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dall’altro, nel contenuto letterale del suo racconto, perché, curiosamente, proprio lì dove l’autore del cantare decide di prendersi una qualche licenza rispetto al plot

originario, reclama la fondatezza e l’autorevolezza della propria narrazione

spettacolarizzata sulla scorta del magistero ovidiano; pertanto, il poeta di Sulmona,

chiamato in causa per giustificare alcune deviazioni dal suo stesso tracciato (quali per

esempio la reclusione della sola Tisbe, dettata da motivazioni medievali di marca

misogina, o lo svilimento e l’anticipazione di una similitudine del dettato originario,

per cui la fanciulla trema sì, ma non come mare agitato da lieve brezza, bensì come

foglia, e non dinanzi a Piramo morente, ma in corrispondenza dell’agnizione della

143 Cfr. ARMANDO BALDUINO, in Cantari del Trecento, cit., p. 290: «fizione: inteso come latinismo vale semplicemente “composizioni, creazioni” (ma forse non è neppure da escludere il senso di “inganni, stratagemmi amorosi”); in ogni caso sembra riferirsi più all’Ars amatoria che non alle molte storie delle Metamorfosi, tra le quali appunto (cfr. il v. successivo) è quella di Piramo e Tisbe»; già FRANCESCO A[LFONSO] UGOLINI, I cantari di Piramo e Tisbe, cit., p. 38, nota 1,

osservava che se i versi «costui, gustando ciò che in amor gira, / per far ben noti gli venire’

inganni» «sembrano alludere alle due prime operette [Ars Amatoria e Remedia Amoris]», «nelle

“finzioni” [“un libro in versi poetando scrisse, / nel qual d’amore asai figione disse”] […] vanno sicuramente riconosciute le favole delle Metamorfosi, l’Ovidio maggiore medioevale. In realtà, non è possibile fare delle distinzioni troppo sottili. La fama di maestro nelle cose di amore di cui fruiva il Sulmonese (e che gli veniva in gran parte dai suoi libri erotici: ved. ARTURO GRAF, Roma nella

memoria [e nelle immaginazioni del Medioevo], Torino, [Chiantore], rist. 1923, pp. 607 sgg.) e

l’argomento in massima parte amoroso delle favole del poema dovettero sovrapporsi nelle menti dei lettori medioevali e generare la “contaminazione”. Del resto, già prima del nostro rimatore aveva operato la fusione dei vari elementi Brunetto Latini nel suo Tesoretto: “Vidi Ovidio maggiore / che gli atti dell’amore, / che son così diversi, / rassempra e mette in versi…” e nell’explicit di un codice della Universitaria di Torino (il n. 166), contenente una copia della traduzione delle Metamorfosi del pratese Simintendi […], si leggeva: “Finito è qui l’Ovidio Maggiore, cioè Amore

Metamorfloseos”».

144 Cfr. FRANCESCO A[LFONSO]UGOLINI, I cantari di Piramo e Tisbe, cit., p. 37, nota 2, e p. 102: «Innanzi ad una traduzione in prosa toscana dell’Ars Amatoria, che pare doversi riportare alla fine del Duecento, si legge che “Publio Ovidio Nasone, poeta nobilissimo, … fu nato di campagna […]: E[GIDIO] BELLORINI, Note sulle traduzioni italiane dell’Ars Amatoria e dei Remedia Amoris

d’Ovidio, anteriori al Rinascimento, Bergamo, [Cattaneo], 1892, p. 13»; «Col nome di Campagna

si designò […] nel Medio Evo il territorio a sud dell’Urbe, fra i Lepini e gli Ernici, all’incirca dalle sorgenti del Sacco a Ceprano. Non so come questa leggenda sulla patria del Poeta sia sorta: è certo però che alla base di essa sta l’ignoranza geografica dei commentatori dell’Età di Mezzo».

