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4. L’ANTINOMIA COME CIFRA DEL PENSIERO DI SANT’AGOSTINO.

4.1 I molti significati dell’ente

Tenterei ora qualche riflessione sul modo di predicare il nome ‘ente’ (facendo riferimento a quanto trattato nel cap. 2).218 Mi soffermo su alcuni punti:

le categorie come i generi sommi dell’ente (cfr. Isagoge, 6,5-10); le categorie come predicati ultimi;

le categorie come significati ultimi di ogni parola significativa (cfr. Categorie, 4,1a,25- 2a,5);

le categorie come ‘quasi principi’ dell’ente (Isagoge, 6,5-10); il nome ‘ente’ e i suoi molti significati (cfr. Metafisica, 7,1, 2; 4,2); il nome ‘ente’ come privo di significato (cfr. De Interpretatione 3,6);

l’ousia come ‘orizzonte’ ultimo dell’ente (cfr. Paraphrasis Themistiana, 5).219

Come abbiamo visto secondo Porfirio (Isagoge, 6,5-10) l’ente non è un unico genere co- mune degli enti, e perciò gli enti non sono nominati in modo univoco. Ci sono invece dieci generi primi dell’ente, quasi dieci principi, che sono le categorie. Osserviamo quindi anzi- tutto che se le categorie sono i generi sommi dell’ente, ogni ente, ogni quod est, deve rien- trare in una di esse: se ‘è’, deve essere o ousia o qualità o quantità o relazione ecc.; deve essere o ousia o accidente della ousia; o ousia o in qualche modo ‘rispetto all’ousia’.220

218 Cfr. in particolare 2,1-2,3.

219 Uno studio circostanziato sulla dottrina aristotelica delle categorie è in M. Bonelli - F. Guadalupe Masi (a

cura di), Studi sulle categorie di Aristotele, Adolfo M. Hakkert Ed., Amsterdam 2011.

220 Per un’introduzione alle importanti questioni che l’Isagoge di Porfirio solleva, e per una messa a fuoco del

punto di vista porfiriano sulle categorie aristoteliche, rimando all’Introduzione di G. Girgenti in: Porfirio, I-

sagoge, Bompiani, Milano 2004. Circa la discussione sul filo conduttore nella deduzione aristotelica delle categorie, rimando per un primo orientamento a A. Trendelenburg, La dottrina delle categorie in Aristotele.

Con in appendice la prolusione accademica del 1833 “De Aristotelis categoriis”, prefazione e saggio intro- duttivo di G. Reale, traduzione e saggio integrativo di V. Cicero, Vita e pensiero, Milano 1994 (ed. orig. 1846). Cfr. anche H. Bonitz, Sulle categorie di Aristotele, prefazione e introduzione di G. Reale, traduzione e saggio integrativo di V. Cicero, Vita e Pensiero, Milano 1995 (ed. orig. 1853)*. Sul passo di Isag. 1,10-15 e sulla disputa medievale intorno agli universali, rimando a due testi: P.A. Florenskij, Il significato dell’idea-

lismo, ed. it. a cura di N. Valentini, tr. di R. Zugan, SE, Milano 2012 (ed. orig. 1914); A. de Libera, Il pro-

blema degli universali. Da Platone alla fine del medioevo, tr. it. di R. Chiaradonna, La Nuova Italia, 1999 (ed. orig. 1996).

Ancora, ‘categoria’ (kategoria) deriva dal verbo kategorein, che in origine indicava forse l’atto di accusa con cui (in ambito forense) ‘si imputava’ qualcosa a qualcuno. Nel lin- guaggio filosofico kategorein significava infatti ‘predicare’, dire qualcosa di qualcos’altro, attribuire un predicato ad un soggetto. ‘Categoria’ vuol dire dunque ‘predicato’, ed in sen- so stretto le categorie sono i predicati che possono fungere solo da predicati e mai da sog- getti: dunque “predicati ultimi”.221 Perciò quando si predica qualcosa di qualcosa il predi- cato deve essere compreso in una delle dieci categorie. Quindi anche quando diciamo che qualcosa ‘è’, cioè che è un ‘ente’, dobbiamo dirlo secondo una delle categorie. Altrimenti non stiamo predicando niente.

