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Da un punto di vista storico-filologico, è possibile registrare il primo accostamento dei due miti e dei due rispettivi elementi arborei, con le annesse valenze e

identificazioni allegorico-politiche, nelle Rime di Bernardo Bellincioni (1493), poeta

di origini fiorentine attivo alla medesima corte e nello stesso torno di anni in cui

operava il Visconti e, com’è noto, assolutamente inviso a quest’ultimo:

315

SONETTO V

L’arbor che Febo in terra onora et ama, e quel che Sforza fe’ cangiar colore a quella donna di bellezza un fiore oggi ben dànno gloriosa fama.

Però questa dai patri a sé gli chiama per fundamento di suo vero onore, e dice: Ora in dui corpi i’ veggio un core costante, quando un ben per me si brama. E però, bella donna, or ti conforta alla dolce ombra d’esti arbori santi, che a’ venti avversi stan sicuri e saldi,

314 Ivi, V, i, 17-24, p. 388.

315 Cfr. MARCO CORRADINI, Dal Moro a san Carlo, cit., pp. 62-63: «Al [fiorentino Bernardo] Bellincioni [rimatore “popolareggiante, che a volte sfocia nel buffonesco”: EUGENIO GARIN, La

cultura milanese nella seconda metà del XV secolo, in Storia di Milano, Milano, Fondazione

Treccani degli Alfieri per la storia di Milano, 1952-1966, VII, L’età sforzesca dal 1450 al 1500, 1956, pp. 539-597: p. 578] […] guardò come a un maestro, certo anche per un senso di inferiorità linguistica, un certo numero di aspiranti poeti, se è vero, come racconta Francesco Tanzi Cornigero, curatore della stampa delle sue rime, che “prima ch’el venessi, pochi qui erano chi sapesse che volesse dir sonetto; ora ce ne sono tanti che non solamente gl’intendono ma compongono, ch’io credo non solo la Cantarana e il Nirone, ma tutti due i navili siano diventati de l’acque di Parnaso”. Non tutti, però, mostrano uguale deferenza nei suoi confronti: Gasparo Visconti, la maggiore personalità poetica cittadina di quegli anni, il quale, a detta dello stesso Tanzi, metteva in mostra “quasi uno medesimo stilo con il Petrarca”, in uno scambio di liriche con Girolamo Tuttavilla afferma che il Bellincioni “milli istrioni […] supera” (e il Tuttavilla dal canto suo trova che egli abbia “modi più da bestia che d’umano”) [GASPARO VISCONTI, I canzonieri per Beatrice d’Este e

125 nei dubii passi a te son guida e scorta;

Liguria il sa con sua vergogna e pianti: però el Moro, e poi il Lauro fa che laldi.316 SONETTO XX

DEL BELINCIONE PER RISPOSTA ALL’ANTECEDENTE PER LE RIME Se Febo or piange, ancor si duol Cupido

Perché mai più sarà quel ch’esser suole, sendo nato colui che tòr gli vuole le bellezze, el valor, la fama, el grido. Non fur sì lieti insieme Enea e Dido, come l’arbor di Tisbe in la sua prole, con l’isola, la qual per l’onde sole,

disse, da vostra Italia or mi divido. […]317

SONETTO LIII

PER L’ORATORE PANDOLFINO AMBASCIATORE AL DUCA DI MILANO Veggio venire un novo Demostène

fuor del petto a la figlia di Peneo, penso voglia salir come Zaccheo su quel che parte del tuo arbor tene. Ond’io credo ch’el possi veder bene che quel di Tisbe sia ver Galileo; e che sia sempre el bon fil di Teseo al premio che al poeta si conviene. Dunque Avicenna e i suoi Gallici fiori avesti in su la pianta che sa fare

venir gran sete a molti tessitori: onde tal frutto se n’arà a cavare, che a tutta Italia purgarà gli omori

saranno insieme el rocco in nel giucare.318

316 Le Rime di BERNARDO BELLINCIONI riscontrate sui manoscritti, emendate e annotate da Pietro

Fanfani, Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1876, p. 34. Cfr. le note di commento, ivi: nota 2:

«Fu fatto per la presa di Sarzana per opera specialmente di Lorenzo de’ Medici e del Moro, il che fu nel 1487»; nota 3: «L’arbor che Febo ecc. Il lauro, che allude al Magnifico Lorenzo de’ Medici – E

quel che ecc. E l’altro albero (Sforza), cioè il Moro, i cui frutti cambiaron colore per il sangue di

Tisbe. Allude al soprannome di Lodovico, e chiude appunto il Sonetto esortando che si laldi (si lodi) il Lauro e il Moro».

317 Ivi, p. 48. Cfr. ibidem, nota 1: «L’arbor di Tisbe. Il moro; e però si dee intendere Lodovico il Moro». Per l’occasione di questo sonetto e di quello precedente (AL SIGNOR LODOVICO DI PAULO JERONIMO DEL FIESCO, IN DIALOGO, PE IL NASCIMENTO DEL SIGNOR CESARE, ivi, p. 47), cfr. ibidem, nota 1: «Questo Cesare fu figliuolo naturale di Lodovico, e lo ebbe da una favorita chiamata Cecilia. Il poeta prende occasione da una ecclissi solare, avvenuta in quel tempo, per esaltare tale avvenimento (Del Prete)».

318 Ivi, pp. 83-84. Cfr. ivi, p. 83, nota 1: «Chiama nuovo Demostene l’oratore Pandolfini, mandato oratore da Lorenzo de’ Medici, che è figurato per la figlia di Peneo, Dafne, conversa in lauro; e dice che vuol salire sul Moro, come Zaccheo, cioè vuole conferire con Lodovico il Moro».

126 SONETTO CXXX

CONTRO BACCIO UGOLINI E CERTI ALTRI DICITORI E POETI IN RIME Come posson le Muse comportare

un tanto vituperio, una vergogna che Baccio Filomena, anzi cicogna, sia fatto di fortuna un suo compare! Quell’arbor, che mai frutti seppe fare l’abbi ingrassato e tratto d’una fogna un uom più dispettoso che la rogna! Insino a morte ancor voglio sperare. […]

S’io mi sono a te dato,

e sai bene quel che io vaglio, e s’io te onoro, per certo più che ’l Lauro e più che ’l Moro.319 SONETTO CXL

SOPRA IL PAPA IN LAUDE DEL SIGNORE LUDOVICO Lo Dio d’Arcadia è fatto una sirena

per far l’arbor di Tisbe addormentare, ma par ch’e’ dorma, et usa vigilare, e lassa a tempo i can fuor di catena. […]320 SONETTO CLXXIX

A PIERO DI LORENZO DE’ MEDICI Volta e rivolta, e mostra otton per oro, e maschere et archimia e poesia che infine han fatto sempre comedia

la Donna del Petrarca insieme e ’l Moro. […]321

Teatro e poesia, dunque, per la ricezione del mito di Piramo e Tisbe alla corte del

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