2. SULL’ESSENZA IN SANT’AGOSTINO
2.25 Ciò (o qualcosa) che è, ciò per cui è, essere
Si può provare a riflettere sul tema. Anche andando al di là del testo di Agostino e cercan- do di individuare alcune possibili coerenze.
Direi così:
In ogni sostanza si possono considerare due aspetti: 1) il subiectum e 2) i suoi predicati. I predicati sono numerosi e le Categorie di Aristotele ne forniscono un possibile raggruppa- mento: 1) ousia 2) quantità 3) qualità 4) relazione 5) luogo 6) tempo 7) azione 8) passione 9) avere 10) giacere. Ciascun predicato della sostanza è compreso in una (o più) di queste dieci categorie. Di tutti questi predicati alcuni si attribuiscono alla sostanza 1) come generi e 2) come specie, altri 3) come differenze, altri 4) come propri e altri infine 5) come acci- denti: sono questi i cinque modi della predicazione, i ‘predicabili’ (ne tratta Porfirio in Isa-
goge). I predicati contenuti nel genere dell’ousia (dunque la stessa ‘ousia’ e le specie inclu- se in ‘ousia’ come ad esempio per l’uomo: ‘corpo’, ‘corpo animato’, ‘animale’, ‘animale razionale’, ‘uomo’) sono i soli che si possano predicare d’una sostanza come generi e spe- cie. Gli altri predicati inclusi nelle altre nove categorie si predicano della sostanza o come differenza (ad esempio per l’uomo la qualità: ‘razionale’) o come proprio (ad esempio per l’uomo: ‘capace di ridere’) o come accidente (ad esempio per l’uomo la qualità: ‘camuso’, e l’azione: ‘essere in movimento’).
Più schematicamente distinguiamo due modi di predicare qualcosa di qualcosa: 1) il ‘dirsi di’, 2) e ‘l’essere in’. Il ‘dirsi di (qualcosa come di un soggetto)’ è la predicazione secondo il genere e la specie (ad esempio: ‘sostanza’, ‘corpo’, ‘corpo animato’, ‘animale’, ‘animale razionale’, ‘uomo’, si ‘dicono di’ un certo uomo); cioè indica il riferimento di un genere ad una specie e a un individuo o di un genere e una specie a un individuo. Anche la differenza (come per l’uomo: ‘corporeo’, ‘vivente’, ‘razionale’) ‘si dice’ del soggetto (benchè non sia un genere o una specie bensì una qualità, cfr. Arist. Categ. 5). Invece ‘essere in qualcosa (come in un soggetto)’ indica l’esistenza di un accidente e di un proprio (esistenza che è chiamata anche ‘inesione’) in una sostanza.
Più in breve, quando predichiamo qualcosa di qualcosa: o riferiamo un genere e una specie ad un soggetto (cioè indichiamo l’appartenenza di questo ad una certa specie e ad un gene- re, come ad esempio diciamo ‘Alessandro è uomo’) oppure attribuiamo ad un soggetto una qualità o una quantità o comunque un certo accidente (come se diciamo ‘l’uomo è camuso’ o ‘il corvo è bianco’, ecc.).176
Inoltre pare a me che predicare una specie d’un soggetto significhi attribuirgli tutte le diffe- renze che quella specie contiene: ad esempio predicare ‘uomo’ di qualche uomo significa attruibuirgli un corpo, e inoltre la vita e la sensibilità e la razionalità; cioè significa ricono- scere che ‘è corporeo’ e ‘vivente’ e ‘senziente’ e ‘razionale’. ‘Dire di’ qualcosa che è ‘ou- sia’, e cioè riferigli il genere (sommo) dell’ousia significa invece semplicemente dire che ‘è, né in altro né detto d’altro’: e cioè riconoscere che propriamente ‘è’. Significa cioè at- tribuirgli l’essere (o di essere) nel significato principale, vero e proprio, di ousia.
