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e Tisbe,

324

inclusa nel secondo libro degli Amori (1534).

325

Il testo agevolmente si

324 Curiosamente, «[FRANCESCO] FLAMINI, misled by Palermo, studied the poem as one of Tansillo’s in his Sulle poesie del Tansillo di genere vario, Pisa, Nistri, 1888» (EDWARD

WILLIAMSON, Bernardo Tasso, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1951, Le Rime, pp. 33-90, §

Fables, pp. 64-65: p. 64, nota 36).

325 Sulla matrice ovidiana del titolo dell’opera, cfr. GIOVANNI FERRONI, Note sulla struttura del Libro primo degli amori di Bernardo Tasso (1531), in «Studi Tassiani», 55, 2007, pp. 39-74: pp. 40- 41 e nota 6, p. 41: «Si tratta di un titolo che all’altezza degli anni ’30 del Cinquecento potrebbe apparire quasi un poco datato se, nella coincidenza con quelli d’importanti opere della poesia umanistica latina e volgare [ovvio il rimando agli Amorum libri tres del Boiardo e ai due libri di poesia latina che costituiscono il Parthenopeus sive Amores del Pontano; non si dovrà però dimenticare, per una testimonianza più completa della fortuna di questo titolo in anni più vicini all’opera del Tasso, anche l’edizione postuma (in Napoli, per Ioanne Antonio de Caneto, 1506) degli Amori di Giovanni Francesco Caracciolo, anche se pare difficile un’influenza sul Tasso a causa della scarsa diffusione extraregionale delle sue rime (su questo cfr. MARCO SANTAGATA, La

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lascia inscrivere in un nutrito gruppo di «libere imitazioni ispirate a singole favole

del poema [ovidiano]» che, «nel quadro del nuovo classicismo volgare», si

impongono «tra gli anni Trenta e Cinquanta del Cinquecento»,

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un gruppo che

pp. 53-54)], si leggesse un segno d’arretratezza rispetto alle nuove prospettive aperte dal Bembo; invece il legame con la cultura dell’umanesimo, se c’è, va trovato nel recupero comune del modello ovidiano e perciò, nell’ottica d’una schematica classificazione storico-letteraria, significa, come ogni ritorno all’antico, un “progresso”, un segno di novità che colloca, per “avanguardismo”, il libro, fin dalle sue soglie, in posizione eccentrica rispetto alla nascente “ortodossia petrarchista”. La scelta d’un titolo ostentatamente elegiaco sembra però essere anche il primo segno di quella discussione sullo statuto letterario della poesia lirica che, quasi in risposta all’innalzamento di tono del primo sonetto del Bembo, viene svolta negli Amori».

Sulla peculiare posizione del poemetto all’interno di un ‘trittico’ dedicato a eros e thanatos, cfr. GABRIELE BUCCHI, Au delà du tombeau: Pyrame et Thisbé dans deux réécritures de la Renaissance

italienne, in «Italique», XIII, 2010, pp. 55-80: pp. 57-58: «Si l’on regarde de près la structure de

deuxième livre des Amori il est évident que la position de la Favola n’est pas du tout le fruit du hasard, mais qu’elle est bien le résultat d’un choix attentif de la part de son auteur. La première grande section du recueil (I-XC), construite sur les formes du sonnet et de la canzone, est suivie par une deuxième partie plus expérimentale, véritable cœur du livre, puisqu’elle réalise le projet d’ouverture aux genres de la poésie classique exposé dans la préface. Cette deuxième partie comprend des Inni et ode (XCIV-CII), une Selva pour la mort de Luigi Gonzaga (CIII), un

Epitalamio pour le mariage du duc de Mantoue Federico Gonzaga (CIV), la Favola de Piramo e Tisbe adressée à Ginevra Malatesta (CV), six Eglogues (CVI-CXII) et six Elegies (CXIII-CXVIII).

