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Conclusione: ancora sull’argomento di De Trin 5,2,3

2. SULL’ESSENZA IN SANT’AGOSTINO

2.28 Conclusione: ancora sull’argomento di De Trin 5,2,3

Dunque siamo partiti da un passo di De Trin. 5,2,3 in cui Agostino scrive che Dio è sub-

stantia, o meglio essentia, che i Greci chiamano ‘ousia’. Ed argomenta così: 1) Maior: essentia è da esse come sapientia da sapere e scientia da scire; 2) minor: Dio ‘è’, ed ‘è massimamente’ (il Suo nome è Qui est o Qui sum);

3) Conclusio: dunque Dio è certamente (sine dubitatione) substantia o essentia che i Greci chiamano ousia.

Questo ‘sillogismo’ pone però almeno due problemi:

1) se Dio è essentia (o substantia, comunque ousia) perché ‘è’ (è Qui est), l’essentia è qui

quod est (‘ciò che è’, ‘qualcosa che è’); ma quod est traduce il greco to on (‘ente’, ‘essen- te’) e non ousia. E quod est dovrebbe indicare in qualche modo sia la sostanza o essenza sia l’accidente (quantità, qualità, relazione, posizione (situs), modo d’essere (habitus), luo- go, tempo, fare, patire, cfr. De Trin. 5,5,6). Dunque: perché l’essentia (ousia) qui è quod

est (to on)?

A questa domanda si è risposto che l’ousia (substantia o essentia) è per Agostino l’ente (quod est) in se (e non in alio), ad se (e non ad aliud), l’ente proprie ac vere, maxime ac

summe l’unico di cui dunque si può dire semplicemente che ‘è’ (est); questo vale anche per Agostino, perciò non deve sorprendere qui la coincidenza di ousia (substantia, essentia) e

quod est.

L’argomento di Agostino (in De Trin. 5,2,3) solleva contestualmente il problema della di- stinzione tra substantia ed essentia. ‘Ousia’ può tradursi infatti (secondo Agostino) sia con

substantia sia con essentia. Nondimeno (sempre secondo Agostino) è possibile distinguere le due accezioni. In che modo? Abbiamo provato a rispondere così: l’ousia (indistintamen- te substantia o essentia) è qualcosa che è (quod est) in se e ad se (e non in alio e ad aliud). Ma la substantia è il subiectum degli accidenti (substantia per Agostino è ciò che ‘sussiste’

(subsistit)): perciò sono dette propriamente ‘sostanze’ (proprie dicitur substantiae) le cose che ricevono accidenti e sono mutevoli e non semplici (res mutabiles neque simplices, cfr.

De Trin. 7,5,10). Invece l’essentia ‘è’ senza essere il subiectum di alcun accidente: è quindi ‘immutabile’ (incommutabilis) e ‘semplice’ (simplex) ed è ‘propriamente’ (proprie) e ‘ve- ramente’ (vere) e ‘sommamente’ (summe). In un certo senso l’essentia è propriamente ‘ou- sia’. Dio solo è propriamente essentia (cfr. ancora 7,5,10).

2) Il secondo problema è invece questo: se essentia (‘essenza’) si ricava da esse (‘essere’) come sapientia (‘sapienza’) da sapere (‘essere sapiente’), l’essentia dovrebbe essere ‘ciò per cui qualcosa è’, e non il quod est (‘essente’), come anche la sapientia è ‘ciò per cui qualcuno è sapiente’ ma non è il ‘sapiente’, e come la scientia è ‘ciò per cui qualcuno co- nosce’ ma non è il ‘conoscente’.

Dunque: come mai Dio è essentia perché ‘è’ (Qui est)?