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fessura dell’invidus paries), assume così, a tutti gli effetti, le strane vesti di quel

Turpino

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che, come osserva giustamente Monica Farnetti, «sottende […] da tempi

non databili, il problema della verità: verità di chi riferisce, comunica, racconta, da

storico o poeta, cronachista o “ciaratan”, e verità dunque che risulta dalla doppia

variabile della genuinità delle fonti e della fedeltà del narratore, ma che più

radicalmente investe […] l’istituzione della parola umana e poetica»:

147

146 A proposito del v. 6 dell’ottava 15 del cantare C, FRANCESCO A[LFONSO]UGOLINI, I cantari di

Piramo e Tisbe, cit., p. 156, commenta così: «Ovidio fa qui l’ufficio del leggendario Turpino; il

rimatore inventa, e suffraga la sua fantasticheria con uno dei soliti rinvii, privi di valore, ad una fonte scritta».

147 MONICA FARNETTI, Il prestigio e crisi del vescovo Turpino, in EADEM, Il manoscritto

ritrovato. Storia letteraria di una finzione, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2005, pp. 65-91: p.

66. Cfr. anche ivi, pp. 80-82: «Scegliere Turpino come filo conduttore comporta […] la scelta di un […] percorso […] alternativo, di fatto, a quello mal fatato e difficile che, originandosi […] nelle

chansons de geste e nella tradizione epica, passa per il “sottobosco” brulicante e ombroso dei

cantari. Le difficoltà di datazione e di edizione che incombono sul repertorio, e di conseguenza lo stato ancora solo relativamente avanzato degli studi in materia, consentirebbero infatti per forza di cose soltanto una trattazione assai problematica, in quest’ambito, del topos del manoscritto, difficile da seguire nella sua storia e nel suo sviluppo all’interno di una tradizione insieme così densa e poco rischiarata. Tuttavia il repertorio si indovina già e si verifica, grazie soprattutto ad alcuni studi recenti [GIOVANNI BATTISTA BRONZINI, Tradizione di stile aedico dai cantari al Furioso, Firenze,

Olschki, 1966, § La credibilità della narrazione, pp. 67-82 e MARIA CRISTINA CABANI, Le forme

del cantare epico-cavalleresco, Lucca, Pacini Fazzi, 1988], ricco di indicazioni e sollecitazioni al

riguardo. Poiché per sua definizione il “cantare”, lo si voglia o meno analogo del “trovare”, presuppone l’esistenza di un testo scritto precedente, dal quale il canterino trae “direttamente la materia della sua poesia”, per cui diviene “assai difficile precisare dove fini[sca] la composizione originale e dove invece cominc[i] la traduzione” [EZIO LEVI, I cantari leggendari del popolo

italiano nei secoli XIV e XV, in “Giornale storico della letteratura italiana”, Supplemento n. 16,

Torino, Loescher, 1914, pp. 1-171: p. 21, corsivo della Farnetti]. Lo stretto rapporto fra il cantare (orale) e la fonte scritta partecipa, dunque, alla definizione del genere, e si salda nel concetto stesso di tradizione dato che “La tradizione scritta, quella a cui afferma costantemente di riferirsi, è […] l’unica garanzia che il narratore può fornire all’ascoltatore, dal momento che egli non può presentarsi come testimone oculare ed è quindi limitatamente responsabile circa la verità di ciò che narra [MARIA CRISTINA CABANI, Le forme del cantare epico-cavalleresco, cit., p. 129]. Peraltro,

l’operazione del narratore ponendosi come “atto di rivitalizzazione del passato” e “nuova ‘interpretazione’ della storia” (antica infatti, in quanto tradizionale, è per definizione la materia), la mediazione del canterino, che è di tipo interpretativo quanto sovente linguistico e formale, si intende facilmente come opera di traduzione, soprattutto e ancor più se il traslatare avviene dal latino o dal francese al volgare, e dalla prosa alla rima. Il canterino appoggia dunque, di necessità, il suo testo a un altro testo: dinamica che non manca ben presto di stereotiparsi, generando un vero e proprio formulario di “autenticazione della storia”. Il “solenne ma affatto generico rinvio all’autorità del ‘libro’, della ‘storia’, delle ‘carte’ che costituiscono la misteriosa fonte dell’autore” [ARMANDO BALDUINO, Introduzione a Cantari del Trecento, cit., p. 17], si stilizza infatti fra Tre e

