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488 Si leggano qui le due epistole (in corsivo nel testo): «PIRAMO. / Se gli affetti d’Amore infiammassero il tuo Cuore, come consumano il mio nell’inventione de’ partiti non saresti precorso dalla debolezza d’una fanciulla. Chi non sa prevenire ama imperfettamente. Chi attende neghittoso d’esser incontrato dall’occasione dà segno di sprezzar quel possesso, che per conseguirsi è necessario incontrare l’occasione. Il muro che congiunge i tetti della nostra Casa nella più alta parte con un’apertura, fatto non so se da miei voti o da miei sospiri, ci darebbe qualche commodo ad isfogar la mia passione, se però il tempo o la gioventù non t’havessero traviato da’ primi pensieri. Se m’ami t’attenderò con quell’ansietà che bramano gl’occhi la luce. Non tradire il tuo Cuore, la mia affettione, se non v’acconsente il tuo genio. Se non risolvi d’amarmi, farò che le mie lagrime aiutino la calce per otturare quella apertura nella quale sepellirò tutte le mie pretensioni. Nella tua incostanza però sarò sempre tua svisceratissima Serva. / TISBE» (ivi, p. 121); «BELLISSIMA TISBE. / La mano, che concorre col cuore alla veneratione del vostro bello, registra in questo foglio i deliri della mia anima. Dopo che l’insidie della fortuna ecclissarono con la vostra absenza le mie felicità, non trascorre momento che non venga funestato dai miei sospiri o contaminato dalle mie lagrime. Hora formo querele contro l’incostanza delle sorti, sempre costante nelle mie infelicità. Hora accuso Amore, che tiranneggi con legge così severa la divotione de’ suoi soggetti. Hora maledico l’ambitione, che essendo il principio di tutti i mali, è stata l’origine del mio. Hora biasimo il Padre che voglia pretender il comando sopra d’un Cuore che non sa ubbidire che ad Amore. Hora vengo in odio a me stesso, che non sappia anteporre le sodisfattioni della volontà ai precetti della natura. In somma tutto ansietà e tutto furore, non ricevo altro sollievo che nei pensieri del vostro affetto e nella contemplatione del vostro bello. Non mi si rappresenta oggetto (ancorché privilegiato da’ doni del Cielo) ch’io non lo credi un picciol lume furato ai vostri splendori. Se si ritrova qualche bellezza (che i miei occhi però non la conoscono che nel vostro volto) che mi venga predicata dagli altri, dico subito ch’è una parte di voi, mentre al sicuro gli Dei per formar voi a somiglianza di Apollo copiarono tutto il bello delle più belle Dee. Scriverei più allungo se il dubbio che non capiti questa carta non mi fermasse la mano. non è di dovere che corra rischio del fuoco un foglio ch’è vergato delle vostre lodi. Non sarebbe però gran fatto poiché contiene le mie fiamme ed è destinato a voi, che siete il mio Sole. Sappiate ch’io v’amo, e che il mio amore terminerà col mio cuore, che sarà l’ultima scena della mia vita; e prima imparerò a non essere che di Tisbe non sia svisceratissimo Amante e fedelissimo Servitore. / PIRAMO» (ivi, pp. 123-124).

489 Cfr. ivi, pp. 117-119: «Animato Piramo ed avvalorato in medesmo prende occasione di discorrere col Padre, che amandolo in eccesso ascoltava con uguale attentione non meno i suoi deliri che i suoi avvertimenti. Gli rappresenta gl’utili della pace. Che non vi è cosa nel mondo, benché potente, che non venga abbattuta dalla discordia. La unione haver sollevati e sublimati a grandezze non credute principii, benché deboli. Se nel corpo humano, diceva egli, discordano i temperamenti, rovina la fabrica del Microcosmo eretta dall’unione de gl’elementi. Questa essere a tutti necessaria, ed in particolare ai Padri di famiglia per la riputazione di se stessi, per l’essempio de’ figliuoli, et per la salute della Patria. Non vi esser la più generosa vendetta co’l nemico del perdono. Tutti sapere offendere gl’inimici; ma i saggi solamente amarli. Questa inimicitia tanto più biasimevole quanto per haver havuto origine dall’interesse e dall’ambitione. Che tutti quei che i confessavano tenuti al suo affetto la riprendevano come ingiusta. La sua età e i suoi anni l’obbligavano al riposo, alla quiete, non all’ingiurie o all’armi. Non poter ricevere dai padri i figliuoli la più ricca facoltà che quella de gl’amici. Essere infelici all’incontro quegl’altri, ai quali l’inimicitia è la prima eredità che conseguiscano dai loro Genitori. Haverebbe detto di più, somministrandogli Amore copiosamente le ragioni e i concetti, se non fosse stato interrotto dal Padre con un sorriso, accompagnato di sdegno e disprezzo, che le comandava il silentio. Dopo

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loredaniano: non si andrà molto lontano dal vero ipotizzando in questa sede che l’idea

di far discendere l’inimicizia tra le due famiglie da un diverbio scoppiato, nello

scenario (quanto diverso da quelli ovidiani!) di una Sala del Consiglio, tra il padre di