Ancora (e con una terminologia più agostiniana) possiamo distinguere ora i due modi della predicazione così: 1) secondo la sostanza, 2) secondo l’accidente. Secondo la sostanza vie- ne predicata la specie, ed anche il genere (anche in Isagoge leggiamo che entrambi si pre- dicano in eo quod quid sit: ‘riguardo a ciò che qualcosa è’ e quindi, nella traduzione italia- na: “per quel che riguarda l’essenza”, cfr. Porfirio, Isag. 2,15-18; “relativamente
causa dell’essere degli enti (p. 267). Dunque Dio è senza essere. Al limite, Dio non è (p.282). Dio non può essere compreso, non può dirsi di Lui alcun predicato, non può essere detto discorsivamente (pp. 278 -279).
all’essenza”, cfr. 4,10-14177). Le differenze (specifiche) si predicano invece ‘secondo la qualità’ (in eo quod quale sit, “in relazione alla qualità”, cfr. Isag. 11,7,10178) e però sono
per se e non per accidens e sono accolte nella definizione (ratione) (e quindi “è parte inte- grante dell’essenza”, 12,3,5179). Il proprio e l’accidente (separabile e inseparabile) si predi- cano invece (direi) ‘secondo l’accidente’.
In generale un subiectum non è i suoi predicati. Ad esempio Alessandro ‘è’, ed ‘è uomo’, ed ‘è sapiente’. Il primo predicato di Alessandro è ‘che è’ (‘è’), cioè Alessandro possiede di essere, ha di essere (ha l’essere); il secondo predicato è ‘che è uomo’ (‘è uomo’), dunque ha di essere uomo (diremmo: ha l’umanità, ha la natura umana, cioè: ha vita, sensibilità, ragione ecc.); il terzo predicato è ‘che è sapiente’ (‘è sapiente’), e cioè ha d’essere sapiente (o possiede la sapienza). Ciascuno dei predicati esprime come si vede una particolare per- fezione ‘della’ sostanza: predicare (attribuire un predicato a un soggetto) significa afferma- re che qualcosa ‘ha’ una qualche perfezione. Ed ogni perfezione esprime (mi pare) un par- ticolare ‘atto’ della sostanza: l’atto d’essere, l’atto d’essere uomo (che è: vivere, ed esser capace di sensazione, ed essere razionale ecc.), l’atto d’essere sapiente. (O anche: l’atto di avere l’essenza, l’atto d’avere vita e sensibilità e ragione, l’atto d’avere la sapienza.) Ri- formulo: ciascun predicato indica una perfezione del soggetto, cioè indica che quel sogget- to possiede una particolare perfezione; ed ogni perfezione sembra (a me, almeno) esprime- re un certo atto della sostanza a cui la attribuiamo. Ora ripeto ancora: generalmente una so- stanza non è le sue perfezioni; ogni sostanza ‘ha’, ‘possiede’ le sue perfezioni, ma non ‘è’ le sue perfezioni. Per dirla in altro termini: quando attribuiamo qualcosa a qualcos’altro, ciò a cui attruibuiamo non è ciò che attribuiamo. Cioè: se attruibuiamo A a B, A non è B. Ciò che è attribuito non è ciò a cui lo attrubuiamo.
Inoltre più ampiamente (e andando qui al di là del testo agostiniano): ciascun predicato (di tutte e dieci le categorie) può dirsi della sostanza o in atto oppure in potenza, o meglio ogni sostanza possiede le sue perfezioni o in atto o solo in potenza, cioè ancora ogni ogni ente o ‘è’/ ‘ha’ /‘fa’ qualcosa davvero oppure è semplicemente ‘capace di’ (‘può’) essere/ avere/ fare qualcosa (e dunque ‘è’/ ‘ha’/ ‘fa’ qualcosa solo ‘potenzialmente’). In generale (mi pa- re) le cose che non sono semplici e che sono mutevoli e in divenire possiedono il loro pre- dicati o in un modo puramente potenziale oppure in un modo che è in parte potenziale e in parte attuale, ma non sono capaci di un ‘atto puro’. Ad esempio un neonato possiede solo in potenza la vista; ed anche uno che dorma ‘può’ vedere benchè non veda attualmente. E inoltre chi vive ha attualmente di vivere e ‘vive’ appunto, ma, nello stesso tempo, ‘può’ vi- vere ancora (di più) e ‘può’ anche non vivere più (e quindi cessare di vivere), e cioè il suo vivere non è mai pienamente realizzato. O anche: il suo vivere non è ‘sommo’ e ‘massi- mo’.180 Quindi (con terminologia più agostiniana) potremmo dire: ogni cosa può essere ‘di più’ (magis) o ‘di meno’ (minus); e Dio solo è ‘massimamente’ e ‘sommamente’ (summe). Questo si dice anche dell’‘essere’ (come di qualunque atto) e per questo molti filosofi anti- chi (e anche Agostino) riconoscevano che le cose mutevoli e composte sono ‘e’ non sono,
177 L’espressione latina è di Boezio. La traduzione italiana di G. Girgenti. Cfr. Porfirio, Isagoge (a cura di G.
Girgenti), Bompiani, Milano 2004, P.61; p.65.
