• Non ci sono risultati.

commenti alle Metamorfosi (osserveremo in seguito, nel cantare B, una vistosa contaminazione con l’expositio di Giovanni del Virgilio), i volgarizzamenti (in

particolare, al volgarizzamento di Arrigo di Simintendi guarda spesso il cantare A)

95

e

93 È pressoché impossibile dar conto di tutti i calchi e le riprese da Ovidio: se ne propone qui di seguito una campionatura: «per non fallire al suo dolce amadore / tornava al locho» (B, XXXVI, 2- 3, p. 137: cfr. Met., IV, 128-129: «ne fallat amantem, / illa redit»); «Piacquegli e’ patti e spettorono attenti / inghanno far la sera a’ lor parenti» (C, XXI, 7-8, p. 158; cfr. Met., IV, 91: «pacta placent»); «Altro non v’era che cciò ’maginasse, / né che sapesse che avieno ordinato» (C, XXII, 5-6, p. 158; cfr. Met., IV, 63: «conscius omnis abest»); «però che llei facieva Amor fallacie / chome gli era mestiero in quello aldacie» (C, XXIII, 7-8, p. 158; cfr. Met., IV, 96: «audacem faciebat amor»); «Per ubidirmi uscisti alla porta, / giungniendo a’ luoghi pieni di paura, / e io, tapin, non ebbi di ciò chura!» (C, XXIX, 6-8, p. 160; cfr. Met., IV, 111: «in loca plena metus qui iussi nocte venires»). Due palesi ‘fraintendimenti’ o ‘varianti’ (osso per buxo, Met., IV, 134; rubesti venti per exigua …

aura, Met., IV, 136) sono in A, XL, p. 188: «Tirava il piede per paura indietro / e venne di color di

pallid’osso, / e come triema il mare e torn’adietro / che da rubesti venti è ripercosso, / tremava Tisbe e poi con questo metro / corse a l’amante e abraciogli il dosso, / e ’l suo indegno petto lacerava, / con picchiamento aperto ella chiamava».

94 DARIO MANTOVANI, Un’“officina” tra cantare e poema in ottava rima, cit., pp. 59-61, segnala con fine acribia i dantismi presenti nel cantare A (e gradualmente rintracciati a partire dall’Ugolini). Per quanto concerne gli altri cantari, si segnalino almeno le seguenti evidenze: «Poi, presa quella ispada sanghuinosa, / in man se la rechò sanza sospetto; / poi, chome del morir volenterosa, / in sulla punta si fermò chol petto. / Sopra essa si lassò la dolorosa, / chome avessi la vita a gran

dispetto; / la punta per le ispalle sì li uscie / e chosì Tisbe sua vita finie» (B, XLVI, pp. 139-140);

«El giorno se n’andava e’ chari amanti» (C, X, 1, p. 154).

95 Già l’Ugolini aveva individuato il rapporto intertestuale con il Simintendi, mutando parere dal primo al secondo dei suoi lavori: cfr. FRANCESCO A[LFONSO] UGOLINI, I cantari d’argomento

classico, cit., p. 111: «[Talvolta] l’endecasillabo italiano traduce letteralmente l’esametro latino.

Nell’invocazione finale di Tisbe, quand’essa, prima di uccidersi, si rivolge all’albero e gli parla (vv. 158 sgg.): “At tu, quae ramis arbor miserabile corpus / nunc tegis unius, mox es tectura duorum / signa tene caedis”, il nostro cantare ricalca fedelmente l’espressione ovidiana: “E tu, albor, che cuopri il corpo d’uno, / tosto gli due ricoprirrai co’ rami; / tieni il segnal che mostri di ciascuno / di noi s’uccise, … / e sempre mosterrai i pomi a bruno…” Dipendenza diretta o mediata? Il nostro verseggiatore si inspira al testo latino, o segue un volgarizzamento? Il confronto di questa redazione in ottave con l’Ovidio in prosa del Simintendi offre solo qualche lontanissima affinità, come quella del rendere ambedue i testi i “signa” del verso 160 con “segnali” e l’“urna” del v. 157 con “avello”; concomitanze casuali e di nessun peso per poter stabilire con sicurezza una parentela qualsiasi fra la prosa e i versi. Propendo per credere che il nostro segua direttamente la fonte ovidiana, entro la quale egli opera però trasformazioni, che non sappiamo se ascrivere alla sua scarsa conoscenza del latino o alla sua volontà», con IDEM, I cantari di Piramo e Tisbe, cit., pp. 44-45 e nota 1, p. 45:

«Rimane ora da stabilire se la dipendenza che lega il testo del cantare alla fonte latina sia diretta o mediata: se cioè il verseggiatore conosca la nostra favola dal verso di Ovidio oppure attraverso un volgarizzamento. Modificando parzialmente quanto dapprima ritenevo, credo ora, a testo criticamente stabilito, che egli debba aver avuto sott’occhio la versione del Simintendi; i passi che raffronto a piè di pagina con le stanze del cantare stanno a riprova di ciò. D’altra parte, del suo tener presente anche le Metamorfosi latine come della sua conoscenza della lingua di Roma che non

59

le riscritture di area francese (possibili mi sembrano le influenze esercitate soprattutto

dall’anonima novella cortese Piramus et Tisbé, ca. 1160, e le consonanze con il Livre

de la Cité des Dames di Christine de Pizan, 1404-1405).

96

doveva però esser tanto robusta se gli era necessario l’ausilio di una traduzione, ci sono indice i latinismi, alcuni dei quali crudi, che ne infiorano il dettato [come il cede del v. 285, che gli può venire solo dal v. 125 del poema Ovidiano, e non dalla versione del Simintendi; o come per il v. 60, ove il raffronto dei passi sarà più istruttivo di qualsiasi discussione: (Met., IV, 62) Ex aequo captis ardebant mentibus ambo; (Cant.) ch’amor per tal virtù sì gli abbia catti; (Sim.) Amindue ardeano negli animi presi per igual amore]». La questione è stata poi variamente ripresa dalla critica; cfr. da ultimo DARIO MANTOVANI, Un’“officina” tra cantare e poema in ottava rima, cit., p. 58: «Benché

l’autore dia prova di conoscere – con qualche incertezza – il testo ovidiano, e in un luogo mostri una vicinanza al testo latino anche maggiore di quella di Simintendi, la continuità nella ripresa lessicale, oltre che sintattica, in tutte le ottave imparentate con la fonte rende evidente la dipendenza delle stesse dal volgarizzamento e consente di ipotizzare un ricorso a Ovidio per arricchirne il tessuto o, al limite, in cerca di riscontri per casi dubbi». Con riferimento al volgarizzamento del Simintendi, Mantovani illustra così le due varianti di A, XL, p. 188, cui si è accennato: «La lezione

osso è frutto, evidentemente, della banalizzazione della difficiliore busso [che è in Simintendi] a

causa della somiglianza fonica, né credo probabile che tale confusione sia ingenerata a partire dal latino buxo; quanto al passaggio dal piccolo vento del volgarizzamento ai rubesti venti […], è possibile che il canterino abbia consapevolmente variato l’immagine marina, fedelmente tradotta da Simintendi, in una forma più espressiva, e che in ciò abbia pesato […] il ricordo di rubesto come aggettivo di uso dantesco» (DARIO MANTOVANI, Un’“officina” tra cantare e poema in ottava rima,

cit., p. 59). Il volgarizzamento del Simintendi (ante 1333-1334) è stato pubblicato a cura del canonico Casimiro Basi e di Cesare Guasti verso la metà del diciannovesimo secolo (I primi V libri

delle Metamorfosi d’Ovidio volgarizzate da Ser ARRIGO SIMINTENDI DA PRATO, Prato, per Ranieri

Guasti, 1846; Cinque altri libri delle Metamorfosi d’Ovidio volgarizzate da Ser ARRIGO

SIMINTENDI DA PRATO, Prato, per Ranieri Guasti, 1848; Gli ultimi cinque libri delle Metamorfosi

d’Ovidio volgarizzate da Ser ARRIGO SIMINTENDI DA PRATO, Prato, per Ranieri Guasti, 1850; seguì

uno spoglio linguistico a cura di Francesco Frediani: Spoglio all’Ovidio maggiore compilato dal P. FRANCESCO FREDIANI M.O., in Prato, per Ranieri Guasti, 1852). Il volgarizzamento dell’episodio di

