al tempo stesso rigorosa, che è l’esperienza del bel mondo (France, 1999, p. 970). Ed è evidente che una tale condizione, se da una parte raff orza il «piacere della diversità», dall’altra spinge gli attori sociali a identifi care i loro gusti condivisi: operazione realizzata proprio attraverso l’esempio fornito dai trattati sul comportamento9.
Nella stessa rete concettuale e terminologica si colloca un’altra parola decisiva di questa stagione culturale: galant. Seguendo le orme di Alain Viala, mettiamo innanzitutto a confronto i primi due vocabolari della lin- gua francese, nati in concorrenza, e anzi in contrapposizione tra di loro, l’opera di Furetière (1690), che già abbiamo utilizzato nell’Introduzione, e il Dictionnaire de l’Académie fr ançaise (1694):
1. «Galant: Homme honnête, civil […], qui a l’air de la cour, les manières agréables; […] un esprit galant qui donne un tour galant à tout ce qu’il dit, qui fait des billets doux et des vers galants» (Furetière)
166 l’umorismo letterario
2. «Galant/ante: adj. Honneste, qui a de la probité, civil, sociable, de bonne compagnie, de conversation agréable» (Académie)
Dalla sua indagine, Viala conclude che le defi nizioni, riferendosi al concet- to cardinale di honnête homme, forniscono una conferma del modello so- ciale condiviso: un galantuomo è «un honnête homme qui a du brio et de l’enjouement, de la “gaieté”, ma une gaieté bienséante» (un “gentiluomo”, diremmo in italiano, «ha del brio e della grazia, e della gaiezza decorosa»: Viala, 2008, pp. 33, 35). Ma non solo, il galantuomo è un gentiluomo per- fettamente distinto (un honnête homme d’une parfait distinction): «Tutto gli si accomoda [tout lui sied]», scrive il cavalier de Méré. Poiché negli stes- si anni la galanterie sarà defi nita come «tutto ciò che è compreso sotto il nome d’Urbanità», è evidente che siamo nello stesso ambito riattivato da Pontano e sviluppato da Castiglione e Guazzo. Lo stesso ambito che sarebbe stato ancora rilanciato nella Germania di Wieland, e che Balzac aveva voluto riferire, mentre elogiava l’antica urbanitas latina, alle pratiche consolidatesi intorno a Madame de Rambouillet e al suo salon.
Che galant fosse sentito come termine tecnico, e non solo aggettivo con alone di generica positività, è confermato anche da uno spirito luci- do come quello di La Rochefoucauld, il quale distingueva – ha ricordato Burke (1997, p. 38) – tra la conversazione alta, tipica dei dotti, e quella enjouée o galante, praticata nei salotti: inutile dire che solo quest’ultima è «digne de ce nom», degna di questo nome (cfr. Denis, 1997). A con- fermare la coerenza di un intero sistema semantico e concettuale contri- buisce anche la coincidenza tra galanterie e gusto moderno, tanto che un teorico della poesia come padre Rapin ne avrebbe riconosciuto il prima- to anche nelle pratiche letterarie dell’epoca, in quanto, analogamente a quanto accadeva nelle relazioni sociali dell’epoca, il poeta doveva con- formarsi ai sentimenti dello spettatore (Viala, 2008, p. 49). Perché una tale conformazione potesse avvenire, i frequentatori dei salotti dovevano sviluppare in maniera adeguata la facoltà del discernimento, come mostra la grande passione di questi ambienti per la ricerca e il riconoscimento delle distinzioni, delle piccole diff erenze, che dovevano però essere rag- gruppate e nominate. Ne nacque una volontà di «comprendere e classi- fi care» senza però «sacrifi care alcunché alla diversità delle circostanze» (Morlet-Chantalat, 1994, p. 414), che aprì senza dubbio un nuovo spazio all’analisi dei piccoli fatti capace di indagare negli aspetti più minuti dei sentimenti e degli atteggiamenti, tanto da trasformarsi in uno dei princi-
la conversazione 167 pali supporti di quella che con Foucault si può chiamare una microfi sica del potere, applicata al modo di vestire, di gestire, infi ne di parlare. Tra i tanti esempi possibili ce n’è uno a mio avviso particolarmente interessan- te, che riguarda la pubblicazione, nel corso del secolo xvii, di numerosi trattati che tentano «di delimitare una fi sica della voce umana che dà accesso alle passioni», off rendo lo strumento per «decifrare, negli accen- ti e nei toni della voce, le vere intenzioni, i pensieri segreti di ognuno» (Salazar, 1999, p. 791).
