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presunta morte di Silvia (Aminta, III, ii, 173-230) che prende corpo l’insistito richiamo intertestuale 394 Seguiamone gli snodi principali individuati da Claudio

Scarpati:

393 Cfr. per es. «AMINTA: Ahi, lasso, / ch’Amor satollo è del mio pianto omai, / e solo ha sete del mio sangue, e tosto / voglio ch’egli e quest’empia il sangue mio / bevan con gli occhi» (Aminta, I, ii, 352-356, p. 87; si cita da TORQUATO TASSO, Aminta, a cura di Marco Corradini, prefazione di

Guido Baldassarri, Milano, Rizzoli, 2015) con «‘accipe nunc’ inquit ‘nostri quoque sanguinis haustus!’» (“E adesso imbeviti anche del mio sangue!”, Met., IV, 118); «AMINTA: […] Congiunti eran gli alberghi, / ma più congiunti i cori; / conforme era l’etate, / ma ’l pensier più conforme» (Aminta, I, ii, 414-417, p. 90) con «contiguas tenuere domos» (Met., IV, 57); «TIRSI: Se la tua donna fosse in mezz’un bosco / che, cinto intorno d’altissime rupi, / desse albergo a le tigri ed a’

leoni, / v’andresti tu?» (Aminta, II, iii, 1053-1056, pp. 142-143, corsivo mio) con «ubi dicitur altam

/ coctilibus muris cinxisse Semiramis urbem» e «o quicumque sub hac habitatis rupe, leones!» (Met., IV, 57-58 e 114, corsivo mio); «TIRSI: […] Là dunque [Aminta] s’inviò dubbio ed incerto, / mosso non dal suo cor ma sol dal mio / stimolar importuno; e spesso in forse / fu di tornar indietro, ed io ’l sospinsi, / pur mal suo grado, inanzi» (Aminta, III, i, 1221-1225) con «[Piramo]: ‘[…] nostra nocens anima est. Ego te, miseranda, peremi, / in loca plena metus qui iussi nocte venires / nec prior huc veni».

394 Cfr. CLAUDIO SCARPATI, Il nucleo ovidiano dell’Aminta, in IDEM, Tasso, i classici e i moderni, Padova, Antenore, 1995, pp. 75-107: p. 75: «La favola di Piramo e Tisbe […] si ramifica sotterraneamente nell’Aminta, occultata tanto che solo a tratti e di sfuggita ne è stata segnalata la presenza». Riporto qui di seguito alcuni dei brevi cenni critici di rilevazione della traccia intertestuale cui si riferisce Scarpati: ENRICO CARRARA, La poesia pastorale, Milano, Vallardi,

[1909], p. 339: «la favola di Piramo e Tisbe, presso Ovidio, dovette fornir l’idea del velo indizio della morte di Silvia, più propriamente che altri veli già incontrati»; MARIO FITTONI, Intorno

all’ordito classico dell’Aminta, in «Convivium», XXIX, 1961, pp. 12-34: p. 32: «Il IV delle Metamorfosi, nel tragico amore di Piramo e Tisbe, la favola antica venuta dall’Oriente, […]

suggerisce l’episodio del velo insanguinato di Silvia ritrovato da Nerina (atto III, scena II). Il racconto di quest’ultima attenua quanto v’è di dramma nella narrazione magistrale di Ovidio. In questa abbondano i particolari: la leonessa feroce che, “ore cruentato”, dilania “tenues amictus” mentre Tisbe fugge, il ritrovamento di Piramo, la disperazione ed il pianto di Tisbe sul corpo di lui

159 1. Metam., IV, 96-112. La leonessa dal muso insanguinato […] fa fuggire Tisbe dal sepolcro di Nino […]. Fuggendo, Tisbe perde il velo […] che la leonessa dilania con la bocca sanguinolenta. Piramo sopravviene, scorge il velo macchiato di sangue e impallidisce immaginando la morte cruenta della donna amata.

Aminta, III, ii, 173-230. Nerina racconta come, dopo aver accompagnato Silvia dalle ninfe sue

compagne, vede apparire un lupo che “da le labbra / gocciolava una bava sanguinosa”. Silvia lo insegue e scompare. A Nerina che la vuol raggiungere cade sotto gli occhi un dardo di Silvia e il velo di lei; intorno sette lupi si contendono una preda di cui rimangono le ossa. Nerina porta con sé il velo insanguinato e lo mostra ad Aminta come testimonianza della (presunta) morte di Silvia. 2. Metam., IV, 115-124. Piramo raccoglie il velo di Tisbe, lo porta ai piedi dell’albero dove l’avrebbe incontrata, lo bagna di lacrime prima di uccidersi.

