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favola di maggiori accenti patetici, esse chiamano a testimone delle azioni umane la dea “Luna”, affacciando il dubbio di una possibile “vendetta” da parte di una divinità che possa condizionare gli eventi. I moniti ai cedimenti sensuali dei due protagonisti, cedimenti accentuati dalla mollezza stilistica dei versi, paiono giungere tacitamente da una dimensione esterna a quella degli uomini, riscoperta nuovamente dal Rinascimento: il mito pagano, a riprova del ruolo vivo che la mitologia ha nell’esperienza poetica del Tasso e che qui svela la presenza di un sovrasenso allegorico, edificante nella favola».

349 GIORGIO CERBONI BAIARDI, La lirica di Bernardo Tasso, cit., pp. 48-49. Il riferimento è a FORTUNATO PINTOR, Delle liriche di Bernardo Tasso, cit., p. 55: «Il Petrarca aveva prognosticato a

se stesso, come frutto dei vaneggiamenti, la vergogna e il disinganno: gl’imitatori vollero trovare nella poesia erotica un ammaestramento per tutti. Di qui la necessità che l’amore apparisse, dalle rime, infelice: com’è, nell’intonazione generale, quello del Tasso».

350 Non si dimentichi, del resto, la postura ‘compassionevole’ e lagrimosa del poemetto dedicato a Piramo e Tisbe inscritto nelle Rime toscane (1535) del misterioso Amomo (pseudonimo dietro cui si cela probabilmente Antonio Caracciolo), intriso di echi tanto tassiani (il riferimento è ovviamente a Tasso padre) quanto ariosteschi; per l’analisi del poemetto si rimanda senz’altro a GABRIELE

BUCCHI, Au delà du tombeau: Pyrame et Thisbé dans deux réécritures de la Renaissance italienne,

cit., passim. Sia per il poemetto di Bernardo Tasso che per quello di Amomo la compassione mostrata da Boccaccio nei confronti della tragica storia dei giovinetti babilonesi nell’Elegia di

Madonna Fiammetta e nel De mulieribus claris giocherebbe, secondo Bucchi, un ruolo importante:

«le rôle de Boccacce […] est essentiel pour comprendre le processus de transformation de l’histoire racontée par Ovide, d’un exemple négatif d’intempérance juvénile à un récit pathétique où les interventions modalisantes du narrateur visent la compassion et l’identification des lecteurs» (ivi, p. 72).

351 Cfr. per es. GIOVANNI FERRONI, Note sulla struttura del Libro primo degli Amori di Bernardo Tasso (1531), cit., pp. 39-40 e 42: «Il Libro primo degli Amori fu edito, secondo quel che recita il

colophon della princeps, in Vinegia per Giovan Antonio & Fratelli da Sabbio, nel 1531. Non sarà

forse inutile ricordare che, nel fatidico 1530, anche il Bembo si era servito degli stessi torchi, quelli appunto dei Nicolini da Sabbio, per la prima stampa delle sue Rime: la scelta del Tasso d’entrare a far parte d’un catalogo che avrebbe annoverato vari volumi di lirica mi pare si carichi, proprio a motivo della concomitante presenza del Bembo, di un certo rilievo e che denoti, se non il tentativo di gareggiare col veneziano, almeno l’ambizione, pur dissimulata, ad insediarsi apertamente, e con qualche rumore, ai “piani alti” del dibattito letterario contemporaneo. A questa volontà di promozione poetica se ne aggiunge, mi pare, un’altra di natura sociale: sfruttando infatti il prestigio derivante dalla stampa, era possibile per il Tasso accrescere, nell’ambito della corte di Ferrara di cui a quei tempi faceva parte, e più in generale in quello delle altre corti italiane, la rilevanza pubblica

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Si dovrà necessariamente escludere dall’orizzonte di riferimento il

volgarizzamento, «umile ma fortunat[o]»,

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di Niccolò degli Agostini (1522), la cui

della sua persona»; «[la] raccolta […] intende collocarsi a un livello alto della comunicazione letteraria e […] fa della sua “classicità”, fin dal titolo, un proclama».

352 Cfr. GABRIELE BUCCHI, «Meraviglioso diletto». La traduzione poetica del Cinquecento e le Metamorfosi d’Ovidio di Giovanni Andrea dell’Anguillara, cit., p. 73: «Sarebbe improprio accostare i progetti a forte impatto editoriale di un Anguillara e di un Dolce a questi episodi [scil. ai poemetti mitologici degli anni Trenta-Cinquanta del Cinquecento], più occasionali ma certamente anche più aristocratici. Nonostante queste differenze, tali riscritture attestano di un modo nuovo d’interpretare e di raccontare i miti ovidiani; un modo incentrato più sul pathos che sulla moralità, di cui sarà possibile ritrovare le tracce anche nelle traduzioni integrali della seconda metà del secolo».

