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potrebbe essere definita come una «commedia», una «favola mitologica» oppure, mutatis mutandis (ossia non nel senso originario di una contaminatio tra memoria

classica e sacra rappresentazione medioevale), come un «dramma mescidato»

(Vittorio Rossi):

244

contempla, infatti, dopo una prima sezione basata sull’intreccio e

241 ALESSANDRO CUTOLO, Introduzione a GASPARE VISCONTI, Rime, a cura di Alessandro Cutolo, Bologna, per i tipi dell’Antiquaria Palmaverde, 1952, pp. 7-21: p. 7.

242 Cfr. ROBERTO VENUTI, Aby Warburg, ‘un sismografo tra le culture’, in «Moderna», VI, 2, 2004, pp. 13-21.

243 MARCO CORRADINI, Dal Moro a san Carlo: la poesia narrativa, in Prima di Carlo Borromeo.

Lettere e arti a Milano nel primo Cinquecento, a cura di Eraldo Bellini e Alessandro Rovetta,

Roma, Bulzoni, 2013, pp. 61-90: p. 64. Un’altra attestazione della fortuna tardo-quattrocentesca del mito pare aprire un interessante squarcio sul tema ‘Piramo e Tisbe come fenomeno di costume’: mi riferisco all’acquisto, nel 1475, da parte di Galeazzo Maria Sforza di due cagnolini di nome Piramo e Tisbe presso un convento veneziano: cfr. F. F., Piramo e Tisbe rintracciati in un convento di

Venezia, in «Archivio storico lombardo», serie V, XLII/1, 1915, pp. 241-243: «Io non avevo mai

saputo e non avrei mai supposto che a Venezia, nel 1475, dovendo acquistare, non so se anche cani grossi, ma cagnolini certo, magari già avviati a legittime nozze, convenisse andarli a rintracciar fra le monache. […] come pensare che le monache si sieno mai occupate ad allevar e vendere cagnolini? Eppure, ecco Sua Magnificenza l’oratore Leonardo Botta, fresco cavaliere della Serenissima e più fresco membro del Consiglio ducale, che dovendo scoprir qualche Piramo e qualche Tisbe, manda ad esplorare per tutta Venezia proprio le sante case delle monache, come fossero i luoghi più indicati per trovarvi il fatto suo. […] Dispaccio di L. Botta al Duca [Galeazzo Maria Sforza]. Venezia, 4 aprile 1475. “Per satisfare ad quanto la V. Ill.ma S. me comanda ho facto circhare tutta questa cità per trovare uno paro de cagnoletti, che siano belli ad mio modo. Et tandem ho trovato uno maschio et una femina, li quali hanno, secondo dicono le monache melli hanno venduti, octo mesi, et costano ducati sei d’oro venetiani. […]” Dispaccio di L. Botta al Duca.

Venezia, 7 aprile 1475. “Per Valentino corero delli merchadanti presente apportatore, mando alla V.

Subl.tà uno paro de cagnolini bianchi, maschio et femina, chiamati uno Pyramo, l’altra Thisbe, delli più picolini et manco brutti, che al presente habia questa città, advisando la V. Ex.ma Sig.ria che ho facto circhare tuti li monasteri de questa terra et non ho trovato altri cha questi doi, che siano da vedere […]. Io mando questi doi aconzi in una cistella et con una pelle per modo stano benissimo, et el dicto corero m’ha promisso usarli ogni diligentia per portarli ad salvamento. […]”» («[i] documenti sono dell’archivio di Stato di Milano, Potenze Estere, Venezia, anno corrispondente», ivi, p. 242, nota 2).

244 VITTORIO ROSSI, Il Quattrocento, Milano, Vallardi, 1938, pp. 531-532. Cfr. IRENEO SANESI, La

commedia, Milano, Vallardi (“Storia dei generi letterari italiani”), 1944, vol. I, cap. III Il trionfo del classicismo e gli inizi della commedia erudita, pp. 134-222: pp. 167-168: «Classica per il contenuto

e per la divisione in cinque atti, la Danae [di Baldassarre Taccone, 1496] è simile alle sacre rappresentazioni per la struttura, per le didascalie, per l’annunzio che la precede, per la licenza che la segue: se non che l’annunzio è fatto dal poeta in persona invece che da un angelo e la licenza è

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sui personaggi tipici della commedia latina (in ispecie di marca plautina), una

seconda parte afferente alle pratiche teatrali della cosiddetta «fabula satirica», ossia,

in ambito quattrocentesco, mitologico-pastorale, configurandosi quindi come un

‘incrocio’ tra il secondo e il terzo dei generi teatrali quali risultano per esempio

enucleati dal trattato di Pellegrino Prisciani sugli Spectacula, databile tra il 1486 e il

1501:

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Et essendo mo che nel theatro se exerciteno tre facte de poeti: tragici, li quali recitano le miserie de’ tyranni; comici, che representano li pensieri, affanni e travaglie de’ patri de famiglia; satyrici, li quali cantano et representano la dolceza et piacere de le campagne et ville, li amori et inamoramenti de’ pastori; perciò li ornati de cadauna de queste scene fra sé serano disimili. Per li tragici gli bisogna adornamenti, palazi, colone et signi et altri regali apparati; per li comici, edificii privati er da citadini cum sue finestre et ussi ad similitudine de comuni edificii; per satyrici bisogna adornarla de arbori, spelunche, silve, monti et altre simile parte agreste.246

affidata, invece che ad un angelo, al divino Apollo. […] Le composizioni drammatiche del Poliziano, di Niccolò da Correggio, di Baldassarre Taccone, del rifacitor dell’Orfeo e dell’autore della Favola di Orfeo e Aristeo (alle quali sarà pur da aggiungere la Pasitea di Gaspare Visconti, che è però ancora inedita, e di cui mi è noto soltanto, per la breve notizia datane dal Renier, che è divisa in cinque atti e scritta in ottave e ha “su di un fondo plautino […] ricamata una scena mitologica” e fa intervenire alla fine “Apollo, deus ex machina”, che “scioglie l’intreccio”), ho voluto indicar col nome di favole mitologiche per riguardo al loro contenuto che dalla mitologia direttamente deriva; ma, rispetto ai loro caratteri estrinseci, sono e posson chiamarsi e furono difatti chiamate, da Vittorio Rossi e da altri, drammi mescidati, poiché tutte sovrappongono e mescolano all’inspirazione classica e pagana le forme della rappresentazione sacra. E col nome di drammi mescidati, più che con qualunque altro nome, mi piace di designare i componimenti drammatici di Matteo Maria Boiardo e di Galeotto del Carretto, i quali sono pur mitologici nella sostanza e contengon pure talvolta un’allegoria poeticamente adombrata, sicché rientrano anch’essi nella grande famiglia delle favole mitologiche e delle rappresentazioni allegoriche […], ma dalle une e dalle altre possono, in qualche maniera, distinguersi o per la maggiore ampiezza dello svolgimento o per la minor parte concessa all’elemento mimico e coreografico o, infine, per l’argomento stesso che vi è trattato».

245 Gli Spectacula, tràditi da un unico manoscritto mutilo, sono stati modernamente pubblicati in: FERRUCCIO MAROTTI, Storia documentaria del teatro italiano. Lo spettacolo dall’Umanesimo al

Manierismo. Teoria e tecnica, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 53-77; PELLEGRINO PRISCIANI,

Spectacula, a cura di Danilo Aguzzi Barbagli, Modena, Panini, 1992; e IDEM, Spectacula, a cura di

Elisa Bastianello, glossario a cura di Olivia Sara Carli, Rimini, Guaraldi, 2015. Cfr. inoltre almeno ANTONIO ROTONDÒ, Pellegrino Prisciani (1435 ca.-1518), in «Rinascimento», XI, 1960, pp. 69-

110 e GIULIA TORELLO HILL, Gli Spectacula di Pellegrino Prisciani e il revival del teatro classico a

Ferrara, in «engramma», 136, 2016.

246 Cit. in ANTONIA TISSONI BENVENUTI, Introduzione a Teatro del Quattrocento. Le corti padane, cit., pp. 9-26: pp. 21-22. Cfr. ivi, pp. 21-23: «negli ultimi decenni del secolo troviamo […] a Ferrara l’unica opera quattrocentesca che abbia per oggetto esclusivamente il teatro: gli Spectacula di Pellegrino Prisciano; […] la sua particolareggiata descrizione dei tre generi teatrali è per noi di grande utilità per valutare il grado di coscienza che poteva esistere in proposito anche fuori dalle scuole umanistiche […]. Il terzo genere, la fabula satirica, è quello che più incuriosisce noi ed è anche il più discusso dagli umanisti, proprio perché poco noto e quasi completamente privo di esempi classici sopravvissuti. Se ne discute soprattutto – e non sempre correttamente – nelle introduzioni ai satirici, a causa della confusione creata dal comune nome latino satyra, che indica sia la fabula satirica greca, sia la satura latina, sia le satire di Lucilio, Orazio, Persio e Giovenale.

