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chiamati, allo scopo di ingenerare negli ascoltatori un coinvolgimento emotivo/patetico, 182 ad incarnare una torsione alquanto larmoyant della sobria storia

originaria:

183

Dall’altra parte il nobil giovinetto per la gran doglia si credea morire e battevasi forte il viso e ’l petto, 179 A, XXXVIII, p. 187.

180 Non mette conto di notare che nell’ottava appena citata, oltre al deittico, espediente di teatralizzazione è in primo luogo la trasformazione dell’originaria modalità indiretta di narrazione («quantaque vitarit narrare pericula gestit», Met., IV, 130) in discorso diretto.

181 La definizione è utilizzata per l’anonima novella in passato attribuita a Sabadino degli Arienti da CRISTINA MONTAGNANI, «Tutte siàn fatte comme fu Tisbina». Storia di Piramo, di Tisbe e di una

novella senza più autore, cit., p. 96. Cfr. ivi, pp. 94-95: «La prima impressione, senza dubbio, è di

estrema dilatazione rispetto al centinaio di esametri di Ovidio […], in assenza […] di elementi narrativi nuovi […]. Si aggiunge quindi spazio, non già per incrementare le azioni, ma per collocarle nella dimensione lirica della riflessione sul sentimento amoroso. Amore non è, come nel testo classico e in qualche modo anche in quello medioevale francese, una forza autosufficiente: è bisognoso di ragioni, di autoaffermazione. E di un luogo (puramente mentale) dove collocare questi contenuti: il monologo lirico. […] si verifica sotto i nostri occhi uno slittamento reciso verso il terreno elegiaco, ovvero, per restare alla produzione ovidiana, una trasmigrazione del testo nell’ambito del Metamorphoseon a quello delle Heroides».

182 Cfr. per es. CRISTINA NOACCO, in Piramo e Tisbe, cit., pp. 12 e 99: «Allo scopo di accrescere il

pathos di una storia d’amore che si snoda all’insegna della tragedia, l’autore medievale ha

sviluppato l’analisi psicologica dei personaggi attraverso una serie di monologhi a carattere lirico- retorico, che talvolta si articolano in un dibattito interno sul modello della psicomachia o in un dialogo tra il soggetto e un interlocutore immaginario»; «L’apostrofe o exclamatio, con la quale Piramo si rivolge al padre e, più avanti, agli dei […] come la personificazione e la prosopopea, appartiene alla retorica classica e medievale e accresce il pathos del lamento».

183 Talora, il canterino si spinge ad indicare la reazione che desidera ingenerare nel pubblico: «Ivi Pirramo, pien di mal talento, / di mortal doglia e di maninchonia, / e’ faceva sì duro, aspro lamento / che chi l’avesse visto pianto avria» (B, XXIX, 1-4, p. 135). Altri meccanismi di ricerca della compartecipazione degli uditori si riscontrano nei procedimenti di suspence e di prospettive immaginative (del tipo “immaginate che cosa sarebbe successo se…”): «Pirramo, non sappiendo che cciò sia, / si maraviglia che Tisbe non vede; / ongnior piangiendo chon secho dicia: / – Or fuss’io hora là dov’ella siede! / Forse che à mal la bella Tisbe mia? –, / e per llej forte ridolendo stride; / or qua or là rimirando [n]’andava, / se potesse veder quella ch’amava» (C, VI, p. 153); «La leonessa trovò el vestimento, / qual per paura lasciò la donzella; / la lionessa fè lacieramento / chon gran romor, credendo trovar ella. / Arebbe ricevuto impedimento, / se ma’ non fusse andata, Tisbe

84 [forte] piangieva chon gran sospire,

dicendo: – Chi à rubato el mio diletto e fammi istare in pena e [in] martire? Maledetto il tuo padre ccosì sia, che inserrata te tiene, o Tisbe mia! –184 Tisbe, piangiendo, Pirramo ascholtava, le sue parole e’ sua dolci lamenti,

poi dicea: – Signior mio, troppo mi grava più li tuoi che non fano i miei tormenti; mai della morte io no mi churava, se non per darti tanti isghomenti, e, se non fussi istato per tuo amore, ucisa mi saria per gran dolore.185

[Piramo:] Sia maledetto el ventre, dove giacque e l’ora e ’l punto, ch’io fu’ generato!