Tutto ciò era probabilmente dovuto anche a una certa retorica della maschera, contro la quale si sarebbe scagliato Jean-Jacques Rousseau, e a un’implicita dominanza della fl atterie (o adulazione), come già si legge- va in una delle massime di La Rochefoucauld (2005, n. 100): «Lo spiri- to galante consiste nel dire cose lusinghiere in una maniera gradevole» («La galanterie de l’esprit est de dire des choses fl atteuses d’une manière agréable»). Diversa era invece l’area semantica ricoperta dal termine po- litesse, che con il tempo sarebbe stato sempre più strettamente apparen- tato al gusto (il “buon gusto”), sino a diventarne un sinonimo, con spe- cifi ca applicazione all’«art de parler et d’écrire» (France, 1999, p. 973). È evidente che questo atteggiamento implicava la superiorità dell’età presente su quella passata: una «apologia del presente» che Mazzacurati (1990b) ha individuato a suo tempo come specifi ca già del dialogo di Ca- stiglione, e che, proprio come nell’archetipo italiano, trasferiva a sé l’au- torità degli antichi, dichiarandosene diretto erede (e, implicitamente, erede che ha superato i Padri). Si stabiliva così una sorta di cortocircuito tra tradizione antica, codifi cazione teorica ed esemplifi cazione “incarna- ta” in un modello del presente quale leggiamo in De la politesse (1684), una delle Conversations di Madeleine de Scudéry: «Sono persuasa che la vera eleganza è l’urbanità degli antichi Romani, di cui Guez de Balzac ha così nobilmente parlato scrivendo alla donna di mondo che conosceva a perfezione l’eleganza» («Je suis persuadé que la vraie politesse est cette urbanité des anciens Romains, dont Balzac a si noblement parlé en écri- vant à la femme du monde qui savait le plus parfaitement la politesse», Scudéry, 1998).
L’urbanitas, abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, era già per Pontano, che risaliva direttamente a Cicerone, una qualità specifi ca del ben parlare stando insieme agli altri. A questo proposito, si può ricordare un brano del libro ii del De oratore che sembra aver ispirato lungamente la rifl essione moderna:
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[L’urbanità] qualifi ca l’oratore stesso come persona raffi nata, colta, arguta, e so- prattutto […] mitiga e stempera la tristezza e la serietà, espressa con uno scherzo e una risata riesce a dissipare accuse odiose che non sarebbero facilmente confuta- bili con argomentazioni10.
Se dunque è vero che la «participation à la vie sociale appelle la politesse», sicché in quell’epoca «un galant homme et une galante femme sont d’abord des gens qui savent les bonnes manières» (cfr. Viala, 2008, p. 116); e se è vero che la «politesse de l’esprit», come disse La Roche foucauld (2005, n. 99), «consiste nel pensare cose oneste e delicate [honnêtes et délicates]», essa presuppone però sempre il controllo di quegli aspetti che riguardano più direttamente la conversazione come arte del parlare in compagnia, e soprattutto come arte della comunicazione spiritosa.
In eff etti, a seguire ancora Alain Viala (2008, p. 65), «un trait majeur» della letteratura galante è «il ridere, il rider gaio, il sorriso senza amarez-