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e soprattutto nella tensione al realismo che contraddistingue ad esempio i dettagli della progettazione e dell’effettuazione della fuga, che arriva sino a concepire il

monstrum «antilogico e antiestetico», diceva Ugolini con linguaggio crociano,

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di

208 B, XXXIX, p. 138.

209 Cfr. CRISTINA NOACCO, in Piramo e Tisbe, cit., p. 100: «Il dibattito tra la follia e la ragione che traspare dalle parole di Tisbe sottolinea il rischio maggiore che la violazione del divieto paterno comporterebbe: la vergogna che ricadrebbe sul suo linguaggio (vergonder: “disonorare”, “svergognare”). Il carattere disonorante del comportamento di Tisbe, che non era previsto nel testo latino della storia, rappresenta una colpa grave e irreparabile per la mentalità medievale».

210 ARMANDO BALDUINO, in Cantari del Trecento, cit., p. 132. Cfr. ivi, p. 292: «ognuno dei genitori voleva […] che il proprio figlio sposasse qualcuno più ricco e di maggior prestigio». Ugolini invece mostrava di non comprendere: «altro endecasillabo difficile: chi può essere questo “maggior parente”, che gli innamorati [in realtà, i genitori!] desiderano?» (FRANCESCO A[LFONSO]

UGOLINI, I cantari di Piramo e Tisbe, cit., p. 109).

211 A, XVI, pp. 176-177.

212 Cfr. FRANCESCO A[LFONSO] UGOLINI, I cantari di Piramo e Tisbe, cit., pp. 43-44: «la modificazione più singolare e che ci colpisce più fortemente è quella che troviamo ai vv. 219-220. Ovidio aveva narrato così (vv. 93-94) la notturna fuga della fanciulla dalla casa paterna verso il luogo fatale dell’appuntamento: “callida per tenebras, versato cardine, Thisbes / egreditur fallitque suos…”; il versificatore medievale, che pur prima aveva ben reso il “fallere custodes” del v. 85 con “ingannar i lor guardiani”, esce in questa stupefacente asserzione: “Tisbe amorosa prima i suoi amassa / ed esce dalla terra ad aria bruna…”. Parrebbe a tutta prima che egli abbia frainteso il suo esemplare e abbia creato così quel monstrum per noi antilogico e antiestetico, che fa della semplice fanciulletta Babilonese, tutta ardore e fiamma, una scannatrice, o per lo meno un’avvelenatrice, di custodi. Ma chi ci può garentire che il nostro non abbia accentuato ad arte le tinte dell’episodio per suscitare nel suo uditorio quel fremito di orrore che maggiormente tien ferma e incatena l’attenzione

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una Tisbe che arriverebbe ad uccidere i suoi («Tisbe amorosa prima i suoi amassa»,

A, XXVIII, p. 182):

213

Poscia ch’alquanti giorni a tal partito ebbon passato questi tali amanti, tornando a lo ispiraglio onde partito s’eran la notte passata davanti, come si vegion ciascheduno ardito, trattan d’iscire e none essere istanti, e pensan d’ingannare i lor guardiani e di vedere i campi sorïani.

E s’avisaron co molte vivande e vin’ mischiati adormentar le guardie; poscia, per none errar per quelle grande arena d’orïente ove ’l sole arde,

ne’ campi ove ’l Caligine si spande, non ebor le lor menti ’gnude e tarde, ma puosonsi d’andare ove il re Nino era sepolto, a la terra vicino.214 Così co lor pregare il giorno passa e vanne sotto l’acqua e vien la luna; Tisbe amorosa prima i suoi amassa, e uscì de la terra ad aria bruna; ogni viltà amor del cuor le cassa e tutta sicuranza in lei raguna, e inviasi inver’ la fonte co l’amanto che fu cagione del suo amaro pianto.215 Pirramo, poscia che col sonno vinti ebbe le guardie, la terra abandona.216 La bella Tisbe similmente facìa, chè ciascun ora li pareva cento; poi, chome tenpo fu, ciaschun ne gìa a letto a riposare al suo talento; la fedel Tisbe ponto non dormia, ma senpre istava choll’animo atento

della folla? Misteri della psicologia degli individui di quell’età, la cui fredda e sanguinosa ferocia non trovava placamento neppure fra i canti e le feste e le dolci canzoni amorose del maggio fiorito e della primavera».

