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La riformulazione della vicenda, isolata e decurtata dell’originaria cornice, passa innanzitutto attraverso i più tipici e riconoscibili meccanismi del genere: si pensi in

primis al topico dispiegarsi, nell’incipit dei cantari, dell’invocazione a Dio oppure (e

siamo già sbilanciati verso una produzione maggiormente matura, quattrocentesca) ad

una divinità pagano-mitologica quale Apollo:

110

O sommo padre che de’ lumi eterni infin nel ventre della madre nostra ogni matera giudichi e governi per tal virtù che solo in te s’incostra, le spere co’ lor corpi sì moderni ch’ogni lor moto il suo valor dimostra agli animal’ che son sotto la luna, la cui influenza in essi si raguna;111 per quello Amor che di lassù discese a far nel mondo di tua carne preda, 108 C, XLIII-XLV, pp. 163-164. 109 D, XXXIX, pp. 178-179.

110 E si osservi che all’invocazione si intreccia senza soluzione di continuità la protasi: cfr. MARCO VILLORESI, Cronache, laudi e poemetti sulla Madonna delle Carceri di Prato, in IDEM,

Sacrosante parole. Devozione e letteratura nella Toscana del Rinascimento, Firenze, Società

Editrice Fiorentina, 2014, pp. 19-31: p. 25 [a proposito del poemetto in terza rima Miracoli della

Vergine delle Carceri di Lorenzo degli Olbizi]: «In apertura troviamo una canonica invocazione

alla maniera dei canterini nella quale si inserisce poi la presentazione dell’argumentum».

111 Cfr. FRANCESCO A[LFONSO] UGOLINI, I cantari di Piramo e Tisbe, cit., p. 100: «ottava informata alla concezione tolemaico-scolastica dell’Universo. “Dall’Empireo, cioè da Dio, […] scende una immensa scala di creature perfette, i cieli con le intelligenze motrici, ciascuna delle quali ha una sua propria virtù, della quale informa la natura mortale dei bruti”, B[ENEDETTO]

SOLDATI, La poesia astrologica nel Quattrocento. [Ricerche e studi], Firenze, [Sansoni], 1906, pp.

65 spira il petto mio, non far difese,

sì che ogni fallo in queste rime ceda, e con diletto dagli orecchi intese sien per ciascuno e nel ciel si conceda ch’i’ possa dir d’una figlia e d’un figlio per cui il gelso diventò vermiglio.112 O sommo Iddio, eccielente Singniore, da cchui prociede ongni chosa perfetta, ingengno presta al mio pover valore ch’io dicha in rima chosa [non mai] detta, [di due] giovani, ch’el fallacie amore chondusse a morte, sichome ne detta el sommo Ovidio nel suo dire altero: quel cholla grati[a] tua chontare spero.113 Onipotente Idio, giusto Signore, damj balia sì nella mia mente

ch’io possa dire una cançon d’amore.114 O sommo Appollo, il chui sple[n]dido razo a ciaschun’altra stella dà splendore,

e meni drito ciascun per suo viazo, ispera in me tanto del tuo valore e ffa llo ingegnio mio acchorto e sagzo ch’io possa rachontar lo ’ntiquo amore di Pirramo e di Tisbe in vulgar versi, della lor morte e de’ lor chasi avversi.115

112 A, I-II, pp. 169-170. 113 C, I, p. 152.

114 D, I, 1-3, p. 167.

115 B, II, p. 128. Nel cantare B, l’invocazione ad Apollo è preceduta dall’apostrofe ad una committente: «Nobilissima donna, a’ chui valore / sugetto sarò senpre finchè vivo, / a chui rendo senpre lalde e honore / e degnie reverentie dove io arivo, / se io ò chonpreso ben dentro al mio chore / el tuo volere, vuoi che io te scrivo / di Pirramo e di Tisbe e di lor sorte, / chome si dieron per amor la morte» (B, I, p. 128; si avverte, per i versi «a chui rendo senpre lalde e honore / e degnie reverentie dove io arivo» [corsivo mio], una consonanza intertestuale o, meglio, ‘interdiscorsiva’ (Cesare Segre), relativa all’idea della superiorità e dell’altezza morale della domina, con il madrigale n. 156 di Michelangelo: «A l’alta tuo lucente dïadema / per la strada erta e lunga, / non è, donna, chi giunga, / s’umiltà non v’aggiugni e cortesia / […] po’ per gioir della tuo leggiadria / bramo pur che discenda / la dov’aggiungo» [corsivo mio]; per una lettura critica del madrigale michelangiolesco, mi sia consentito il rimando a MASSIMO COLELLA, Il «diadema» e il «peccato».

Per una lettura del madrigale 156 di Michelangelo, in «Rivista di Letteratura Italiana», XXXII, 2,

2014, pp. 25-44). L’invocazione alla committente caratterizzerà, prima ancora che il poemetto di Bernardo Tasso, una novella anonima, precedentemente attribuita a Giovanni Sabadino degli Arienti (sulla questione cfr. almeno STANLEY BERNARD CHANDLER, Appunti su Giovanni Sabadino

degli Arienti, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXX, 391, 1953, pp. 346-350 e

IDEM, Due raccolte di rime compilate nel Quattrocento, in «Rinascimento», V, 1, 1954, pp. 113-

116), risalente alla prima metà del Quattrocento (la novella è riportata in CRISTINA MONTAGNANI,

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così come, in sede diametralmente opposta, alle non meno formulari espressioni di

chiusura:

116

[…] Amor gli vinsi e fegli tanto arditi».