Piramo e Tisbe (poi ripreso in Volgarizzamenti del Due e Trecento, a cura di Cesare Segre, Torino, Utet, 1953, pp. 560-564) è alle pp. 154-159 de I primi V libri delle Metamorfosi d’Ovidio

volgarizzate da Ser ARRIGO SIMINTENDI DA PRATO, cit. A p. 155 si osserva la curiosa segnalazione

di una lacuna: «Spesse volte stavano fermi quivi, Tisbe dall’una parte, e Pirramo dall’altra; e avvicendevolemente l’uno ricevea dall’altro l’alito della bocca, e diceano: o invidioso muro, perché contrastai a noi amanti? ……. e non siamo sconoscenti della grazia che tu ci fai». La lacuna deriva dal peculiare atteggiamento censorio degli editori ottocenteschi, teso ad eliminare i brani ovidiani maggiormente ‘compromettenti’ sul piano morale; si legga l’Avvertimento editoriale (Cinque altri

libri delle Metamorfosi d’Ovidio volgarizzate da Ser ARRIGO SIMINTENDI DA PRATO, cit., p. XII):

«Se nei Primi cinque libri e nei cinque presenti abbiamo tolto i luoghi più osceni, affinché i giovanetti studiosi potessero giovarsi di questo libro senza pericolo del costume; è stato peraltro provvisto alla integrità del testo, stampando quei brani in un quaderno da per sé, in forma di Supplemento». Nel Supplemento ai primi dieci libri dell’Ovidio maggiore, di 24 pp., ora in qualche biblioteca rilegato in fondo a Gli ultimi cinque libri delle Metamorfosi d’Ovidio volgarizzate da Ser ARRIGO SIMINTENDI DA PRATO, cit., a p. 2, si può leggere l’‘osceno’ brano mancante: «Libro IV.

Facce 155. amanti? O come era gran cosa, che tu ci lasciassi congiungere con tutto ’l corpo? e se

questo fosse troppo; almeno fossi tu sì aperto che noi ci potessimo basciare?».

96 Tra le affinità con il lai anonimo del XII secolo, cui si è già avuto modo di accennare, è possibile registrare lo spirito di iniziativa della Tisbe del cantare C e, soprattutto, la malinconia del

60

Tuttavia, è abbastanza evidente che il crogiolo intertestuale su cui insiste la

partitura verbale dei cantari non importa in sé quale raffinata architettura di allusioni

personaggio di Piramo in B («[in Piramus et Tisbé] è Tisbe che, attiva, invita il riflessivo e malinconico Piramo all’azione»; «la causa del destino fatale annunciato fin dall’inizio è da imputare a Piramo che, “amleticamente avvolto nelle nebbie della sua complessione melanconica” [GIOVANNA DI BATTISTA, Piramus et Tisbé: il tema del destino, cit., p. 89], non sa far altro che

lamentarsi e piangere sul proprio destino. Vittima di un disegno a lui estraneo, egli lo porterà a compimento per mezzo di un ritardo che rappresenta l’equivalente paradigmatico della sua mancanza d’iniziativa», CRISTINA NOACCO, Introduzione a Piramo e Tisbe, cit., pp. 16 e 32; sulla

novella cortese la bibliografia è piuttosto vasta: si segnalino almeno HELEN C.R.LAURIE, ‘Piramus

et Tisbé’, in «The Modern Language Review», LV, 1960, pp. 24-32; WILLIAM K.KIBLER, Piramus

et Tisbé: A medieval adapter at work, in «Zeitschrift für Romanische Philologie», 91, 3-4, 1975, pp. 273-291; e CHRISTOPHER LUCKEN, Le suicide des amants et l’ensaignement des lettres. Piramus et