In Categorie (4,1a,25-2a,5) Aristotele scrive che fra ‘le cose che si dicono’ (ea quae dicun-

tur, ta legoumena) (ovvero fra i “termini” o “espressioni” o “parole isolate”222) alcune si dicono ‘con connessione’ (come ad esempio ‘l’uomo corre’, ‘l’uomo vince’) ed altre inve- ce ‘senza connessione’ (come ‘uomo’, ‘corre’). Di queste ultime ciascuna significa (signi-

ficat, seimanei) sostanza o quantità o relazione o qualità o dove o quando o posizione o a- vere o fare o patire. Cioè: ogni parola dotata di significato deve indicare una di queste cose, deve significare qualcuno di questi significati: o una sostanza o una quantità o una relazio- ne o una qualità ecc. In altri termini: ogni parola significativa o significa una sostanza, una qualità, una quantità ecc. oppure non significa niente.

Quindi anche “ente” o significa la sostanza o una delle altre categorie, oppure non ha nes- sun significato.223

Il genere è per Porfirio un ‘certo principio’ delle specie subordinate, e le categorie sono in- tese come ‘quasi principi’ dell’ente (Isagoge, 6,5-10). Perciò si deve dire che ogni ente, o- gni cosa che ‘è’, ogni quod est, ha queste categorie come principi: non ‘è’, dunque, non è ‘ente’, se non le ha come ‘principi’.

Si è visto poi (Metafisica IV,2,1003a,33-b,10) che per Aristotele l’ente (to on) ha molti si- gnificati, significa molte cose: o un’ousia, o un’affezione dell’ousia, o una via verso l’ou- sia, oppure ancora una corruzione o una privazione o una qualità o una causa produttrice o generatrice sia dell’ousia sia di ciò che è rispetto all’ousia; oppure ancora una qualche ne- gazione di una di queste cose o della stessa ousia. Poi ancora (in Metafisica VII,1,1028a,6-

221 Così D. Pesce nella sua Introduzione alle Categorie. Cfr. Aristotele, Categorie, Liviana, Padova, Introdu- zione, p.5.

222 Cosi traduce D. Pesce, cfr. Aristotele, Categorie, cit. p. 26.

223 Cfr. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, Bompiani, Milano 2006, Vol. 4: Aristotele e il primo peripato, p. 66: “le figure delle categorie ridanno i significati primi e fondamentali dell’essere: sono, cioè, l’originaria distinzione su cui si appoggia necessariamente quella degli ulteriori significati. Le categorie rap- presentano, dunque, i significati in cui originariamente si divide l’essere, sono le supreme «divisioni dell’es- sere», o come anche Aristotele dice, i supremi «generi » dell’essere”; e, p. 224: “Se – come si è visto – dal punto di vista metafisico le categorie rappresentano i significati fondamentali dell’essere, è chiaro che, dal

punto di vista logico esse dovranno essere (e di conseguenza) i supremi generi ai quali deve essere riportabi-

le qualsiasi termine della proposizione. E dunque il passo sopra letto (Categ. 4,1b,25-27) è chiarissimo: se noi scomponiamo una proposizione nei suoi termini, ciascuno e tutti i termini che otteniamo significano, in ultima analisi, una delle categorie. Pertanto, le categorie, come ridanno i significati ultimi dell’essere, così ridanno i significati ultimi cui sono riducibili i termini di una proposizione. Prendiamo la proposizione «So- crate corre» e scomponiamola: otteniamo «Socrate», che rientra nella categoria della sostanza, e «corre», che rientra nella categoria del «fare». Così se dico «Socrate è ora nel Liceo» e scompongo la proposizione, «nel Liceo» sarà riducibile alla categoria del «dove», mentre «ora» sarà riducibile alla categoria del «quando», e così di seguito”. Per un approfondimento si veda F. Brentano, Sui molteplici significati dell’essere secondo

Aristotele, prefazione, introduzione e traduzione dei testi greci di G. Reale, tr. dal tedesco di S. Tognoli, Vita e Pensiero, Milano 1995 (ed. orig. 1982).

30) Aristotele scrive che ‘ente’ significa o l’ousia oppure quantità o qualità o qualità o af- fezioni o qualche altra determinazione della ousia.

