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Ora, se si considera che spesso è stata evidenziata in sede critica la natura solipsistica, narcisistica, immatura, della passione dei giovinetti babilonesi,

soprattutto in riferimento alle riscritture d’area francese (del resto, in un romanzo

398 SERGIO ZATTI, Natura e potere nell’Aminta, in Studi di filologia e letteratura offerti a Franco

Croce, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 131-147: pp.133-134 e 146-147.

399 Aminta, III, ii, 1439-1440, p. 174.

400 Cfr. CLAUDIO VARESE, Introduzione a TORQUATO TASSO, Aminta, Milano, Mursia, 1985, pp. 5-24: pp. 9-10: «L’impazienza del dolore di Aminta, che viene commisurato e rapportato col tempo “il mio morire più amaro sarà quanto più tardo”, diventa lungo il corso della scena, dolore e desiderio di morte, non più per amore respinto, ma per una nuova occasione di amore e di morte. Il dialogo fra Dafne e Aminta si appunta nell’accettare o nel rifiutare il beneficio del tempo: “Aspetta” “Aspetta – ascolta”: il buon senso di Nerina mette in evidenza la furia veloce di Aminta».

401 Aminta, III, ii, 1453, p. 175. 402 Ivi, III, ii, 1455-1456, p. 175. 403 Ivi, IV, i, 1489-1490, p. 180.

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duecentesco, Floris et Lyriopé, significativamente la protagonista, assimilata a Tisbe,

dà alla luce un figlio di nome Narciso),

404

ben si comprende come l’opera tassiana

possa essere intesa, soprattutto in virtù della presenza di una ‘socialità’ dialettica che

interagisce fruttuosamente con la coppia, come un ‘correttivo’ al tipo di amore

incarnato dagli amanti ovidiani, ossia, come del resto suggerisce Roberto Gigliucci

pur senza far riferimento all’antica fabula, all’amore cortese-petrarchesco votato

all’isolamento autodistruttivo:

La storia della favola pastorale, come genere, è probabilmente la storia della più affascinante autoriflessione della poesia d’amore occidentale. Si tratta di una teatralizzazione e impaginazione affabulante e dialogica dei luoghi canonici in cui si articolava la lirica d’amore cortese e petrarchesca e post-petrarchesca e petrarchista: l’universo dell’inventio lirica si interroga su se stesso e “verifica” il proprio bagaglio di senso (e non-senso) proiettandolo in una dimensione scenica, con personaggi e azioni, realizzando la reificazione di metafore e figure topiche in Arcadia, o in luoghi similari, mutuati dalla poesia bucolica, che aveva conosciuto la sua lunga storia, autonoma e tenace. La trasposizione drammaturgica consente, attraverso il passaggio dall’io lirico onnipotente alla pluralità dei personaggi, di pensare la tradizione poetica amorosa “in gioco”, di

404 Cfr. CRISTINA NOACCO, Introduzione a Piramo e Tisbe, a cura di Cristina Noacco, cit., pp. 32- 35: «sembrerebbe di poter scorgere, dietro al mito della morte per amore celebrato nel lai [ossia nel più volte citato Piramus et Tisbé, XII sec.], una critica dell’“amor puro”, concepito come tragedia vissuta passivamente. […] la causa del destino fatale annunciato fin dall’inizio è da imputare a Piramo che […] non sa far altro che lamentarsi e piangere sul proprio destino. […] la fine del desiderio, che avrebbe dovuto segnare l’incontro con Tisbe, si congiunge con il desiderio della fine, quella morte già agognata come fine del supplizio d’amore che il protagonista esprime nel suo primo monologo. L’autore della novella medievale nasconderebbe allora, dietro le tragiche conseguenze del carattere malinconico di Piramo, una critica della ricerca del piacere, quando essa tenda al raggiungimento del piacere stesso: incapace di agire o caduto nell’impasse di una tale concezione dell’amore, il giovane non potrà vivere che il primo stadio dell’esperienza amorosa: “il verde paradiso dell’amore infantile”. […] La tragedia di Piramo, che sarebbe dunque quella di chiunque desideri amare secondo i dettami della fin’amor, è implicita nell’esitazione a compiere il passaggio all’età adulta che l’amore implica. […] I monologhi di Piramo (così come quelli di Tisbe, almeno fino al momento in cui essa non decide di infrangere il divieto paterno) riflettono un amore vissuto in modo egocentrico: la sofferenza non è condivisa, ma rimane un’esperienza profondamente individuale. […] Anche Piramo e Tisbe, come Narciso e Danae [nel lai gemello], imparano a condividere i loro sentimenti solo attraverso l’esperienza della morte: attraverso di essa prendono coscienza dell’altro, si comportano e fanno – come fanno in punto di morte sia Piramo che Narciso – in riferimento all’altro e non più alla loro unica cognizione del dolore. I due adattamenti medievali sono un monito a seguire il richiamo dell’amore, a superare lo specchio nel quale si riflette il proprio io, superficie orizzontale come nel lai di Narcisse o verticale, come il muro che separa i due innamorati e contro il quale, come vedendo riflessa la loro stessa immagine, essi parlano. Il muro […] presenta un duplice ruolo in Piramus et Tisbé, in quanto permette ai personaggi di incontrarsi e, allo stesso tempo, di ritardare il loro incontro. Aumentando l’attesa della conclusione sul piano narrativo e il pathos lirico su quello retorico-stilistico, l’elemento architettonico del muro potrebbe essere considerato come un mitema posto al servizio della concezione della fin’amor e del tema dell’amor de lonh caro ai trovatori. […] Nel romanzo di