Aminta, III, ii, 263-272. Aminta chiede [a Nerina] il velo di Silvia, “ch’è di lei / solo e

miserando avanzo”, perché lo accompagni per quanto di vita gli rimane.

3. Metam., IV, 128-130. Tisbe non è morta e ritorna al punto convenuto per raccontare “quantaque vitarit […] pericula”.

Aminta, IV, i, 12-49. Silvia appare e racconta che, inseguendo il lupo nel bosco, ne perde

dapprima le tracce. Indi lo ritrova con altri intorno al corpo di un animale ucciso; il lupo le viene incontro “con la bocca sanguinosa”. Ella fugge e un ramo le trattiene il velo che si scioglie dalle sue spalle.

4. Metam., IV, 110-114. Piramo, sentendosi colpevole della (presunta) morte di Tisbe, invoca i leoni perché facciano scempio di lui: “Nostrum divellite corpus / et scelerata fero consumite viscera morsu, / o quicumque sub hac habitatis rupe leones!”.

Aminta, IV, ii, 221-235. Aminta, prima di gettarsi dalla rupe, esprime il rammarico di non poter

essere anch’egli divorato dai lupi: Se presti a mio volere

così aver io potessi

la gola e i denti de gli avidi lupi, com’ho questi dirupi,

sol vorrei far la morte che fece la mia vita:

[…]. Nelle parole di Nerina solo un velo caduto e raccolto, mentre sette lupi, più lungi, leccano “di terra alquanto sangue / sparto intorno a cert’ossa affatto nude”. Il dolore di Aminta va raffrontato con quello di Tisbe; tuttavia a me pare che il pastore troppo parli, in confronto con la drammatica intensità ovidiana. Quanti interrogativi, e taluni enfatici! Ne conto sei, prima del suo allontanarsi definitivo. E quell’iniziale “Dolor, ché si mi crucii, ché non m’uccidi omai?” sarebbe pur bastato, con quel verbo “cruciare”, quasi iacoponiano, a dare al lettore il segno di una sofferenza estrema e sincera»; e HUGO FRIEDRICH, Epoche della lirica italiana, 3 voll., II. Il Cinquecento, Milano,

Mursia, 1975, p. 107: «Due volte una presunta morte (chiaramente imitata dalla leggenda di Piramo e Tisbe) genera quella tonalità in minore che è necessaria affinchè poi la liberante tonalità in maggiore risuoni più felicemente».

160 vorrei che queste mie membra meschine

sì fosser lacerate, ohimé, come già fôro quelle sue delicate.

Poi che non posso e ’l cielo diniega a ’l mio desire gli animali voraci

che ben verriano a tempo, io prender voglio altra strada al morire…

5. Metam., IV, 148-153. Tisbe accanto a Piramo morente riconosce il proprio velo e il fodero del pugnale con cui lui s’è ucciso: “‘Tua me manus’, inquit, ‘amorque / perdidit, infelix! Est et mihi fortis in unum / hoc manus, est et amor: dabit hic in vulnera vires. / Persequar extinctum, letique miserrima dicar / causa comesque tui ; quique a me morte revelli / heu sola poteras, poteris nec morte revelli’”.

Aminta, IV, ii, 269-297. Silvia, contemplando il cinto di Aminta, esclama che la notizia della

morte di lui le toglierà la vita “se non potrà co ’l duolo, almen co ’l ferro” e soggiunge: Dovea certo, io dovea

esser compagna a ’l mondo

de l’infelice Aminta poscia ch’allor non volsi, sarò per opra tua

sua compagna a l’inferno.

6. Metam., IV, 137-142. Riconosciuto Piramo, Tisbe si percuote, abbraccia il corpo di lui e lo bacia […].

Aminta, IV, i, 96-112. Quando Silvia riconosce Aminta privo di sensi, si percuote, lo abbraccia

e lo bacia:

Ma come Silvia il riconobbe e vide le belle guance tenere d’Aminta iscolorite in sì leggiadri modi che vïola non è che impallidisca sì dolcemente, e lui languir sì fatto che parea già ne gli ultimi sospiri esalar l’alma, in guisa di baccante gridando e percuotendosi il bel petto, lasciò cadersi in su ’l giacente corpo e giunse viso a viso e bocca a bocca. […]

Poi sì come ne gli occhi avesse un fonte, inaffiar cominciò co ’l pianto suo il colui freddo viso…395

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