[…] come per i personaggi di queste [scil. delle favole pastorali] o di romanzi quali l’Arcadia, la valenza e l’identità bucolica di Erminia era beninteso tutta letteraria; sicché, se da una parte l’“abito vil” di cui era ammantata non la trasformava in una rozza pastorella “di boschi abitatrice” (Gerusalemme liberata, VII, 18, 1; 17, 8), ella poteva, dall’altra, evadere (ritrovando se stessa) nella
388 FRANCO TOMASI, in TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, a cura di Franco Tomasi, Milano, Rizzoli, 2009, p. 788.
389TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, a cura di Franco Tomasi, cit., canto XII, ott. 78-79, pp. 787-788. Cfr. ANTONIO LA PENNA, Aspetti della presenza di Ovidio nella Gerusalemme liberata,
in Aetates Ovidianae. Lettori di Ovidio dall’Antichità al Rinascimento, a cura di Italo Gallo e Luciano Nicastri, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, pp. 293-321: p. 316.
390 TORQUATO TASSO, Gerusalemme liberata, cit., canto XII, ott. 99, pp. 800-801. Cfr. GABRIELE BUCCHI, Au delà du tombeau: Pyrame et Thisbé dans deux réécritures de la Renaissance italienne,
156 metastoria del ritiro agreste, nel quale confluivano e rivivevano una volta di più, proprio in grazia di lei, tutti gli echi letterari pertinenti: quelli tradizionali del genere bucolico (Virgilio, Sannazaro, Tasso dell’Aminta) e quelli lirici e romanzeschi (Della Casa, Ariosto, Tasso padre dell’Amadigi), ma anche classici (Ovidio), che promanavano dal suo specifico carattere sentimentale. La sua stessa intima vicenda si sostanziava, come ha dimostrato la critica (ma per il modello ovidiano la segnalazione è di Tasso medesimo), di quelle esemplari di Scilla di Megara [Metam., VIII, 1-151]e della properziana Tarpea [Elegie, IV, 4]: e anche questo trasporre e replicare il mito, oltre tutto in una fanciulla proiettata dal congegno narrativo della favola nello spazio e nel tempo appartati della dimensione arcadica, era operazione per eccellenza bucolica. Che poi la sorte di Erminia, tanto conforme la sua storia a quelle delle due eroine amorose suoi modelli, paresse e fosse in parte così diversa, da “trasformare”, per esempio, “in peripezia elegiaca” “la tragedia” di Tarpea [GINO
TELLINI, Tasso e Properzio (a proposito di G.L. VI, 104, in “Studi italiani”, 12, 1994, pp. 71-79: p.
79], potrebbe sembrare dipendere dall’incompatibilità tra stile tragico e personaggio romanzesco. Sennonché per Tasso “l’amore di Erminia”, essendo di “quelli che son perturbati con grandi e maravigliosi accidenti e grandemente patetici”, era per l’appunto tragico, pur non in senso stretto, cioè non di fine infelice; e, proprio in quanto tale, restava gravitante nella sfera del romanzesco ed escluso, al pari di quelli comici “della Fiammetta” ariostesca, dal novero degli “amori nobili”, per sé invece “materia […] convenevolissima al poema eroico” [TORQUATO TASSO, Lettere poetiche, a
cura di Carla Molinari, Parma, Fondazione Pietro Bembo / Guanda, 1995, lett. XLVI, 6, p. 434].391
non poteva, per così dire, non conciliare programmaticamente l’insorgere di alcune
filigrane e risonanze intertestuali della ‘nostra’ fabula tragica.
392
391 CARLA MOLINARI, Erminia e Nicea: metamorfosi tassiane, in EADEM, Studi su Tasso, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2007, pp. 89-98: pp. 94-95.