Quattrocento in una griglia precisa di procedimenti formulari, dove il rinvio alla fonte è un topos che si impone ben al di sopra della necessità di distinguere tra fonte reale e fittizia. “Antica” e “vera” (dove l’un epiteto è perfetto sinonimo dell’altro) è la “storia” (o “libro” o “conto”), laddove per convenzione “la semplice menzione della fonte […] diventa la prova immediata della verità dei fatti narrati”, e dove tanto basta perché il narratore risolva la sua preoccupazione di fondo, “quella di dimostrare che la storia non è di sua invenzione e che il riferirla non è atto gratuito” [MARIA

74 così le madre di questi amorosi

sentîr la fama, come Ovidio conta,

e come egli eran sol d’amor bramosi, per che, comossi da gran gelosia, ciascuno il suo figliuol mise in obria.148 Im Bambillonia fu due eccielenti, qual in pueritia Amor suo’ gli fecie, Pirramo e Tisbe detti pe lle gienti,

che ppiù s’amaron che Orfeo e Euridicie.

Dà ciaschun atto d’amor fra lle gienti sanza malitia, chome Ovidio dicie,

e pe lla vicinanza insieme usando e ll’un dell’altro sempre innamorando.149 E ppoi che ll’età lor fu giovinile, che pur mostrava perfetto l’amore,

alla fanciulla fu dato altro stile, sichome scrive lo grande autore;

ché nonn è fermo l’amor feminile ché ’nver di ley non abbian disonore, gli parenti di lei sì gli vietaro

che nonn usasse chom Pirramo charo.150 Tisbe, tremando chome [al vento] foglia,

chome scrive el sopradetto autore,

che non si sappia, tutta timidetta, divenne prima a quella fessuretta.151

Si verifica, dunque, un processo, più o meno consapevole, di ‘falsificazione’

dell’originale, correlato ad una contemporanea pretesa di ‘verità’ letterale/letteraria.

Ma, in realtà, la giustificazione profonda di una narrazione, che si vorrebbe ad ogni

costo giustificare con il riferimento ad una fonte esterna ed autorevole, non è che la

CRISTINA CABANI, Le forme del cantare epico-cavalleresco, cit., p. 129]. Dove è già tutto, come si

vede, il senso del topos, prodottosi in un regime di mentalità (quella che alimenta la cultura canterina e che associa automaticamente, alla sola menzione della fonte, un “sentimento” di verità) a cui è difficile dire se collaborino elementi di ingenuità popolare o, al contrario, motivazioni complesse e di vario ordine. In ogni caso il topos appare fin da ora dotato del potenziale fra etico e narratologico (relativo alle ragioni quanto ai modi del narrare) che è destinato a liberare nei secoli a venire, variando sul modello ma senza modificarlo. Sul piano dell’allestimento del dispositivo testuale, infatti, i cantari tre e quattrocenteschi (ma non meno la Vita Nuova) attestano il raggiungimento di un risultato tecnicamente già completo, che non avrà da arricchirsi ma solo da variare tipologicamente in concomitanza con le diverse esigenze di cultura, di poetica e di genere con cui via via verrà a interagire».

148 A, XII, 5-8, p. 175. 149 C, II, p. 152. 150 C, IV, p. 153. 151 C, XV, 6-8, p. 156.

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medesima narrazione o, meglio, l’istanza antropologica del narrare, dell’affabulare

(«[l]’esigenza era semmai d’ordine antropologico»).

152

È per questo che la narrazione non si erge a tribunale delle intenzioni e delle

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