178 Ibid, p.83. 179 Ibid, p.85.
180 Ha osservato F.-J. Thonnard che in Agostino “il n’y a pas trace chez lui des notions d’acte et de puissance
qui sont essentielles en thomisme” (cfr. “Ontologie Augustinienne”, in L’annèe theologique augustinienne, XIV, 1954, pp.41-53). Agostino (cfr. De Trin. 5,2,3) spiega che ciò che muta non conserva l’essere (quod
mutatur, non servat ipsum esse), e ciò che può mutare, anche se non muta, può non essere ciò che era (potest
quod fuerat non esse). Non è allora forse inappropriato pensare la somma essenza, immutabile perché è som- mamente, come assolutamente in atto.
esistono ma non ‘sono veramente e propriamente’. Non si può dire semplicemente: ‘sono’. Occorre dire: ‘sono e anche non sono’; cioè: ‘non sono veramente e massimamente’. Cioè: il loro atto d’essere non è ‘sommo’.
Dunque in generale una sostanza non è ciò che ‘ha’: non è la ‘sua’ sapienza, non è la ‘sua’ vità e la ‘sua’ sensibilità e la ‘sua’ razionalità, e non è la ‘sua’ essenza; ed inoltre ogni so- stanza si distingue (mi sembra) dai suoi atti: ‘è’, compie l’atto di ‘essere’, ma non è il ‘suo’ atto, non è il ‘suo’ essere; ‘vive’, ma non è il ‘suo’ vivere; ‘è sapiente’ (sapit), ma non è il ‘suo’ esser sapiente.
Ancora, potremmo dire che in ogni cosa dobbiamo considerare tre aspetti che restano di- stinti: 1) la cosa stessa, cioè la sostanza o il subiectum, 2) il suo ‘essere’, ed il suo ‘essere questo e quello’, 3) ‘ciò per cui è’ ed ‘è ciò che è’. In genere questi tre aspetti restano di- stinti: niente ‘è ciò per cui è’, e inoltre niente è il proprio ‘essere’. O ancora distinguiamo: 1) la sostanza o subiectum, 2) il suo ‘avere’ qualcosa, 3) ‘ciò che ha’. Ed ugualmente: nien- te ‘è ciò che ha’, e niente è il proprio ‘essere’ (come atto). Così ad esempio in un vivente distinguiamo colui (o ciò) che vive, il suo ‘vivere’, e la ‘vita’ ‘per cui’ vive. O più in gene- rale in un ente: l’ente o essente, il suo ‘essere’, ‘l’essenza’ per cui è.
Ora la tesi che stiamo qui discutendo è questa: Dio ‘è ciò che ha’, dunque ‘è ciò per cui è’. Inoltre Dio è il Suo ‘essere’. Dio soltanto ha questa prerogativa. Perché? Perché è somma- mente ed è immutabile. Domando: cosa significa essere sommamente e immutabilmente? Abbiamo visto (De Trin. 5,2,3) che ciò che è mutevole, anche se non muta, ‘può non essere ciò che era’. Cioè: è possibile che sia ancora, ma è anche possibile che non sia più. Si trova quindi (direi) in uno stato in parte potenziale: cioè non ‘è’ in modo assoluto, in modo to- talmente attuato; il suo atto d’essere non è assoluto, non è ‘puro’, non è privo di qualche potenzialità. Dio invece è immutabile: il Suo atto d’essere è puro, assoluto, sommo e mas- simo. Questo comporta (in qualche modo) che Dio è ‘ciò che ha’: quindi che Dio è ‘ciò per cui è’; ed inoltre che Dio è il Suo stesso atto d’essere. (Ma l’essere ‘di’ Dio è l’ipsum esse: a Dio compete l’ipsum esse (cioè l’essere stesso da cui l’essenza viene nominata, cfr. De
Trin. 5,2,3); quindi Dio è l’ipsum esse.)