In breve sembra che ci sia un paradosso: da un lato l’essentia ha la forma di sapientia e di

scientia e dovrebbe quindi indicare ‘ciò per cui qualcosa è’, dall’altro lato si dice che Dio ‘è essentia’ perché ‘è’ (ed ‘è massimamente’). Cioè: 1) da un lato essentia si pone come

sapientia e scientia, 2) dall’altro lato essentia indica quod est (diremmo: l’ens, o l’essens), mentre sapientia non indica il sapiens né scientia indica lo sciens. Tra sapientia e sapiens (come tra scientia e sciens) c’è un nesso di ‘paronimia’ (cfr. Pseudo- Aug., Par. Them. 12). (Così dovrebbe essere (credo) anche tra essentia ed essens). Ancora in altri termini: 1) es-

sentia ha la forma di un nomen qualitatis, 2) e però sembra (in De Trin. 5,2,3) significare un ‘agente’ (il quod est, o qui est, o ancora l’ens, o essens, insomma: ‘colui che è’, ‘qual- cosa che è’).

Rispondere a questo secondo problema è dunque più complicato. Comporta di focalizzare la distinzione (anzitutto sintattica e poi semantica) tra il verbo al modo infinito, il participio presente e quello che ho chiamato il nomen qualitatis. In particolare qui, tra: ‘essere’ (es-

se), ‘essente’ (essens; ‘qualcosa che è’, Agostino usa la locuzione quod est), ‘essenza’ (es-

sentia).

Abbiamo tentato alcune vie.

Abbiamo anzitutto visto che i latini ancora al tempo di Agostino non avevano il nome ens o essens (participio presente di esse; cfr. Agostino, Ars Brev. 4,31). (Si stava introducendo (avverte Agostino) il nome essens: ma era un neologismo riservato a pochi eruditi, e Ago- stino non lo usa.) Dovevano quindi usare la locuzione quod est: traducendo però così un nome (to on) con una proposizione (quod est; cfr. Seneca, Ep. 58). Come tradurre allora to

on usando un ‘nome’ per un ‘nome’?

Agostino insegna che essentia deriva da esse: è dunque un nome ricavato da un verbo. In

Ars breviata, 4,16, leggiamo che vengono ricavati dal verbo (fiunt de verbo) alcuni nomi che sono chiamati ‘verbali’ (nomina quae verbalia dicuntur). Questi nomi sembrano qui essere di due tipi: uno ha sia genere maschile e neutro (come ad esempio scriptor) sia ge- nere femminile (come scriptrix); l’altro ha genere soltanto femminile (come scriptio). Que- sti nomi si ricavano principalmente (magis flectuntur) dal participio passato del verbo (a

participio praeteriti temporis) (come i suddetti nomi da scriptus). Tuttavia (avverte ancora Agostino) alcuni nomi del primo tipo difettano del femminile presente (non c’è ad esempio da pressor nessuno dice prestrix) e del neutro plurale (non c’è prestricia) per via di un’ec- cessiva asprezza del suono; ma l’auctoritas e la consuetudo in loquendo possono derogare a questo limite e infatti c’è chi dice tonsrix. Ora domando: essentia che nome è? Non corri- sponde a scriptor/ scriptrix (che dovrebbe essere (dico) un nomen agentis: indica ‘chi scri- ve’184) né a scriptio (che sarebbe un nomen actionis: dovrebbe indicare ‘l’azione di scrive-

re’185). È certamente un nome femminile della 1^ declinazione. È sembra l’unico nome verbale186 di un verbo (esse) peraltro privo sia del gerundio (quarta forma, cfr. Ars Brev. 4,31: essendi, essendo, essendum) sia del participio presente (essens). Chiedo dunque: è pensabile che nell’uso del verbo esse la consuetudo o una qualche auctoritas consentissero di usare essentia per indicare il quod est? Per surrogare un nome come essens non ancora entrato nel vocabolario? È pensabile che volendo usare un ‘nome’ per un ‘nome’, ma non avendo ens, si sia tradotto quod est con essentia?