392 Ecco alcune consonanze: (1) il fuoco d’amore nascosto: «Ama ed arde la misera [scil. Erminia] […] / e quanto è chiuso in più secreto loco, / tanto ha l’incendio suo maggior possanza» (Ger. lib., VI, 60); cfr. Met., IV, 64: «quoque magis tegitur, tectus magis aestuat ignis»; (2) la prigionia d’amore: «Ella vedendo in giovanetta etate / e in leggiadri sembianti animo regio, / restò presa
d’Amor, che mai non strinse / laccio di quel più fermo onde lei cinse (Ger. lib., VI, 58, 5-8, corsivo
mio); cfr. Met., IV, 62, corsivo mio: «ex aequo captis ardebant mentibus ambo»; (3) l’inestinguibilità dell’ardore amoroso, che non può essere ostacolato da alcuna ‘motivazione’ esterna: «Pur né ’l duol che le sia per morte tolta, / né l’essiglio infelice, unqua poteo / l’amoroso desio sveller dal core, / né favilla ammorzar di tanto ardore» (Ger. lib., VI, 59, 5-8); cfr. Met., IV, 60-62: «taedae quoque iure coissent, / sed vetuere patres; quod non potuere vetare, / ex aequo captis ardebant mentibus ambo»; (4) il muro/le mura, confine materiale/ideologico da cui è possibile per l’eroina, che vi trascorre, nell’uno così come nell’altro caso, l’intera giornata, ‘percepire’ in qualche modo l’amato: «Nel palagio regal sublime sorge / antica torre assai presso a le mura, / da la cui sommità tutta si scorge / l’oste cristiana, e ’l monte e la pianura. / Quivi, da che il suo lume il sol ne porge / in sin che poi la notte il mondo oscura, / s’asside, e gli occhi verso il campo gira / e co’ pensieri suoi parla e sospira» (Ger. lib., VI, 62); cfr. Met., IV, 78-83; (5) l’atteggiamento mimetico- compartecipativo nel vedere l’amato in pericolo di morte: «Quinci vide la pugna, e ’l cor nel petto / sentì tremarsi in quel punto sì forte / che parea che dicesse: “Il tuo diletto / è quegli là ch’in rischio è de la morte”. / Così d’angoscia piena e di sospetto / mirò i successi de la dubbia sorte, / e sempre che la spada il pagan mosse, / sentì ne l’alma il ferro e le percosse. // […] Talor secrete lagrime e talora / sono occulti da lei gemiti sparsi: / pallida, essangue e sbigottita in atto, / lo spavento e ’l dolor v’avea ritratto» (Ger. lib., VI, 63-64, corsivo mio); cfr. Met., IV, 133-136, corsivo mio: «dum dubitat, tremebunda videt pulsare cruentum / membra solum retroque pedem tulit oraque buxo /
pallidiora gerens exhorruit aequoris instar, / quod tremit, exigua cum summum stringitur aura»; (6)
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È, tuttavia, sui meccanismi di riscrittura trasfigurante propri dell’Aminta che
intendiamo soffermarci: nella favola pastorale tassiana, infatti, il processo, che
abbiamo inseguito sin qui, di compartecipazione emotivo-sentimentale al tragico
destino dei giovinetti babilonesi trova una sorta di definitivo coronamento. Se
temenza avria, ché peregrina era ita, / e viste guerre e stragi avea sovente, / e scorsa dubbia e faticosa vita, / sì che per l’uso la feminea mente / sovra la sua natura è fatta ardita, / e di leggier non si conturba e pave / ad ogni imagin di terror men grave. // Ma più ch’altra cagion, dal molle seno / sgombra Amor temerario ogni paura, / e crederia fra l’ugne e fra ’l veneno / de l’africane belve andar secura» (Ger. lib., VI, 69 – 70, 1-4); cfr. Met., IV, 96: «audacem faciebat amor»; il tema è approfondito da uno dei numerosi tasselli della tradizione teatrale e musicale della Liberata (cfr. ILARIA GALLINARO, La non vera Clorinda. Tradizione teatrale e musicale della Liberata nei secoliXVII-XIX, Milano, Franco Angeli, 1994, Premessa, pp. 7-8: «Come Erminia abbandona la sua città,