353 Ivi, p. 10. Cfr. ivi, p. 84: «la versione ovidiana dell’Agostini, pur col suo formulario canterino e la sua veste linguistica ormai improponibile, veniva riproposto [all’altezza cronologica in cui Lodovico Dolce inizia a progettare il volgarizzamento ovidiano] da quasi trent’anni e stava a dimostrare […] in quale direzione andassero i gusti del pubblico». A proposito della fortuna del volgarizzamento, si noti come la descrizione delle modalità del doppio suicidio compiuta dall’Agostini e la relativa silografia (fig. 2) abbiano influenzato l’iconografia del dipinto del Tintoretto Piramo e Tisbe (fig. 3): cfr. BODO GUTHMÜLLER, La pittura mitologica e la tradizione

testuale delle Metamorfosi di Ovidio, in Mito e metamorfosi nella letteratura italiana. Da Dante al Rinascimento, Roma, Carocci, 2009, pp. 276-293: pp. 282-283: «Il pittore [scil. Tintoretto] ha

scelto il momento più tragico nel racconto ovidiano: Tisbe ha trovato Piramo in fin di vita e per l’estremo dolore decide di morire con lui. Verifichiamo se il quadro è davvero “pienamente aderente al testo ovidiano puntualmente seguito”, come si legge nel catalogo Pallucchini-Rossi [RODOLFO PALLUCCHINI – PAOLA ROSSI, Tintoretto. Le opere sacre e profane, Milano, Electa,

1982, p. 135]. Cito le Metamorfosi dalla traduzione di Bernardini Marzolla [Torino, Einaudi, 1994, vol. IV, vv. 199 ss.]: “E [Piramo] si cacciò nel ventre il pugnale che aveva a fianco, e subito, morente, lo ritrasse dalla gorgogliante ferita. Cadde a terra supino”. Sul quadro, Piramo che si è trafitto con una spada, giace a terra non “supino”, ma bocconi; la spada, che dunque non ha ritratta “dalla gorgogliante ferita”, gli esce dal dorso. Sentiamo il seguito: “Ed ecco che lei [Tisbe] ritorna […]. Lei riconobbe allora la propria veste e vide la guaina d’avorio senza il pugnale, […] e puntatosi il pugnale sotto il petto, si curvò sulla lama che ancora era calda di sangue”. Sul quadro Tisbe si dà la morte gettandosi sulla punta della spada che esce dal dorso di Piramo. Bastino queste poche osservazioni: come si vede, il dipinto del Tintoretto è in netto contrasto con il testo ovidiano. Consultiamo […] l’Ovidio Metamorphoseos in verso vulgar, il volgarizzamento che si offriva di più alla lettura negli anni in cui Tintoretto dipinse il ciclo conservato alla Galleria Estense di Modena di cui fa parte il nostro quadro. Di Piramo Agostini dice: “Alfin […] / trasse la spada che portava a lato / e in terra il pomo, e poi la punta al petto / mise, […] / e appoggiandosi a quella con furore, / si passò il bianco petto e il mesto core” (f. E3v). Piramo si butta dunque bocconi sulla spada: “Quando che Tisbe del spirar s’accorse / del fido amante, biastemò Cupido / e sopra il ferro acuto il petto porse. / […] / Così poggiando il petto su la spada, / finì del viver suo le brevi hore / e cade ov’era già sopra la strada / adosso del suo sfortunato amore” (f. E4r) [Da Giovanni del Virgilio ad Agostini la narrazione poteva allontanarsi sempre di più dal testo originale. Giovanni del Virgilio, nel racconto della morte degli amanti, resta fedele a Ovidio. In Bonsignori poi si legge che Piramo si lasciò cadere bocconi sulla spada: “E alhora trase fuora la spada la qual da lato del pomolo apogiò in terra, e la ponta se puose al petto, lasandosi cadere in giù sopra la spada; e cusì spianato in terra la spada li passò el gostato” (f. 27r-v). Il dettaglio invece di Tisbe che si getta sulla spada che esce dal dorso di Piramo si trova solo in Agostini]. Questa descrizione corrisponde del tutto all’iconografia del quadro tintorettiano. […] L’anonimo creatore delle illustrazioni al testo di Agostini raffigura, a destra della sua rappresentazione simultanea della favola di Piramo e Tisbe (f.

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operazione didascalico-moralizzante, come evidenzia Angela Piscini, «dal punto di

vista dell’avanguardia culturale appare, in quegli anni, del tutto anacronistica»:

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il

prosimetro, fondato sulla parziale mise en verse del volgarizzamento trecentesco del

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