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Cynthia Munro Pyle, che per prima ha fornito un’edizione moderna del testo del

Visconti nell’ambito della sua tesi incentrata sull’Orfeo del Poliziano e su sei favole

Ma c’è anche chi ha idee chiare in proposito, ed è prima di tutti il Poliziano […]. L’argomento doveva stargli a cuore perché vi ritorna più volte, dall’inizio del corso su Stazio (il primo corso accademico, tenuto nel 1480-81) alla seconda centuria dei Miscellanea (28) [cfr. ANGELO

POLIZIANO, Miscellaneorum centuria secunda, per cura di Vittore Branca e Manlio Pastore Stocchi,

editio minor, Firenze, Olschki, 1978, pp. 18-19], con più sicurezza e chiarezza, rimandando sempre in prima istanza all’Ars poetica di Orazio […]. Il Poliziano già nel suo primo scritto individua nel

Ciclope di Euripide l’unica fabula satirica classica giunta sino a noi ed indica chiaramente le

caratteristiche del genere in opposizione sia alla tragedia e alla commedia, sia alle satire latine: “satyrice autem poesis ilaritatem luctibus admiscet atque a luctu in gaudium desinit” e “Satyrice vero a satyris vocata, qui ipsam invenerunt, idest a rusticis et humilibus personis” [ANGELO

POLIZIANO, Commento inedito alle Selve di Stazio, a cura di Lucia Cesarini Martinelli, Firenze,

Sansoni, 1978, pp. 54 e 55]. Nella Praelectio in Persium cita anche la descrizione della scena satirica fatta da Vitruvio [cfr. Angeli Politiani Opera, quae quidem extitere hactenus, omnia…, Basilea, 1553, p. 514: “Scena praeterea satyrica, ut autor est Vitruvius, arboribus, speluncis, montibus, reliquisque agrestibus rebus, in topiarii speciem deformatis ornabatur”]. […] È […] innegabile che la maggior parte dei testi del teatro di corte di questo periodo richieda una scena del terzo tipo, cioè satirica. Non vanno sottovalutati i suggerimenti in proposito che potevano venire da opere come quella del Prisciani, ma bisogna anche tenere nel debito conto l’influenza diretta che proprio l’Orfeo polizianesco esercitò. […] La fabula satirica quattrocentesca è di contenuto mitologico (ma si tratta di dei e miti minori) ed è solitamente ambientata in una campagna arcadica abitata da pastori innamorati […]. Proporre al pubblico dei e miti antichi rispondeva […] ad una precisa esigenza del gusto contemporaneo, largamente documentata nelle arti figurative. Ma la presenza degli dei sulla scena ha anche altre valide motivazioni: essi permettevano l’evasione in un mondo superumano svincolato dalle regole morali e sociali quotidiane, al quale i signori di diritto erano assunti, attraverso continui paragoni o addirittura identificazioni con gli dei». Cfr. inoltre DANILO AGUZZI BARBAGLI, Introduzione a PELLEGRINO PRISCIANI, Spectacula, cit., pp. 9-30: pp.

18-19: «sicuramente assai significativo […] [è] il modo in cui il Prisciani utilizza, differenziandosi dall’Alberti [De re aedificatoria], un […] passo del De architectura [di Vitruvio], divenuto notissimo nel Rinascimento non solo tra quanti si occuparono di architettura teatrale, ma anche e forse con maggiore scrupolo, tra gli studiosi di teorie letterarie. Si tratta della celebre distinzione delle caratteristiche della scena tragica, comica e satirica [De architectura, V, 6, 9: “Genera autem sunt scaenarum tria: unum quod dicitur tragicum, alterum comicum, tertium satyricum. Horum autem ornatus sunt inter se dissimili disparique ratione, quod tragicae deformantur columnis et fastigiis et signis reliquisque regalibus rebus; comicae autem aedificiorum privatorum et maenianorum habent speciem prospectusque fenestris dispositos imitatione, communium aedificiorum rationibus; satyricae vero ornantur arboribus, speluncis, montibus, reliquisque agrestibus rebus in topeodis speciem deformati”]. Parlando sulla scia di Vitruvio di questa tripartizione delle scene, l’Alberti si limita ad indicare sommariamente i generi letterari per cui viene ideata [De re aedificatoria, VIII, 7: “Cumque in theatro triplex poetarum genus versaretur, tragicum, qui tyrannorum miserias recitarent, comicum, qui patrum familias curas et sollicitudines explicarent, satyricum, qui ruris amoenitates pastorumque amores cantarent, non deerat ubi versatili machina e vestigio frons porrigeretur expictus et appareret seu atrium seu casa seu silva prout iis condiceret fabulisque ageretur”]. Riflettendo sul medesimo tema il Prisciani traduce prima il passo dell’Alberti ora ricordato; poi, evidentemente insoddisfatto, interpola, aggiunge cioè una libera traduzione del passo di Vitruvio e insiste, come sembrerebbe lecito aspettarsi da chi abbia pratica di allestimenti scenici, nel connettere i particolari architetturali e pittorici delle diverse scenografie ai generi drammatici da cui dipendono».

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mitologiche del tardo Quattrocento settentrionale,

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ha inteso la Pasitea come una

favola mitologica che vira verso il tipo della commedia erudito-classicheggiante

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