il poema sembra abbandonare la sua forma, per raggiungere un pubblico che la desidera […] fino a volerla ascoltare infinite volte nel corso dei secoli. Si perderà nelle selve dei melodrammi, delle “tragedie”, delle “sceniche rappresentazioni”, delle “azioni drammatiche spettacolose”, scomposta, rivisitata, riscritta e in tutto questo percorso, in tutto questo errare per le scene ed i teatri, in tutti i travestimenti che le verranno imposti non lascerà mai, come Erminia, “quanto è in lei d’altero e di gentile”»), in particolare dalla transcodificazione teatrale dell’episodio di Erminia nella favola scenica La fuga d’Erminia di Giovanni Villifranchi, in Venezia, presso Giovan Battista Ciotti Senese, 1600: cfr. LINDA PIRRUCCIO, Giovanni Villifranchi. La ‘fabbrica’ delle favole sceniche di
Tasso e Ariosto, Roma, Bulzoni, 2011, cap. III La fuga d’Erminia, pp. 131-173: p. 138 (il testo
della favola scenica è alle pp. 295-331 del volume): «“E di che temi? Già più d’una volta / ti sei trovata ne’ profondi orrori / di cieca notte peregrina, imbelle. / Gli occhi tuoi sono, ed è ’l tuo core avvezzo / a mirar crude guerre, e strage acerbe. / Non ti darà di bellico metallo / acre suono spavento, e fier rimbombo / di rigido in agon timpan superbo. / E benché di timor spargesse il seme / ne’ campi del tuo cor femineo seno, / Amor non t’arma? E non disgombra quante / vengono intorno a te larve importune? / Amor non ti conduce, e non ti spinge, / non t’assicura Amor ne’ gran perigli? / Vanne dunque a Tancredi. […]” (I, i, vv. 96-[110]). La prima metà del brano altro non contiene se non il ritratto di Erminia quale mulier fortis, che già il Tasso aveva in parte delineato all’ottava 69: una donzella ormai avvezza agli orrori della guerra, temprata dal contatto quotidiano con le stragi e resa adattabile alle circostanze più avverse dall’esperienza dell’assedio, prima, e dell’esilio, poi. Ma, in fondo, al di là dell’umana capacità di armarsi di un coraggio estremo e reagire energicamente anche di fronte ad atroci difficoltà, a spronare la principessa a mostrarsi risoluta, troncando ogni indugio, interviene l’ardore amoroso, in grado tanto di fortificare un animo creduto imbelle quanto di “disgombra[re] con vigore tutte le “larve importune” che affollano una mente comprensibilmente sopraffatta da innumerevoli angosce»; (7) la richiesta all’amato ferito di aprire gli occhi: «Sente la donna il cavalier che geme, / e forza è pur che si conforti alquanto: / “Apri gli occhi, Tancredi, a queste estreme / essequie” grida “ch’io ti fo co ’l pianto; / riguarda me che vuo’ venirne insieme / la lunga strada e vuo’ morirti a canto. / Riguarda me, non te ’n fuggir sì presto: / l’ultimo don ch’io ti dimando è questo”. // Apre Tancredi gli occhi e poi gli abbassa / torbidi e gravi, ed ella pur si lagna. / Dice Vafrino a lei: “Questi non passa: / curisi adunque prima, e poi si piagna”» (Ger. lib., XIX, 110-111,4); cfr. Met., IV, 142-146: «‘Pyrame,’ clamavit ‘quis te mihi casus ademit ? / Pyrame, responde! tua te, carissime, Thisbe / nominat: exaudi vultusque attolle iacentes !’ / ad nomen Thisbes oculos iam morte gravatos / Pyramus erexit visaque recondidit illa»; (8) il velo, la cui valenza si muta da disforica/mortifera in euforica/salvifica: «Vede che ’l mal da la stanchezza nasce / e da gli umori in troppa copia sparti. / Ma non ha fuor ch’un velo onde gli fasce / le sue ferite, in sì solinghe parti» (Ger. lib., XIX, 112, 1-4); cfr. Met., IV, 147-149: «quae postquam vestemque suam cognovit et ense / vidit ebur vacuum, ‘tua te manus’ inquit ‘amorque / perdidit, infelix!».
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