Piramo e quello di Tisbe, a proposito dell’elezione del tesoriere, gli possa esser

derivata dal suo percorso politico, che include la nomina, nel 1635, a tesoriere della

fortezza di Palmanova, nel Friuli (del resto, anche il libro III della Dianea allude a

tale incarico):

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[Piramo] [n]on poté neanche mirarla, impiegati gli occhi a piangere, perché non accompagnavano il Cuore, che si portava la partenza di Tisbe. La bocca appena voleva partorire le parole che rimanevano soffocate dai sospiri, onde all’infelice Piramo tra tanti augumenti di dolore non gli veniva permesso il potersi dolere. Finalmente fatta forza alla violenza della passione, volle intendere dall’Aio la cagione d’un comando così severo, che lo separava da sé medesimo. Egli ubbidendo, così discorse:

«Erano nella gran Sala del Conseglio Aderaspe vostro padre, e Tiarte padre di Tisbe, quando un publico grido del Popolo rapì l’attentione, e la curiosità di tutti. Molti si affacciarono alle finestre, alcuni scesero le scale, e altri inviarono i Servitori, per indagare la verità d’un tumulto così grande, che haveva partorito dubbi anche nella sicurezza de gl’animi più intrepidi. Il Magistrato medesimo, conoscendo il popolo della natura del Mare, costante solamente nell’incostanza, temeva di qualche sollevatione.

In questa costernatione d’animi, portarono gl’avvisi la Morte del gran Thesoriere. Era questi stato ferito all’improviso con una arma, tanto più esecrabile, quanto più mortale. L’uccisore, servitosi delle grida del Popolo, per stimolo alla fuga, senza lasciarsi conoscere si salvò. Non ci fu alcuno che ardisse fermarlo; non volendo avventurare la propria salute, per vendicare l’altrui male. Gli stessi imaginandosi Aderaspe che il lasciare il figliuolo senza risposta era un discreditare se medesimo credendosi senza dubbi quella verità che non si può contender nemmeno con le parole, così le rispose: “Se non concedessi, Piramo, qualche scusa all’imperfettione dell’età, vorrei con un severo castigo reprimere l’ardire della tua ignoranza che cieca in se stessa ambisce dar lume all’operationi di tuo Padre. Mal impiegata sarebbe in me questa canitie, se dovesse ricever le regole della tua inesperienza. Sei giovine, e non sai più oltre di quello, che ti si fa oggetto agl’occhi. Ci vuole una prudenza consumata negl’anni a ventilare i fini dell’amicitie, e de gl’odi. Se tu fossi esercitato nel maneggio delle rivoluttioni humane non m’esortaresti a tradire il mio honore, ad oscurare gli splendori della mia nascita, et a denigrare la riputazione del mio stato. Credi che un vecchio non opera già mai a caso. Un vecchio poi, che ha più esperienze che anni, e che nel governo della Patria è stato sempre invidiato e non mai ripreso. Volesse il Cielo che senza offesa di me stesso potessi non offendere gl’altri. I desideri della mia quiete haverebbero prevenuto le tue esorttationi e i tuoi prieghi. So che aggiongo moleste a quegl’anni che doverebbero spendersi solamente al riposo. So che aggravo con soverchio peso la debolezza dell’età che potrebbe cadere prima del tempo; ma che debbo fare? Chi non si risente dell’ingiurie, ne provoca di nuove. Chi non ha sentimenti per la riputazione, non può vivere che con infamia. È vile quella vendetta che si esercita per opprimere solamente l’offensore, non per reprimere l’offesa. Odio l’ingiuria, non l’inimico. Se non ti sottoscrivi a questi sensi hai indegnamente usurpato il nome di mio figliuolo e se desideri ch’io ti riconosca per tale, non contrastare neanche con l’imaginatione a quei giusti risentimenti di un Padre che fa più capitale della riputazione che della vita”. Sofferì Piramo questa risposta senza replica, ma non senza sdegno. La riverenza paterna gl’obligò la lingua al silentio. Non puote però raffrenare il sangue che non corresse intorno al Cuore. Dissimulò con tutto ciò la passione per non disperare affatto le sue speranze. Si partì confuso, non sapendo come racconsolare le sue miserie, se non col sagrificare alla disperatione».