Tisbé ou les métamorphoses de l’amour, cit.): cfr. C, XVII, 6 – XX, p. 157: «[Tisbe:] […] ma, perché ci veggiam non churar nulla, / vo’ che prendiam rimedio a tanto male, / ché durar non potremmo pena tale. – // Pirramo giovinetto gli risponde: / – Chara mia Tisbe, che potrèn noi fare? / Questa parete à assai strette le sponde, / ched altro nom potiam che favellare. / [D]e’ nostrj padrj el voler ci chonfonde, / che mostran non volerci imparentare. / Che vuoi ch’io faccia, dimmi, o Tisbe chara, / pur che non sia la nostra vita amara? – // Dicie allor Tisbe sì ch[i]aro e verile: / – Poj che nom piacie a llor ch’io ti sia sposa, / tener chonviene a nnoj altro stile, / e, ccholla notte, che torna anghosciosa, / quando ti piacie, Pirramo novile, / io d’inghanargli non sarò paurosa: / andiancene, per Dio, Pirramo bello, / che fuor di qui troveremo altr’ostello. – // Rispuose il giovinetto: – Ciò mi piacie – / e Tisbe dicie: – Ove vuo’ tu ch’io vengha? –, / e ripemsando allor Pirramo tacie / e ella a lluj – per cierto, Amor l’ingengnia! –: / – Trammi di quinci, che ffia nostra pacie, / nonn’esser vile che amor lo [di]sdengnia! – / e Pirramo rispuose, sospirando: / – Fermiàno el luogho per non gire errando. –», e B, VIII, 1-6, p. 130, corsivo mio: «Pirramo, essendo in gran maninchonia, / non finava in suo chuore di pensare / chome trovar potessi quanche via / ch’alla sua Tisbe potessi pallare; / e modo alchun trovare non potia / ch’el suo voler potesse satisfare» (il pensiero corre,

mutatis mutandis, alla malinconia del Moro del Giraldi Cinzio [Ecatommiti, III, 7]: «se ne stava tutto maninconoso»: cfr. MASSIMO COLELLA, «Fu già in Venezia un moro molto valoroso». Giraldi

Cinzio e Shakespeare, in I novellieri italiani e la loro presenza nella cultura europea: rizomi e palinsesti rinascimentali, a cura di Guillermo Carrascón e Chiara Simbolotti, Torino, Accademia

University Press, 2015, pp. 158-172: pp. 165-167). Le consonanze con il testo di Christine de Pizan (cfr. CHRISTINE DE PIZAN, La Città delle Dame, a cura di Patrizia Caraffi, Milano-Trento, Luni,

1997; e CHRISTOPHER LUCKEN, Thisbé dans la Cité des Dames, in «Cahiers de recherches

médiévales et humanistes», 20, 2010, pp. 303-320) si riscontrano, oltre che nello spirito di iniziativa di Tisbe, nella scansione cronologica del cantare D: cfr. D, III, p. 167; X, p. 170; XIX, p. 173: «Li padri d’amendue gli fanciullini, / i quali tanto forte sì ssi amava, / stavano appresso et erano vicinj, / ond’e’ fanciulli insieme dimorava, / però che erano molto piccolini / e di tre anni ciasch[ed]uno entrava, / ma tanto amore s’ebbono a pigliare / che non potria l’un sança l’altro stare»; «Quindici annj aviano gli amanti / nel tempo che gli fu tolto la gioia / di non poter ghuardar e’ lor sembianti, / onde quel giornno sempre gli fe’ noia; / faciagli stare di dolore infranti, / fin che non ebbe della morte noia. / Stettono in casa ben presso a un mese, / che l’uno all’altro nonn udì né ’ntese»; «Ond’elli piangean sempre a questo locho / e un gran tempo non ebbe dilectto / di vedersi over parllarsi un pocho, / se non per questo pichol[o] buccetto; / ma pur sempre gli accendia el focho, / crescendo in lor l’amor sì perfetto, / ché tanto stette in chotale affanno / che ciascheduno avia ben ventuno anno».

61

da decifrare sottilmente per poterne ricavare preziosi suggerimenti di esegesi,

97

bensì

è da intendersi come unicamente funzionale alla stesura di una narrazione in grado di

Outline

Documenti correlati