Dunque direi così: quando diciamo ‘è’, o ‘ente’, non indichiamo o significhiamo niente, se non significhiamo o l’ousia o qualcosa che è rispetto all’ousia. ‘Ente’ non ha nessun signi- ficato se non significa o l’ousia o una delle sue modificazioni e disposizioni ecc. Tertium

non datur.

Riformulo, più radicalmente: se, dicendo ‘ente’, pensiamo qualcosa che non sia né una ou- sia né un qualche accidente dell’ousia, non stiamo pensando l’ente in modo corretto secon- do Aristotele. E se dicendo ‘essere’ (come atto) pensiamo qualcos’altro dall’‘essere ousia’ o dall’‘essere in riferimento all’ousia’ (e ‘nell’ousia’), non stiamo pensando alcunchè se- condo Aristotele: l’‘essere’ o è l’atto di un’ousia o è un qualche atto dell’accidente; o è ‘es- sere in sé e non in altro’ o è ‘essere in altro’. Tertium non datur.

In altri termini ancora: non c’è un ‘ente’ ulteriore all’ousia e all’accidente, come un qual- cosa di comune ad essi. Qui il ‘comune’ degli enti, il ‘comune’ tra l’ousia e gli altri enti, l’‘uno’ rispetto al (ad) quale e l’ousia e gli accidenti sono chiamati ‘enti’ è (per quanto ciò possa sembrare strano) la ousia stessa.224

O ancora: se la scienza dell’ente in quanto ente (to on hē on) (o filosofia prima) studia ciò che è ‘comune’ agli enti in quanto ‘sono’ (come la scienza naturale studia ciò che è comu- ne agli enti naturali in quanto naturali), questo qualcosa di ‘comune’ è l’ousia.

In De Interpretatione (3,16b,20-25 Aristotele scrive che i verbi detti per se stessi sono no- mi e significano qualcosa (significant aliquid): colui che dice infatti arresta il pensiero, e chi ascolta quiesce. Ma dicendoli non si dice ancora ‛se è’ o ‛non è’. Cosa vuol dire qui A- ristotele? Direi che s’intende questo: se qualcuno proferisce un verbo dicendolo per sé, an- cora non dice se l’azione significata dal verbo sta avendo luogo oppure no, cioè non dice se tale azione in quel momento è o non è; ad esempio se si dice ‘correre’ non dice ancora se ‘il correre’ c’è o non c’è, cioè se qualcuno sta correndo o no, se c’è o non c’è qualcuno che corre. Quindi Aristotele spiega (ed è importante) che ‘essere’ (esse) e ‘non essere’ (non es-

se) ‘non sono segno di alcuna cosa’; neppure se si dice nudamente ‛ente’ (ens); ‘questo stesso (ipsum) infatti (prosegue) non significa niente (nihil est), ma indica solo ‘una certa composizione’ che non si può intendere senza quelli che vengono composti.225

Ora il passo è complicato.226

224 Su questo aspetto molto complesso si veda V. Melchiorre, “L’analogia in Aristotele”, in Aa. Vv., Aristote- le. Perché la Metafisica, a cura di A. Bausola – G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp.91- 116.

225 Cfr. Aristotele, De Interpretatione, Atenore, Padova 1957, a cura di E. Riondato, p. 24. Prendo il testo la-

tino da Aristotelis Opera Omnia, Graece et Latine, Parisiis: editoribus Firmin-Didot et sociis, 1848, che ri- porto per intero così: Ipsa ergo per se dicta verba, et nomina sunt et significant aliquid; (consituit enim di-

cens animi conceptionem, et audiens quiescit;) at, num sit aut non sit, non dum significat dicens. Neque enim

Esse, aut non Non esse, signum est rei, nec si ipsum Ens nude protuleris. Ipsum enim nihil est, consignificat autem compositionem quampiam, quam nemo possit intelligere sine iis quae componuntur. Rilevo che Ens traduce il greco to on. Invece Esse traduce einai, e Non esse me einai. Riporto ora la traduzione di L. Palpa- celli per l'edizione Bompiani (Aristotele, Organon, coordinamento generale di M. Migliori, Bompiani, Mila- no 2016): “questi verbi detti per se stessi sono nomi e significano qualcosa - infatti colui che li pronuncia vi pone il pensiero e colui che ascolta vi si ferma - ma non indicano ancora se tale cosa è o non è: infatti, l'esse- re o il non essere non sono segno della realtà, neanche qualora tu dica l'essere in se stesso. Infatti, in se stesso non significa nulla, ma aggiunge il significato in una certa connessione che non è concepibile senza gli ele- menti che la costituiscono”. Noto che nel testo latino dell’Aristoteles latinus (cfr. Liber Periermeneias Ari-