«Medioevo letterario d’Italia», 4, 2007, pp. 91-109: pp. 100-108; la citazione nel titolo del saggio è tolto dal poema boiardesco: cfr. ivi, p. 91: «può anche essere che nel nome della Tisbina (babilonese come Tisbe) dell’Inamoramento de Orlando (I, XII) Boiardo abbia voluto celare una scanzonata allusione alla celeberrima icona femminile, protagonista di una vicenda che, durante l’età postclassica, era via via diventata paradigmatica dell’amore passione condotto sino al sacrificio di sé (di tutt’altra pasta, “molle e tenerina”, è invece Tisbina, che mozartianamente trascorre da uno all’altro dei suoi due spasimanti, in fondo interscambiabili. Ma in tutto il poema boiardesco, così fittamente intessuto di richiami alle Metamorfosi, cercheremmo invano il ricordo di questa favola, che pure è una delle più celebri nel mondo romanzo: il nostro poeta segue fili diversi entro la tela delle trasformazioni, utilizza Ovidio in modo trasversale, allusivo, e in genere si tiene lontano da vicende così note»; non concordo con la nota 2, ibidem: «Piramo e Tisbe […] non era […] una vicenda che si potesse facilmente plasmare in nuove forme», la presente tesi dovrebbe abbondantemente smentire l’assunto). Ecco la tessera di consonanza intertestuale: «[…] questa sì facta vergogna vinse il comandamento a me da una reverenda dona facto, la quale vedendomi ocioso, […] volse che io prendesse la penna che per longhi tempi era ripossata, sì che io traducesse la presente novella da latino in vulgare» (ivi, p. 100).

Se questa novella resta, per il momento, anonima, non bisogna però dimenticare che la IX novella delle Porretane di Sabadino degli Arienti (1483), una sorta di «Giulietta e Romeo bolognesi» (SABADINO DEGLI ARIENTI, Le Porretane, a cura di Bruno Basile, Roma, Salerno Ed., 1981, p. 61;

la novella si legge alle pp. 61-70; scrive Basile: «novella “tragica”, questa storia d’amore rievoca, sulla base di leggende storiche bolognesi, l’amore contrastato tra i figli di due famiglie rivali, i Galluzzi e i Carbonesi. Tutta la trama si muove tra la passione giovanilmente tempestosa di Malatesta de’ Carbonesi e la figura patetica della giovane Lelia, oppressa da un padre severo, e impedita nelle scelte che il cuore le suggerirebbe. La vicenda non ha imprevisti: fin dall’inizio s’immagina una storia di morte; ma lo spazio narrativo induge a ritratti psicologici, a un’analisi della retorica amorosa in giovani cuori che è certo brillante tour de force dell’Arienti», ivi, p. 61), cita espressamente la fabula di Piramo e Tisbe («[Lelia a se stessa:] Deh, perché in tante lacrime e dolore te consumi, o misera Lelia? ben sei vile a non fare, poi che è in tua potestà, che la tua sconsolata anima sequa quella del tuo caro marito e l’altra vita. Serai tu de minor animo che fusse Tisbe, che se dette la morte cum la propria spada che uccise il suo amante Piramo al fonte del gelso, per la cui pietà il bianco fructo de l’arbore in colore di sangue se converse?», ivi, p. 68; per un’analisi della raccolta, cfr. l’attenta e suggestiva analisi di MARZIA MINUTELLI, «La miraculosa

aqua». Lettura delle Porretane novelle, Firenze, Olschki, 1990).

116 Cfr. DOMENICO DE ROBERTIS, Introduzione a Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento, cit., p. XVI: «Nonostante la ripetizione di formule che dirò spettacolari, invocazioni di Dio e dei santi (o delle muse) e proposizione o ricapitolazione del soggetto ad ogni ripresa, benedizione o scappellata al pubblico in chiusa, magari in un sol verso (una dozzina dei 29 cantari della presente raccolta [scil. la raccolta dei Cantari novellistici] terminano col tradizionale “questo cantare è detto / compiuto al vostro onore” e varianti: “Al vostro onore è finita la storia”, “Finita al vostro onore è la novella”, “Al vostro onor fe’ questo Antonio Pucci”, alcuni semplicemente “[…] la storia è qui finita”, “[…] i versi son finiti”; il Cantare dei tre preti: “Per vostro assemplo tal cantare è detto”), e quindi la presenza di tratti “recitativi”, la sensazione è che la “finzione” e i relativi topoi metanarrativi siano meramente letterari e “scritti”. Della piazza abbiamo probabilmente perso la dimensione e le tracce, e comunque non sono queste le sue testimonianze».

67 In questa parte i versi son finiti.117

Ch’ongniun si possa di lor richordare! È detto al vostro honor questo chantare.118

Ma si vedano anche i numerosi contatti fatici con il pubblico, altrettanto tipici del

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