Dobbiamo dire così: ciò che riesce ad attuare tutta la sua capacità di essere, e dunque ad essere ‘assolutamente’ e ‘sommamente’ e ‘veramente’ o ancora ad essere ‘semplicemente’, è eterno e semplice: non si distingue da ‘ciò per cui è’ (da ‘ciò che ha’, da ‘ciò che è’) e i- noltre non si distingue dal suo ‘essere’ (dai suoi atti in genere). In un atto sommo e massi- mo, l’atto coincide con colui che agisce e con ciò per cui agisce. E (dovremmo forse dire così) se qualcosa (un ente qualunque) riuscisse ad attuare tutta la sua capacità di essere, e cioè se riuscisse a essere sommamente, acquisterebbe la semplicità e l’immutabilità di Dio. Riassumo. La differenza tra Dio e le creature è duplice. Della creatura infatti: 1) qualcosa si dice secondo la sostanza o comunque essenzialmente (come ad esempio di qualche uo- mo: ‘che è’, e che ‘è uomo’ e cioè ‘vive’o ‘ha la vita’ ed ‘è razionale, ecc.), 2) e qualcosa si dice invece secondo l’accidente (come quando di qualche uomo diciamo: ‘è camuso’, ‘cor- re’, ecc.) e secondo il proprio (ad esempio di qualche uomo: ‘è capace di ridere’). Invece di Dio anzitutto: 1) non si predica niente secondo l’accidente perché Dio è semplice ed immu- tabile e quindi (lo si è visto) nessun accidente ‘esiste in Lui’; 2) inoltre (e questo partico- larmente va rilevato) Dio ‘è ciò che ha’: cioè il modo in cui si predica di Dio secondo so- stanza è diverso dal modo in cui si predica secondo sostanza delle creature. Cioè: circa la creatura, predichiamo secondo la sostanza quando ‘diciamo’ qualcosa ‘di’ essa come gene- re e come specie, ed anche la differenza specifica, pur predicandosi “in relazione alla quali-
tà”, è però “parte integrante dell’essenza della cosa” (cfr. Porfirio, Isag. 12, 1-10)181. (Così ad esempio di un uomo predichiamo ‘essenzialmente’: ‘è sostanza’, ‘è uomo’, ‘è vivente’ ed ‘è razionale’ ecc.); ora qui (circa la creatura) il subiectum non è ciò che gli viene attri- buito: un certo uomo non è la sua essenza, né la sua vita, né la sua razionalità, o anche po- tremmo dire: dire ‘Alessandro’ e dire ‘uomo’ (o ‘sostanza’ o ‘vivente’ ecc.) non è proprio lo stesso. ‘Alessandro’ e ‘uomo’ non significano proprio lo stesso (nessuno direbbe ‘l’uo- mo è Alessandro’, come dice ‘Alessandro è un uomo’). Invece circa Dio predichiamo se- cono la sostanza in modo che Dio è ‘ciò che ha’. Dio è tutto ciò che ha. Quindi diciamo che Dio ‘è’ buono e cioè ‘ha’ la bontà, ma qui intendiamo che Dio ‘è’ la (sua) bontà. E dire ‘Dio’ e dire ‘buono’ (lo si è visto) è proprio dire la stessa cosa. Per dire ‘Dio’ possiamo di- re semplicemente ‘buono’; e dire ‘buono’ (e basta) equivale a dire ‘Dio’. E così ugualmen- te per la giustizia, la sapienza, e per la deità e per l’essenza.182
Ancora (spero di non andare al di là di Agostino): in qualche modo, diciamo ‘Dio è buono’ o ‘Dio è Dio’ non come diciamo ‘Alessandro è uomo’, ma (più convenientemente credo) come diciamo ‘Alessandro è Alessandro’. Ma con un accorgimento: che noi qui circa Dio distinguiamo ‘Dio’ e ‘buono’. Mentre non distinguiamo ugualmente ‘Alessandro’ e ‘Ales- sandro’. In altri termini: a) noi distinguiamo ‘Dio’ e ‘giusto’ e ‘buono’, b) e nodimeno (cir- ca Dio) è sempre necessario dire che ‘essere Dio’ è ciò che è ‘essere buono’ e ‘giusto’ ecc.. Semplice e molteplice. Dunque c’è anche qui una certa antinomia.
Riformulo ancora:
Della creatura: 1) predichiamo qualcosa secondo l’accidente, 2) e inoltre quando predi- chiamo secondo sostanza distinguiamo ciò che predichiamo da ciò di cui lo predichiamo. Di Dio: 1) tutto (ogni predicato ad se) viene detto secondo la sostanza, 2) ma in modo che Dio ‘è ciò che ha’ e dunque non distinguiamo qui ciò che predichiamo da ciò di cui predi- chiamo.