Placée au centre de la deuxième section du recueil – entre les Inni et ode d’un côté et les églogues et les élégies de l’autre – la Favola constitue avec la Selva et l’Epitalamio une sorte de triptyque sur les thèmes de l’amour et de la mort. Un jeu raffiné d’échos stylistiques lie les trois poèmes, dont je ne donnerari ici que quelques exemples. La Selva (adressée à la sœur du disparu, Giulia Gonzaga) s’ouvre sur le motif des larmes que la nature verse pour la mort de Luigi Gonzaga (Selva 18-22 “ch’avresti udito in voce alta e dolente / lagrimar de l’Italia ogni confine. / Lui piansero le piante, e d’ogn’intorno / spogliar d’ombre il terren, lui dolcemente / pianser gli augelli”, motif que le lecteur retrouve au début de la Favola dont le style élégiaque et larmoyant est dicté au poète par la distance qui le sépare de son aimée, Ginevra Malatesta (Favola 19-22 “Deh rivolgete, o cara donna, il core / […] / che mesto mi vedrete e lagrimoso / dove Salerno il suo gran mar vagheggia”). De plus, dans la Selva le pathos prêté au désespoir de Giulia Gonzaga pour la mort de son frère est mis en scène d’une même façon que celui de Thisbé sur le corps de son amant: “Intanto ella dolente / gridò: Caro fratel, frate a me caro / via più che gli occhi miei, chi mi ti toglie? / […] ah cielo invido avaro, / ache di tanto bene arricchir questa / vita mortal e questo mondo indegno / per sì tosto ritorlo?” (Selva 112-22) et “Avaro invido ciel, chi ne scompagna? / Chi mi ti toglie e fura, or ch’io dovea / viver teco felice vita e lieta?” (Favola 325-28). Entre le ton lugubre de la Selva et de la Favola, l’Epitalamio, inspiré de Catulle, accomplit plutôt une fonction de repoussoir euphorique. Si le “casto imeneo” de Federico Gonzaga et Margherita Paleologa est destiné à être couronnée par un bonheur qui n’est pas seulement platonique (Epitalamio 66-68 “Beata coppia, a cui con vago aspetto / ride la terra e ’l mare, a cui le stelle / prometton viver lungo e fortunato”, 210-12 “Già con l’avorio e con la bianca neve / la verginella il casto letto preme / e un pieno grembo di piacer ti serba”), l’union de Pirame et Thisbé, bien que souhaitée par les protagonistes (“taedaeque quoque iure coissent” Met. IV 60) ne sera accomplie que par la mort, à cause d’une fatalité tragique qui les accompagne dès la naissance (Favola 36-37 “sotto maligne stelle, in questa oscura / vita apersero gli occhi”)».

326 GABRIELE BUCCHI, «Meraviglioso diletto». La traduzione poetica del Cinquecento e le Metamorfosi d’Ovidio di Giovanni Andrea dell’Anguillara, Pisa, ETS, 2011, p. 73.

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conta, tra l’altro, le favole di Fetonte, Atlante e Narciso di Ludovico Alamanni (Opere

toscane, 1532-1533), la favola di Mirra di Giovan Battista Schiafenato (Rime, 1534),

la favola di Venere e Adone di Lodovico Dolce (in appendice alla commedia Il

capitano, 1545) e di Girolamo Parabosco (nel terzo libro delle Lettere amorose,

1553). Scrive a ragione Gabriele Bucchi:

Pubblicati all’interno di opere originali […], questi poemetti ambiscono a proporsi anzitutto come opere autonome, al pari delle altre poesie contenute nel macrotesto di cui fanno parte. Risultano perfettamente calzanti, in questo caso, le considerazioni che Ann Moss ha fatto a proposito delle più tardi riscritture ovidiane del poeta francese Jean Antoine de Baïf, quando ricorda che il poeta francese “presenta le sue ‘traduzioni’ come poemetti perché vuole che siano lette come tali, non come traduzioni. È un segnale al lettore perché questi risponda in modo appropriato a un poemetto, non a una traduzione”.327

In particolare, per quanto concerne specificamente il poemetto di Bernardo Tasso,

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