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rispecchiare, così come dalle tonalità insistentemente patetiche e larmoyant della riscrittura, oltre che da una fitta serie di apostrofi, che rientrano in quei «vaghi e

artificiosi ornamenti» ampiamente esaltati da Giuseppe Horologgi nel suo commento

al volgarizzamento di poco successivo alla princeps (1563):

381

apostrofi o, per dirla

379 Ivi, ott. 56-63, p. 107.

380 GABRIELE BUCCHI, «Meraviglioso diletto». La traduzione poetica del Cinquecento e le Metamorfosi d’Ovidio di Giovanni Andrea dell’Anguillara, cit., p. 195.

381 Cfr. GIUSEPPE HOROLOGGI, Annotationi del quarto libro, in Le Metamorfosi di Ovidio ridotte

da GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA in ottava rima, cit., p. 150: «Gli amori di Piramo e Tisbe,

narrati da Alcitoe, sono con ogni maniera di leggiadria rappresentati da l’Anguillara; che le va con la felicità del suo stile, facendo ricchi di spiriti, di affetti, di conversioni, di comparationi, di descritioni e di ogni ornamento poetico, onde si può veramente dire che si sia, così in questa, come in tutte l’altre sue rappresentationi, tutto trasformato nello spirito di Ovidio, il quale quando havesse

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con l’Horologgi stesso, «conversioni», affidate non solo e non tanto ai protagonisti,

quanto piuttosto al narratore che, ancora una volta sulla strada del “narratore

passionato”, tentando, in particolare, per quanto inutilmente, di stornare dal capo dei

giovinetti il loro inevitabile destino, fa virare la fabula ovidiana dai suoi originari toni

oggettivi verso una ‘soggettivizzazione’ emotivamente fondata:

Era fra i padri lor pochi anni avanti nata una troppo cruda inimicizia;

e quanto amore e fè s’hebber gli amanti, tanto regnò ne’ padri odio e malitia. Gli huomini de la terra più prestanti tentar pur di ridurgli in amicitia e vi s’affaticar più volte assai, ma non vi sepper via ritrovar mai. Quei padri, che fra lor fur sì infedeli, vetaro a la fanciulla e al giovinetto, a due sì belli amanti e sì fedeli, che non dier luogo al desiato affetto. Ahi padri irragionevoli e crudeli, perché togliete lor tanto diletto, se ogn’un di loro il suo desio corregge con la terrena e la celeste legge? O sfortunati padri, ove tendete, qual ve gli fa destin tener disgiunti? Perché vetate quel che non potete? Ché gli animi saran sempre congiunti?

havuto a scrivere la historia di questi dui infelici amanti in questa nostra lingua Italiana, so che non l’haverebbe potuta vestire di più vaghi et artificiosi ornamenti, di quelli che si scoprono nella poesia dell’Anguillara, il quale descrive felicemente così la bellezza di Piramo, nella stanza: Fra i più

lodati giovani del mondo, come ancora quella di Tisbe in quella: Et s’ei tutti eccedea di quell’etade.

Vaga conversione a i padri de gli innamorati è quella della stanza: O sfortunati padri, ove tendete, come è ancor quella al muro che rafreddava gli accesi desideri de i giovanetti amanti, nella stanza:

Deh, perché non ti muovi a’ nostri preghi. Come scopri poi gli affetti così del giovane, come di

Tisbe, mentre che attendevano l’hora, nella quale speravano di dar compimento a i loro focosi amori, nella stanza: Chi potria dare ogni amorosa cura e in quelle che seguono, si vede ancora bellissima la conversione che fa a Tisbe, dicendo: Che vuoi far, infelice, aspetta ancora; bellissima la descrizione de gli affetti dell’innamorata giovane, nel partirsi al buio della sua camera, per andare al destinato luogo; e ne l’aprire la porta con la chiave contrafatta; nell’uscire, e in tutti quegli accidenti, che si possono imaginare in una simile rappresentazione. Bellissima è la conversione fatta alla Luna: Deh Luna ascondi il luminoso corno, come è ancora quella a Piramo poco più oltre: Deh,

non dar fede, misero, a quel panno; bellissimo e molto affettuoso è il cordoglio del giovane che

incomincia nella stanza: Come ricuperar la voce puote, girando le sue dogliose parola, quando alla morte, quando alle stelle, quando a i cieli, quando alle fiere, quando alle vesti dell’amata Tisbe, quando al leone, e quando a se stesso. E molto vaga ancora la conversione che fa il poeta alle stelle nel voler Piramo porsi la punta della spada nel petto, nella stanza: Appoggia in terra il pomo della

spada; come è ancora vaga quella a Tisbe, nella stanza: O sventurata, e dove ti conduce, insieme

con l’ultime parole piene di varij affetti, molto vagamente rappresentati da gl’infelici amanti, che si leggono nelle stanze che seguono. Come medesimamente si vede ancora rapresentato felicemente l’epitafio di quelli infelici amanti, nella stanza: Qui stan Piramo e Tisbe, amansi, e danno».

153 Ahi, che sarà di voi se gli vedrete

per lo vostro rigor restar defunti? Ahi, che co’ vostri non sani consigli procurate la morte a’ vostri figli.382 Deh, Luna, ascondi il luminoso corno e, più che puoi, fa questa notte bruna, adombra il ciel tu, Noto, d’ogn’intorno, e le più oscure nubi insieme aduna,

che ’l mal ch’ad ambedue vuol torre il giorno, e intanto passerà questa fortuna,

non trovi e vegga, io dico, quella vesta che coppia sì gentil vuol far funesta.383 Deh, non dar fede misero a quel panno che di così gran male indicio apporta e che t’astringe a creder per tuo danno che senza dubio alcun Tisbe sia morta. Né ti lasciar sì vincer da l’affanno che vogli a’ giorni tuoi chiuder la porta. Attendi un poco ancor, ch’ella ne viene e non ti priverai di tanto bene.384 O sventurata, e dove ti conduce il pensier c’hai di servar bene il patto per poter con l’udir e con la luce contentare anche il sì cupido tatto. Ahi, quanto mal per te sì chiara luce la Luna, consapevole del fatto,

che spande così chiara il suo splendore per mostrarti il tuo inganno e ’l tuo dolore. Tu speri al giugner tuo che ’l bello aspetto debbia far l’occhio tuo contento e lieto, che debbia il parlar dolce e pien d’affetto dare a l’orecchio il cibo consueto,

speri baciarlo e prender quel diletto che non potesti prender per l’adrieto, e speri anco trovar paesi esterni e goderti con lui poi molti verni.

Ma tu vorresti haver, quando il vedrai, misera, al giugner tuo cieca la vista e le poche parole ch’udirai

faran l’orecchia tua dolente e trista. Quel poco tempo morto il bacerai che fia col corpo tuo l’anima mista e i verni, che farai seco soggiorno,

382 Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da GIOVANNI ANDREA DELL’ANGUILLARA in ottava rima, cit., libro IV, ott. 39-41, p. 105.

383 Ivi, libro IV, ott. 105, p. 111. 384 Ivi, libro IV, ott. 107, p. 112.

154 non soffriran che vegga il primo giorno.

Va da quell’arbor, misera, discosto, cerca per l’orme ove il Leon s’annida, tanto che trovi dove sta nascosto e non ti curar punto che t’uccida; o ne la fronte fa cieca più tosto la luce che t’alluma e ti guida, misera, ad ogni mal prima t’inchina che veggan gli occhi tuoi tanta ruina.385

Il nostro percorso cinquecentesco, a ben guardare, può essere coronato e sigillato

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