189 Servitori del Tesoriere non diedero pure mano su’l ferro, o per non degenerare dalla viltà propria di chi serve;491 o perché credevano che l’homicida non havesse tentato un pericolo così sicuro senza ’l favore e l’assistenza di molti. Tutti quelli del Conseglio stordirono a questo successo, né ci fu animo che non desse adito alla compassione. S’era il morto, con la grandezza della nascita, e coi meriti delle virtù, guadagnato l’amore etiandio di coloro che pativano l’infettione dell’invidia; tanto più che con la morte dell’huomo cadono e s’estinguono gli odi e i rancori. Alla pietà successe l’ambizione, stimolo assai più potente, perché può isfogarsi con maggiori difficoltà. Molti aspirarono di subito alla carica di gran Tesoriere, adulati dalla speranza che si fa adito in ogni luogo. Non si ritrova alcuno che voglia, co’l stimarsi poco, pregiudicare alle proprie pretensioni; nascendo per ordinario il disprezzo da noi medesimi. Tutti però cederono il luogo, quando Aderaspe vostro Padre fece cenno di pretenderlo: l’età, i meriti, l’esperienza e la nobiltà di vostro Padre haverebbero accusata di temerità ogni concorrenza. Confessavano convenire a lui solo per giustitia quello che tanti desideravano per gratia. Solo Tiarte persuaso o dallo sdegno nel vedere la poca confidenza di Aderaspe che essendogli amico così sviscerato non gli partecipasse prima di ogni altro il suo desiderio, o pure, come più verisimile, tormentato dall’invidia che non gli dava sofferenza nelle grandezze dell’amico, se gli dichiarò concorrente. Stupì Aderaspe, che gli fossero contesi gli honori da chi doveva procurarglieli, onde dato adito allo sdegno protestò inimicitia aperta, quando gli volesse contendere la consecutione di una carica concessagli da tutti gli altri. Tiarte, impegnato nella parola e stimolato da molti, che speravano approfittarsi da quest’inimicitie, con una risposta pungente commosse grandemente l’indignatione di vostro Padre, che volendo dar principio a gl’atti dell’inimicitia mi comandò che io v’intimassi la separatione da’ congressi di Tisbe».

L’Aio si preparava di aggiongere a questo racconto gl’avvertimenti, consigliandolo ad adherire alle sodisfattioni del Padre, al quale è debito l’ubbidire molte volte, anche nelle cose ingiuste. Ma l’animo di Piramo, riempito di passione e di sdegno, non poteva dar adito a quei consegli, che non sapevano adulare i suoi desideri. Non può destarsi la ragione in quel cuore ch’è addormentato nelle delitie del senso et affascinato dagli incanti della bellezza.492

Ma, al di là di questi risvolti più esternamente autobiografici, si pensi anche, e

soprattutto, ai temi dell’ambizione e della sensualità, che risuonano più volte, e con

una sospetta insistenza, nel corso della novella. Scrive Simona Bortot:

491 Commenti di questo tipo, d’ordine ‘classista’, non sono infrequenti nel dettato loredaniano. Cfr. per es. GIOVAN FRANCESCO LOREDANO, Gli amori infelici, cit., p. 121: «[Tisbe] temeva della

fede de’ servi, come quella che per ordinario è macchiata d’infedeltà». Emergono inoltre anche posizioni misogine, intrecciate invero, come nella sua opera tutta (cfr. CLIZIA CARMINATI, voce

‘Giovan Francesco Loredano’, cit., ad loc.), con affermazioni di segno opposto: cfr. per es. GIOVAN

FRANCESCO LOREDANO, Gli amori infelici, cit., p. 107: «L’ambitione di Semiramide diede saggio

che le Donne possono superare la debolezza del sesso con la grandezza de’ pensieri. Comandò l’erettione di alcune mura da lei chiamate Babilonia, che dall’antichità conseguirono il glorioso nome di maraviglie»; p. 116: «[Piramo:] “[…] La lontananza sana tutti gli Amori, e quei in particolare che tengono fondamento su la debolezza degli anni d’una fanciulla. Haverà creduto che sia effetto di prudenza saldare da se stessa quella piaga che la speranza rendeva ogni giorno più insanabile. Sono facili le Donne ad appigliarsi ai partiti. Con le lagrime fanno addormentare i dolori più che acerbi. L’haverà anche servito di stimolo la volontà paterna. […]”»; p. 123: «Lieta la vecchia [scil. la nutrice di Tisbe], non meno che per le promesse, che pascono gl’animi di tutti, ed in particolare quelli delle Donne, che per portar nelle mani un testimonio dell’affetto di Piramo [scil. la lettera indirizzata a Tisbe], volò a Tisbe».

190 Nel 1640, in apertura del suo Adamo, Giovan Francesco Loredano […] sceglieva di rivolgersi all’Ambizioso e al Sensuale, così ammonendoli: “Apprendi, o Ambizioso, la tua prima origine. Il tuo fasto e la tua alterezza, che contende gli ossequi alla sovrana potenza di Dio, viene da una massa vilissima della terra. E tu, o Sensuale, che avvilisci te stesso adorando un volto, tanto più indegno d’amore quant’è più impudico, considera come ti rendi odioso a quella mano divina che ha voluto il tuo essere” (p. 7). Evidentemente, ubi dolor, ibi digitus. Ambizioso e sensuale, in effetti, Loredano lo fu in prima persona, e le stesse categorie si attagliano con assoluta pertinenza anche a quel Giovan Battista Marino, di cui egli, agli esordi della sua carriera, scelse scientemente di ergersi contestualmente a biografo ufficiale e ad ‘erede’ ideale, indicando l’adesione marinista come implicito diktat anche per quell’Accademia degli Incogniti che si stava proprio allora cementando intorno alla sua indiscussa e carismatica leadership.493

Loredano ambizioso e sensuale, dunque. Con ogni evidenza, le ossessioni

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