Contro questa possibilità c’è un’ulteriore indicazione di Agostino. In De Trin. 5,2,3 (come in altri passi) è spiegato che essentia deriva da esse come sapientia da sapere e scientia da

scire. Ora la sapientia è una qualità: dunque è ‘ciò per cui (o con cui) qualcuno è sapiente’ (eo quo sapiens sit) ed è ‘causa affinchè qualcuno sia sapiente’ (causa ut sapiens sit) (cfr. ad esempio De Trin. 7,1,1). Anche la scientia è una qualità (cfr. Categ. 8,8b,29-30; è dun- que ciò ‘secondo cui’ qualcuno è detto conoscente). Consultando un manuale della lingua latina vediamo che nomi della prima declinazione uscenti in –ia come sapientia e scientia sono appunto nomina qualitatis.

Dunque: perché l’essentia deve indicare quod est (‘ente’, ‘essente’) se sapientia e scientia non indicano ‘colui che è sapiente’ (sapiens) e ‘colui che è conoscente’ (sciens)?

L’argomento di Agostino sembra implicare dunque due accezioni di essentia (o substantia, ousia):

1) qualcosa che è (quod est);

2) ‘ciò per cui’ qualcosa è (quo est).

Da un’indagine su alcuni testi di Agostino (principalmente De Trinitate, Confessionum li-

bri XIII, De Civitate Dei, Enarrationes in Psalmos) sono effettivamente emerse queste due accezioni di essentia. Quindi abbiamo un unico nome con cui indicare: 1) ‘qualcosa che è (quod est) propriamente’, 2) ‘ciò per cui è’ (qua est). Si può dire anche così: essentia (sub-

stantia, ousia) indica sia ‘ciò che uno ha’ (la ‘sua’ essenza) sia ‘colui (o ciò) che ha’. Dun- que: sia l’avente sia l’avuto. Agostino unisce queste due accezioni in un ragionamento che non appare immediatamente conseguente: a) l’essenza sta all’essere come la sapienza al sa- pere (quindi dovrebbe indicare ‘ciò per cui qualcosa è’), b) Dio ‘è’ sommamente (Qui est), c) dunque Dio ‘è essenza’. Dunque entrambe le accezioni sono usate in riferimento a Dio. Come mai?

Abbiamo provato a rispondere attraverso un percorso molto articolato. Anzitutto abbiamo riconosciuto che Dio è sommamente (summe); questo Agostino lo ricava in vari modi, ma in particolare a partire dalla Scrittura (Es 3,14): Dio è Qui sum, o Qui est, o anche Est; ora se Dio ‘è’ (solo: ‘è’), è massimamente: e infatti della creatura non diciamo che ‘è’, ma che ‘è-e-non è’, perché riceve accidenti e muta; dunque Dio è anzitutto essentia (ousia) nell’ac- cezione del quod est (o Qui est: ‘Colui che è’). Ma se Dio è sommamente e massimamente, Dio ‘è ciò che ha’. Cioè: dall’affermazione che Dio è massimamente, consegue che ‘Dio è ciò che ha’ (quod habet, hoc est, cfr. ad esempio De Civ. Dei 11,26). Può anche formularsi così: ‘Dio è ciò per cui è’. Così Dio è grande, quindi ‘ha’ la grandezza, ma Dio ‘è’ la gran- dezza; e Dio è buono, cioè ‘ha’ il bene, ma Dio ‘è’ il bene che ‘ha’ e quindi ‘è’ il bene ‘per cui’ è buono. Occorre ragionare così con tutte le perfezioni di Dio: con l’eternità, la poten- za, la sapienza ecc.; e infine anche con la divinitas o deitas. Fino a poter concludere: ‘Dio è la ‘Sua’ essenza’ (essentia): ‘Dio è l’essenza che ha’, e cioè ‘Dio è l’essenza per cui è’ (in- tendendo qui l’essenza come ‘ciò per cui Dio è’, e come ‘ciò per cui Dio è tutto ciò che è’).

185 Ivi.

186 È però complicato: essentia non si ricava da un participio passato come avviene per la maggior parte (ma- gis) dei nomi verbali; e non ha la forma dei nomi verbali indicati da Agostino con gli esempi: scriptor, scrip-

C’è quindi un’essenza (essentia, substantia; talvolta anche natura o deitas) ‘di’ Dio (un’es-

sentia come ‘ciò per cui Dio è, un’essentia nell’accezione di qua est) che però non altro da Dio stesso. In breve Dio ‘è’ (è essentia come Qui est) ed ‘è ciò per cui è’ (è essentia come

qua (Ipse) est).

