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Cantare dei cantari),

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il ‘nostro’ antico mito dovette indubbiamente configurarsi

78 MICHELANGELO PICONE LUISA RUBINI, Premessa a Il cantare italiano fra folklore e

letteratura. Atti del Convegno internazionale di Zurigo (Landesmuseum, 23-25 giugno 2005), a cura

di Michelangelo Picone e Luisa Rubini, Firenze, Olschki, 2007, pp. V-XIII: p. VI.

79 Cfr. FRANCESCO A[LFONSO]UGOLINI, I cantari d’argomento classico, con un’appendice di testi

inediti, Olschki, Genève-Firenze, 1933 (il quinto capitolo, Piramo e Tisbe, pp. 97-134, anticipa

alcuni risultati della ricerca pubblicata l’anno seguente); allo studio, pure vincitore del Premio di Filologia Romanza “C. De Lollis”, Gustavo Vinay dedicò una recensione piuttosto ingenerosa sul «Giornale storico della letteratura italiana», CIII, 1934, pp. 131-133.

80 Cfr. MARGHERITA LECCO, Un adattamento italiano della Naissance du Chevalier au Cygne. Il

cantare di Stella e Mattabruna, in «Italian Studies», 66, 1, 2011, pp. 5-20: pp. 5-6 e p. 6, nota 2:

«Nel lungo elenco degli esemplari del genere [del cantare] (comprendente circa ottanta titoli), il cosiddetto Cantare dei cantari – che, nel XV secolo, ripete modalità applicate dai ‘vanti’ giullareschi di tradizione oitanica – si segnala come summa e lista dei materiali che costituivano il consueto bagaglio di conoscenze degli autori canterini: in esso si elencava una cospicua quantità di argomenti, per lo più riconducibili ai più noti e diffusi romans e chansons de geste in langue d’oïl»; «Edizione di riferimento per il Cantare dei cantari rimane quella a cura di Pio Rajna, pubblicata su

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come una delle storie maggiormente predilette dal pubblico delle piazze medievali.

Tale fioritura è limpidamente testimoniata da quattro cantari anonimi, collocabili

all’incirca tra la seconda metà del Trecento e i primi anni del Quattrocento,

meritoriamente riportati alla luce negli anni Trenta del ventesimo secolo da Francesco

Alfonso Ugolini e da lui convenzionalmente indicati con le prime quattro lettere

dell’alfabeto latino.

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Philologie”, 2, 1878, pp. 221-254. Nel Cantare (databile fra 1380 e 1420) un anonimo, che si presume di professione giullaresca, esibisce il proprio repertorio dei cantari, elencando un’ampia serie di storie, tratte da canzoni di gesta e romanzi, in genere di origine francese, che si ‘vanta’ di conoscere a scapito di meno avvertiti rivali».

81 Cfr. FRANCESCO A[LFONSO]UGOLINI, I cantari di Piramo e Tisbe, cit. (i cantari sono alle pp. 100-180). Soltanto il cantare B «era [già] conosciuto dagli studiosi attraverso stampe cinquecentesche e reimpressioni moderne, che, o di quelle riproducevano identicamente il testo o, ultime superstiti eredi di una lunga e fortunosa tradizione tipografica, lo peggioravano d’assai» (ivi, p. 19).

Per quanto concerne la datazione, Ugolini (ivi, p. 47) riteneva che il cantare A dovesse risalire ad un periodo compreso tra i termini post e ante quem del 1334 e del 1369 (il cantare ha tra le sue fonti il volgarizzamento ovidiano di Arrigo Simintendi da Prato, di cui si avvale l’Ottimo Commento alla

Commedia dantesca, condotto tra il 1333 e il 1334: ivi, p. 44 [cfr. CONCETTO MARCHESI,