213 Ma, probabilmente a ragione, ARMANDO BALDUINO, in Cantari del Trecento, cit., p. 293, corregge l’interpretazione dell’Ugolini così: «l’Ugolini, ravvisando nel verbo una forma pisano- lucchese, interpreta “ammazza i suoi” (azione di cui non manca di rilevare l’incongruenza per la fragile Tisbe). Da parte mia non escluderei che si debba pensare piuttosto ad “ammassare” e intendere: “ammucchia i suoi” (quasi facendoli crollare l’uno sull’altro, dopo averli addormentati; “fallitque suos” si era limitato a dire Ovidio)».

214 A, XXV-XXVI, pp. 180-181. 215 A, XXVIII, p. 182.

92 e, suspirando, tanto ebbe aspettato

che ogniun di chasa fu adormentato. Esendo già meza notte passata, sentendo Tisbe che ogniuno dormia, pianettamente ella si fu levata e la sua bella vesta si vestia; esce di chasa, là se ne fu andata che nessuna persona la sentia, e di for se n’andò senza sospetto, al locho dove Piramo havea detto.217 Allora Tisbe, tutta isbighotita, in drieto si ritrasse chon tremore, ma, poi che alquanto si fu assichurita, andògli apresso chon tremante chore e, righuardando, vidde la ferita e riconobbe el suo charo amadore, onde sì grande doglia al cho’ l’afferra che tramortita chadde in piana terra. Poi, ritornata in sé tutta dolente, vide il su’ velo, il qual era chaschato, vidde la spada tutta sanghuine[nte] e vota la guaina ch’avea allato:

– Cholle tuo mane il tanto amore fervente chonoscho che t’à morto, o sventurato! – Poi, ischapigliata, [sopra] al giovinetto batteasi forte el suo bel viso e ’l petto.218 Ben saria morta fanciulla cho’ ’nore: or moro chon verghognia e disonore. O mè tapina, or che dirà la gente, quando el mio tristo chaso saperanno? Benchè della mia morte sia ’nocente, so che la mia follia biasimeranno

ma chi chonosce Amor chom’è possente, per me tapina la schusa faranno;

chè chontra Amor non si può far difesa l’alma, poi che dei suoi lasci è presa. –219 Cercharon le lor case in ogni canto, sì che un muro, il quale li dispartia l’uno da l’altro, era fesso tanto che una spada entrar ci potìa, ond’elli bene si videano alquanto; chosì trovonno, et poi non si dolia: ogni lamento tosto gli è fugito, quando viddono il muro sì partito.220 217 B, XXIII-XXIV, pp. 133-134. 218 B, XXXVII-XXXVIII, pp. 137-138. 219 B, XLI, 7 – XLII, pp. 138-139.

93 Verso la fonte Pirramo venia,

quando vidde el mantello così stare; tutto [’l] rivolse e ghuarda tuttavia; pui si sforçava di voler parllare: tanto dolor nel chuor[e] lo tenia, che nol potia per niun[o] modo fare: non ebbe força né fu sì ardito, che pur chadde in terra tramortito. In pocha d’ora Pirramo rivenne, chominciò a ddire, lagrimando forte: – O Tisbe bella, come Iddio sostenne inverso te mandar sì aspre sorte? Certo che grande crudeltà lo tenne, quando t’ucise a chosì fatta morte, et tu, mantello, dove [e] in qual parte la bella donna pur chonvien lassarte?221 Vedendo pure andare apressimando inver la morte, per gram doglia d’esso, si chadde tramortita lì dal brando; poi si rivenne et fece[se]gli apresso con gran sospiri et, forte lagrimando, abbracciava lui et baciavalo spesso.222

L’eterno palinsesto di amore e morte si presta, così, ad una narrazione semplice,

coinvolgente, diretta, immediata, in cui le «nostalgie tardogotiche»

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si intrecciano

alle evidenze della nascente mentalità borghese, ma pervengono anche ad unione, lo

si è detto, lontani mondi esotici e costumi, per così dire, stra-paesani, filigrane

mitologiche e metafore dell’iper-quotidiano,

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teatralizzazioni emotivamente efficaci

e patetiche e senhals di un algido distacco dalla ribollente passione amorosa. Come

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