Sia maledetto il giorno, quando naque, ch’i’ non fui tutto torto e divenbrato, da poi che [a]lla fortuna tanto ispiaque, ch’io sia chondotto in sì misero istato! Sia maledetto i’ ciel e chi gli adora, l’aria, la terra e chi vi ffa dimora! –.186

184 B, VII, p. 129. 185 B, X, p. 130.

186 B, XXXII-XXXIII, p. 136. A proposito di quest’ottava, NATALINO SAPEGNO, in Poeti minori

del Trecento, cit., p. 955, scrive: «Riprende lo schema delle “disperate” e sembra aver presente

soprattutto quella del Serdini [Le ’nfastidite labbra, ove già posi]». Per il testo del Serdini, cfr.

Poesia italiana. Il Trecento, a cura di Pietro Cudini, Milano, Garzanti, 1978, p. 150: «Sia maledetto

il seme e chi ’l congiunse / nel ventre diabolico ov’io giacqui / difforme assai d’ogni virtute umana; / o biastema di Dio con la qual nacqui, / maledetto sia il dì che mi ci giunse / come figura mostruosa e strana! / O vulva adulterata, orrida e vana, / perché non ti serrasti sul dolore, / sì che con teco insieme io fusse morto? / Almen, da poi ch’uscito fui di fore, / perché non fui io dismembrato o storto, / e poi a’ can dato a mangiare il core? / Maledetta la luce e lo splendore / che prima mai s’aggiunse a gli occhi miei, / e chi ne fu l’autore / co’ denti ’l teness’io come vorrei!». Tra l’altro, il Serdini inserisce nelle sue rime alcune allusioni alla fabula di Piramo e Tisbe: cfr. GUGLIELMO

VOLPI, La vita e le rime di Simone Serdini detto il Saviozzo, in «Giornale storico della letteratura

italiana», XV, 1890, pp. 1-78: pp. 26-27: «Più spesso […] si duole perché non è corrisposto; ed ora rimprovera Amore di non esser buono a ferire una giovinetta; ora invoca tutti gli esseri perché intercedano per lui presso la bella ritrosa in un capitolo [Soccorrimi, per Dio, ch’io sono al porto] notevole anche per una certa concitazione d’animo, che mi sembra però più simulata che vera. Si rivolge egli prima ai cieli, ai pianeti e ai segni dello zodiaco, perché mettano in opera le loro influenze in suo favore; poi agli animali […]. Quindi viene la volta degli amanti più famosi, cioè Salomone, Ercole, Giacobbe, David, Sansone, Piramo e Tisbe, Paride ed Elena, Laudomia, Didone, Narciso, Felis, Leandro, Pasife, Silla, Adriana, Fedra, Tristano e Isotta e il Petrarca. Ai quali dice: “Tutti vi priego per quelli martiri / che voi sentisti al desiar d’amore / prima che morte amor fesse partire / in visïone andate al mie signore / ed operate vostri ingegni e arte / che mi riceva per suo servidore», e il sirventese O specchio di Narciso o Ganimede, ivi riportato, pp. 67-73: pp. 70-71: «E poi che i rivi a’ miei gravi dolori / saran commossi [e] alla mia vita strana, / verrà la ninfa aquana / coll’altre sue sorelle a condolersi. // Vedrò li spirti innamorati e spersi / che per minor angoscia e

85 El giorno se n’andava e’ chari amanti,

cho llagrime bangniando el viso e ’l petto, partivans’ indi chon gravosi pianti;

de’ padri lor, ch’avean preso sospetto, doleansi forte, diciendo: – Omè!, quanti son quegli ch’ànno piaciere e diletto, e i’ e te patiamo, vivi penando –, e chosì si partiva lagrimando. […]

Diciendo: – Notte, – cho llagrime spesse, ciaschun di lor, c’avea nojosa sera –

notte nimicha, di tenebre opresse, che da’ riposo e tempo ad ongni fera, ma nnoi amanti, chome a Ddio spiaciesse, dividi a pparte, tue, madonna altera, e chome agli altri amanti suol giovare, chosì dimostra a nnoi voler noiare. –

– O sommo Giove, – dichono i’ llamento – di chui [a]i chiariti razi il mondo avampa, parti tra nnoi l’anghoscioso tormento e di questa gran notte noi schampa. Megli’ è morire che vivere a stento, ché ll’amorosa fiamma sì n’avampa; se cho’ tuoi santi razzi non daj lume, uscir vedràci dell’uman chostume. – – Manda l’aurora e ffa chiarito il giorno, ché chonvenir possiamo al nostro luogho ov’è el diletto nostro e ’l gran soggiorno, gioia et riposo e ’l nostro allegro giocho, – dicie el donzel – ch’io veggha el viso adorno, ché tanto m’arde l’amoroso fuocho –,

e Tisbe bella diciea piangiendo:

– Chome farò, Pirramo non vedendo? –

Chon non dormire et chom piangiere et doglia et chon sospiri e affanni d’amore

passa la notte en anghosciosa doglia, infin ch’appare lo chiaro splendore. […] El donzelletto, sanza ritardare,

fu presso al luogho e lla sua Tisbe ghuata che quasi non potev’ a lui parlare

di piangiere sì forte era agravata,

[e] lei, piangiendo, prese a ddomandare: – Dimmi se ttu se’ stata rampongniata –

minor doglia / àn lassata la spoglia, / abandonato il suo proprio nido. // Io non dirò di Mirra, Tisbe e Dido / di Fedra, d’Adriana e di Medea, / né della morte rea / che fe’ Fillis po’ perdè Demofonte. // Quante son l’altre tapinelle giunte / a questo fin crudele che mi chiama, / io arò maggior fama / di crudeltà che mai portasse alcuna. // Però ch’io so che mai sotto la luna / amor non punse cor d’una dolzella / quanto me tapinella, / né men curasse della pena mia. // A me convien tenere un’altra via, / che pianger meco insieme e condolermi: / io non posso tenermi, / che mi convien passare il fine e ’l loco».

86 e ella chon sospir gravosa e mesta

subito fu a rispondergli presta:

– Non ti maravigliar, s’i’ vo piangiendo: mi dolgho dunque, e son chosì fanciulla: chonoscho e veggio noi morir vedendo, se non che tal fessura ci trastulla;

noi chaderem, di gran dolor langhuendo.187 Dall’altra parte Pirramo lamento

cho llagrime facieva verso el muro,

diciendo: – Omai el mio conforto è spento, poiché ttu se’ tanto crudele et duro;

apriti tanto, pur ch’io bagni ’l mento a Tisbe bella et di ciò ben ti giuro che, se questo piacer ora mi fai, tal cosa più non ti chiederò maj. Immagina pur sopra questo fatto dare ad altrui se d’amore aceso

fussi et non gli parlassi in nessuno atto, se non chome fo io per questo fesso; da te non s’averia trieghua né patto, tanto saresti di gran doglia preso; me non servi di pichola faticha

e mostri non intender quel ch’i’ dicha. Sappi che mollto ti ringratieremo, da poi che mi concedi tanto dono, che pur per questo bucho parlaremo. Non esser duro in ciò ch’io ti ragiono: facci la gratia che noi ti chiedemo. – Mente che Pirramo faccìa tal suono, [ad] amendui chon anghoscioso pianto le lagrime veniano da ogni canto.188

– io veggio ben che per mio amor se’ morto. Morte è venuta, ch’io t’ero vicina,

morte giudea,189 che mm’à fatto torto! Chome farà’ omai, Tisbe meschina? – e cholle mani perchoteasi el volto

e: – Pirramo, – chiamava – amor! – piangendo, el petto suo cho’ pungni perchotendo.190

[Piramo:] O morte iniqua, falsa et disleale,

187 C, X – XVII, 5, pp. 156-157. 188 D, XV-XVII, pp. 172-173.

189 A proposito di questa tessera antisemita, FRANCESCO A[LFONSO]UGOLINI, I cantari di Piramo

e Tisbe, cit., p. 161, annota: «“morte traditrice”, locuzione che qualche volta appare nella lirica delle

origini e in quella popolaresca. Ricordo da una canzone anonima del Vat. 3793 ([ERNESTO]

MONACI, Crestomazia [italiana dei primi secoli], [Città di Castello, Lapi, 1897], p. 96, vv. 33-35):

“… mortte micidera, troppo giuda mi se’ stata». 190 C, XXXIV, 2-8, p. 161.

87 che morta fussi tu già [da] molti annj!

Come puo’ sostener chotanto male, che ttu menasti questa in tali afannj? Ma priegho Iddio, s’el mie pregho vale, ch’alcuna fama sia de’ nostri dannj. In alcun modo viver non potrei, poi che lla morte tolta m’à chostei.191

Ma non si pensi alla ricerca, da parte del canterino, di un rispecchiamento totale del

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