Volgarizzamenti ovidiani del secolo decimoquarto, in «Atene e Roma», XI, 1908, coll. 275-285];

mentre uno dei cinque manoscritti da cui il cantare è testimoniato, il codice G, Laurenziano Gaddiano 183, riporta a c. 1v la seguente nota: «Mccclxviiii. Io Andrea faciamo mimoria di chiu[n]qe mi de’ dare danari di veruna ragione»: FRANCESCO A[LFONSO] UGOLINI, I cantari di

Piramo e Tisbe, cit., p. 21). Ma DARIO MANTOVANI, Un’“officina” di genere, tra cantare e poema

in ottava rima, in «Critica del testo», XVII, 3, 2014, pp. 45-73, corregge così, anche sulla scorta

delle indicazioni di Domenico De Robertis: «Il testo è senz’altro da collocare posteriormente alla data ipotizzata da Ugolini, che indicò il 1369 sulla base dell’unica scrizione datata del manoscritto Gaddiano, una registrazione creditizia vergata dalla mano denominata successivamente α da Domenico De Robertis, che riconobbe nel codice almeno sei mani differenti; la mano che trascrive il PT [Piramo e Tisbe, cantare A], alle cc. 26r-31r, è tuttavia la mano δ, seriore e risalente secondo De Robertis al “sec. XIV ex. o XV in.” [DOMENICO DE ROBERTIS, Cantari antichi, in “Studi di

Filologia italiana”, 28, 1970, pp. 67-175: pp. 74-75]. Quest’ultima notazione cronologica è ulteriormente precisabile agli ultimi anni del XIV secolo in considerazione delle citazioni di versi del cantare contenute nella novella CXXXI della raccolta di Giovanni Sercambi, allestito – secondo Giovanni Sinicropi – in una forbice temporale che va dal 1399 al 1402, con materiali che dovevano già essere stati scritti, tuttavia, negli anni immediatamente precedenti. La parziale retrodatazione del poemetto è consentita, oltre che da caratteri morfologici (un’unica séance di media lunghezza, secondo l’uso tipico del cantare trecentesco), anche dall’eccezionale statuto del PT, dalla cui unità testuale (e scarsità di varianti di tipo redazionale) De Robertis ha ricavato la convinzione che si sia in presenza – per ciascuno dei testimoni – non tanto di rifacimenti quanto di corruzioni di uno stesso testo, e postulando altresì, come esito della recensio, l’esistenza di un archetipo [DOMENICO

DE ROBERTIS, Problemi di metodo nell’edizione dei cantari (1961), in IDEM, Editi e rari, Milano,

Feltrinelli, 1978, pp. 91-109: pp. 103-104]. Di più: l’inclusione nelle Novelle di Sercambi lo segnala come un soggetto affermato e circolante su base municipale». Per il cantare B, Ugolini propone come datazione i primi decenni del quindicesimo secolo: «L’ottava di preambolo, con l’invocazione mitologica, fu una innovazione di canterini Quattrocenteschi di maggior rango; d’altro lato, alcune peculiarità linguistiche (si veda il sic rinforzativo nei vv. 137, 210, 367, ch’è della nostra antica lingua) e la lunga e complessa tradizione manoscritta documentata dallo stato del testo nel ms. Riccardiano [3030, antica segnatura 3095], ci inducono a trattenerci nei primi decenni del secolo»

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Uno dei motivi per cui affrontare lo studio della “letteratura popolare”, con

particolare riferimento ai cantari medievali, può rivelarsi alquanto ‘periglioso’, deriva

dalle complesse implicazioni della consapevolezza storico-filologica, ormai ben

radicata, che numerosi esemplari della cosiddetta produzione canterina non possano

essere considerati genuinamente e autenticamente ‘popolari’: non di rado si tratta,

infatti, di poemetti tesi a riprodurre in modo fittizio le peculiari caratteristiche

stilistico-compositive dei cantari veri e propri («dalla piazza si resta […] distanti,

essendo la presenza di tratti recitativi da intendere come mero topos

metanarrativo»),

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per cui più che di “letteratura popolare” si dovrà parlare,

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