Riformulo. In De trin. 5,2,3 compaiono due accezioni di essentia (quod est e qua est) en- trambe riferite a Dio. Questa doppia accezione riguardo a Dio non è casuale ma è anzi ap- propriata: Dio è essentia perché Dio sia ‘è’ (in sommo grado) sia ‘è ciò per cui è’ (o anche ‘è ciò che ha’). O anche: Dio sia ‘è’ (è essente, ente) sia ‘è l’essenza per cui è (è la ‘sua’ essenza). Dunque: Dio è essentia (ousia) sia come Quod est sia come qua est. La doppia significazione di essentia permette di costruire così l’argomento di De Trin. 5,2.3: 1) es-

sentia si ricava da esse come sapientia da sapere e scientia da scire (ed indicherebbe quin- di ‘ciò per cui qualcosa è’), 2) ma Dio ‘è sommamente’ perché il Suo nome è Qui est, 3) dunque Dio è senza dubbio essentia. Chioso: Dio è essentia come quod est perchè ‘è’ som- mamente e il suo nome è Qui est; ma appunto perché ‘è sommamente’, ‘è ciò che ha’ (o ‘è ciò per cui è’) e quindi è la sua essentia: è essentia anche come qua est. Ancora: Dio sia ‘è’ (è ‘essente’, è essentia come quod est) sia ‘è ciò per cui è’ (è essentia come qua est). Ago- stino dunque costruisce l’argomento di De Trin. 5,2,3 utilizzando l’ambiguità costitutiva del nome essentia (ousia).

Infine Dio è il suo essere: ma gli compete (competit) l’essere stesso (ipsum esse) dal quale l’essentia prende nome (cfr. De Trin. 5,2,3); Dio dunque è (se vocari) ‘l’essere stesso’ (ip-

sum esse, cfr. En, in Ps. 134,4). Essens (o quod est, ‘Colui che è’), essentia (o qua est, ‘ciò per cui è’), esse (come atto di ‘essere’): coincidono in Dio. (Abbiamo anche detto che es-

sentia può forse indicare l’essere stesso come atto. Un unico nome (essentia) può quindi al limite indicare: essentia come quod est, essentia come qua est, essentia come ipsum esse.

Ens, essentia (come natura, deitas), esse: quando diciamo che Dio è essentia (ousia) pos- siamo intendere tutte e tre le cose.)

Inoltre, come Dio è il bene per cui ogni cosa è buona (bonum bonorum), ed è la grandezza di ogni cosa grande (ipsa magnitudo), così ugualmente deve anche essere l’essentia per cui è tutto ciò che è. Abbiamo detto: secondo una ‘causalità’ creatrice (ex nihilo) ed esemplare (anche legata alle rationes aeternae nel Verbum) che non abbiamo qui approfondito. (Ci si dovrebbe chiedere: che tipo di ‘causalità’ è la ‘creazione ex nihilo’?).

L’essentia è comparsa come causa ut sit (cfr. De Trin. 7,1,1): ‘causa affinchè (qualcosa) sia’. Ci si può chiedere se avendo Dio un’essenza, quest’essenza non sia come una ‘causa’ per cui Dio ‘è’; come avendo Dio il bene, questo bene non sia la ‘causa’ per cui Dio è buo- no; e ugualmente avendo Dio la grandezza, questa grandezza non sia la ‘causa’ per cui Dio è grande; e avendo infine Dio la deitas, questa non sia ‘causa’ affinchè Dio sia Dio. Per ri- spondere occorre considerare che Dio ‘è ciò che ha’: dunque ‘è’ il bene ‘per cui’ è buono; ‘è’ la grandezza ‘per cui’ è grande; ‘è’ la deitas ‘per cui’ è Dio, come ‘è’ infine l’essentia ‘per cui’ è. Cioè Dio ‘è’ (ed è buono, e grande, ed è Dio) ‘per se’ (se ipso) e non ‘per altro’ (non alio). Così in De Trin. 5,10,11: se ipso magno magnum est; in En. in Ps. 134,3: se ip-

so bono bonum est; e ancora in De Trin. 8,3,5: non alio bono bonum. Dunque non c’è al- cun’altra ‘causa’ affinchè Dio ‘sia’ (e ‘sia buono, grande, Dio’): c’è Dio solo.