stotelis. Translatio Boethii, in Aristoteles Latinus, II, 1-2, ed. L. Minio-Paluello; ed. G. Verbeke, rev. L. Mi- nio-Paluello, Desclée De Brouwer, Bruges-Paris 1965) al posto del nome Ens (a tradurre to on) compare est (dunque ‛è’ al posto di ‛ente’).

226 E. Riondato spiega che qui Aristotele si riferisce “all’uso copulativo” del verbo essere, cfr. Aristotele, De Interpretatione, cit., p. 24. Cfr. anche G. Reale, “L’impossibilità di intendere univocamente l’essere e la ‘ta- vola’ dei significati di esso secondo Aristotele”, in G. Reale, Il concetto di filosofia prima e l’unità della Me-

In riferimento al nostro discorso c’interessa questo: l’affermazione che a) l’‘ente’ non ha significato, stride evidentemente con l’affermazione (ugualmente aristotelica) che b) l’‘en- te’ ha molti significati. Ora a) e b) sarebbero contraddittori.

Perciò, dire che ‘ente’ non ha significato, qui può indicare solo una cosa: che ‘ente’ non ha un significato ‘suo proprio’, che non esiste un predicamento o una categoria o un genere dell’‘ente’ inteso ‘nudamente’, dell’ente in quanto ente; cioè (com’è in Porfirio) l’ente non è un genere comune degli enti. L’‘è’ infatti indica sempre una composizione: o ‘il dirsi di qualcosa di un soggetto’ o ‘l’essere di qualcosa in un soggetto’. Indica cioè una composi- zione di soggetto e predicato che può essere di due tipi: a) generico e specifico, oppure b) accidentale.

‘È’ indica quindi sempre o che qualcosa ‘è ousia’ oppure che qualcosa ‘è nell’ousia’. ‛Ente’ (essente) significa o ‛è ousia’ o ‛è nell'ousia’.

Non c’è quindi alcuna categoria, alcun significato dell’ente in quanto ente.227

Concludo con la Paraphrasis Themistiana. Lo Pseudo-Agostino spiega che Aristotele usa il nome ‘ousia’ (dixit ousian) per comprendere tutto ciò che è (omne quidquid est compre-

hendens) con un unico nome ‘ingente e capiente all’infinito’ (ingenti et capaci ad infinitum

nomine). Aggiunge quindi che non è possibile né trovare né pensare alcunchè ‛al di fuori’ (extra) dell’ousia (nec inveniri nec cogitari); e che non c’è niente (nihil est) ‘al di sopra’ (supra) della ousia (5). L’ousia è una delle dieci categorie (una de categoriis decem). Ripeto: non c’è niente oltre l’ousia, e nondimeno l’ousia non è l’unica categoria, l’unico significato dell’ente, ma ‘uno tra dieci’. Ora non è facile tenere insieme queste due affer- mazioni: a) non c’è niente al di fuori (extra) né al di sopra (supra) della ousia, e b) nondi- meno l’ousia è solo una delle dieci categorie. Sembrerebbe più coerente dire: a) non c’è nulla ‘oltre’ l’ousia, b) quindi l’ousia è l’unica categoria o l’unico significato dell’essere. Oppure: a) l’ousia è una tra dieci categorie, b) quindi c’è qualcos’altro oltre l’ousia.

Da questa strana aporia si esce considerando che le nove categorie dell’accidente (acci-

dens, symbebekos) sono (per definizione) ‘nell’ousia’ come ‘in’ un soggetto (in ousia ines-

se noscuntur, ipsa ousian ipokeimenon id est subiacens). Perciò dire che niente è al ‘di qua o al di sopra’ dell’ousia, significa dire che non c’è alcun significato dell’ente ‘ulteriore’ al- l’ousia e a ciò che (in vario modo) ‘è in’ essa. L’ousia è dunque ‘l’orizzonte’ ultimo del- l’ente.