Floris et Lyriopé, redatto da Robert de Blois verso la metà del XIII secolo, i due protagonisti, che

vengono paragonati a Piramo e Tisbe, danno alla luce un figlio dal nome emblematico: Narciso. Nel loro caso, come nella nostra storia, l’elemento della grande somiglianza fra i due fanciulli permette la loro sovrapposizione e identificazione: se uno è uguale all’altro, uno più uno fa… uno!».

165 trascinarla nel rischio del confronto fra personae e dell’evoluzione di una storia, di un intrico […]. […] la pastorale, in una fase già di quasi-maturità nella Ferrara di fine anni sessanta [nello

Sfortunato di Agostino Argenti, pubblicata nel 1568 e rappresentata l’anno precedente], esibisce

tutti i topoi dell’amore petrarchista e vi riflette sopra, articolando luoghi mentali in un evento drammaturgico, creando incastri fra personaggi e optando per lo scioglimento lieto […]. Proprio attraverso questo dato dell’happy ending la pastorale ripensa l’universo contraddittorio e staticamente inquieto della lirica d’amore risolvendo i paradossi in un assestamento finale delle coppie (per lo più nuziale) pressoché obbligato. Talché gli ossimori amorosi nella pastorale ci sono tutti, ma sembrano campeggiare in una dimensione ineludibilmente fallimentare, sembrano esigere una correzione in direzione della realtà e della quiete. Le sofferenze del fido amante vengono spesso premiate, anzi, l’esperienza della morte e del soffrire sono via alla felicità (clamorosamente nell’Aminta). Ma una sottile corrosione del paradosso insolubile e fine a se stesso (proprio della lirica) si fa avanti. Sarà presente […] in modo inequivocabile nel Pastor fido del Guarini, di cui si veda la scena sesta dell’atto terzo: Corisca (malvagia e spregiudicata, ma alla fine redenta) cerca di distogliere Mirtillo dal suo amore impossibile per Amarilli (promessa sposa a Silvio) evidenziandone la natura di fissazione, di ossessione malinconica […]. La critica è diretta all’amore cortese plurisecolare, che non esce dal circuito del proprio io affollato di fantasmi e di disperazioni e di esaltazioni: l’amante ama il proprio amare, il proprio dolce penare, il proprio vitale morire; il suo amore non è realmente proiettato verso l’oggetto, giacché la non corresponsione sostanzialmente lo impedisce. […] Nel Pastor fido […] una onesta sensualità matrimoniale si pone come valore in contrapposizione sia al libertinismo immorale, sia al perenne desiderio inattuabile che gode ossimoricamente della propria disperazione. […] l’ideologia della Mirtilla [dell’Andreini, 1588] è questa: il mal d’amore disperato è in realtà furore che porta alla morte, caos che l’amore corrisposto e coniugale riduce all’ordine. L’amore tragico, senza speranza, ossimorico ed autoreferenziale va corretto in corresponsione felice e monogamica. Viene smentita tutta la plurisecolare tradizione cortese che enfatizza la lontananza, l’assenza, la solitudine, l’irrealizzabilità come postulato di un desiderio infinito e paradossale. Così la pastorale assimila i loci della lirica d’amore, li ripropone tutti per poi superarli e negarli. […] Nella Mirtilla Ardelia si innamora addirittura di se stessa, in una trama ovidiana di paradossi dell’autodesiderio […]. I “saggi consigli” del pastore distolgono Ardelia dall’infecondo regno dell’autoerotismo, dell’amore per un’immagine evanescente: “Ora mi toglio al falso e al ver mi dono: / amare il corpo voglio e non più l’ombra”. È la dichiarazione di fallimento dell’amore narcisistico, ma, per certi versi, anche dell’amore perennemente infelice della tradizione cortese-petrarchesca, ove la distanza e la natura di fantasma dell’oggetto amato sono ineludibili. Ancora una volta la pastorale offre una via di uscita dalla prigionia dorata della lirica d’amore occidentale.405

Ma per il Bildungsroman di Aminta e Silvia la sola presenza dei confidenti e degli

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