Ci si può allora chiedere se Dio non sia ‘causa di se stesso’: causa sui. In De Trin. 1,1 A- gostino scrive contro coloro che disprezzano la fede per uno sconsiderato amore della ra- gione. Spiega quindi che sono possibili tre errori circa Dio: 1) riferire a Dio (realtà incor- porea e spirituale) ciò che viene appreso intorno alle cose corporee (de corporalibus rebus) sia mediante l’esperienza sensibile (sive per sensus corporeos experta) sia mediante l’inge- gno (natura humani ingenii); e dunque giudicare di Dio ‘secondo il corpo’ (secundum cor-

2) pensare Dio (de Deo sentiunt) secondo la natura dell’animo umano (secundum animi

humani naturam vel affectum); dunque intendere Dio ‘secondo la creatura spirituale’ (se-

cundum spiritalem creaturam) per esempio attribuendogli di dimenticare e di ricordare (nunc obliviscentem, nunc recordantem; 3) voler trascedere l’universa creatura mutevole (transcendere universam quidem creaturam, quae profecto mutabilis est) per rivolgere l’at- tenzione a Dio incommutabile sostanza (ad incommutabilem substantiam quae Deus est) ma senza averne alcuna intelligenza (quod volunt scire non possunt; intercludunt sibimet

intelligentiae vias) e perdendosi anzi in congetture audaci (praesumptiones opinionum sua-

rum audacius adfirmando) e opinioni errate (magis eligentes sententiam suam non corrige-

re perversam); quindi (aggiunge Agostino) giudicare di Dio ‘né secondo il corpo né secon- do la creatura spirituale’ (neque secundum corpus neque secundum spiritalem creaturam; qui s’intende ‘spirito creato’: in facto e condito spirito) e tuttavia pensando cose false (et

tamen de Deo falsa existimant). Come ad esempio: “pensare Dio così potente da generare se stesso” (qui autem putant eius esse potentiae Deum ut se ipse genuerit, Città Nuova). Questo terzo errore è il più grave (eo remotiores a vero; eo plus errant) perché ciò che vie- ne pensato non si trova né nel corpo (nec in corpore) né nell’anima (nec in condito spiritu) né in Dio (nec in ipso Creatore). Infatti non c’è nessuna cosa che generi se stessa per es- sere (nulla enim omnino res est quae se ipsam gignat ut sit).

Dio dunque ‘è ciò che ha’; per Dio ‘essere Dio’ è ‘essere ciò che ha’. Il nome ‘Dio’ indica dunque un certo modo d’essere, un certo modo d’avere le perfezioni; vuol dire: ‘essere ciò che si ha’. La deitas è il carattere per cui Dio ‘è sommamente’ ed ‘è ciò che ha’. Non è solo una perfezione tra le altre. È il modo con cui Dio possiede tutte le sue perfezioni: ‘essendo’ tutto ciò che ‘possiede’ (il bene, la grandezza, l’eternità, ecc.). Ciò che interessa dunque è il ‘modo’ con cui predichiamo di Dio (‘come’ più che ‘cosa’). In questo ‘modo’ (in questo ‘come’) è garantità la ‘santità’ (la ‘trascendenza’) di Dio; direi anche la sua ‘eccedenza’, la sua differenza dalla creatura. Il nome dio Dio è infatti: Qui Est, o Est: ‘Colui che è’. Cioè: ‘è massimamente’, o ‘è ciò che ha’. ‘È’ (Est), e basta, vuol dire, appunto: ‘è sommamente’.