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Le ‘città immaginate’, come anticipazioni di possibili ’utopie concrete’.

Fin qui ho discusso i grandi cambiamenti avvenuti in tempi più o meno recenti: la scomparsa della città tradizionalmente intesa, le traiettorie dell’urbanizzazione, i rapporti tra i modelli di sviluppo e le dinamiche di distruzione dell’ambiente dell’uomo, le resistenze e la crescente importanza delle questioni urbane per i movimenti politici e sociali. Ho voluto osservare, in controtendenza, la persistente rilevanza della scala locale quale livello al quale continuano a materializzarsi le pratiche diversificate connesse all’abitare.

Ritengo che i contributi illustrati siano appropriati a tratteggiare le caratteristiche e le evoluzioni degli insediamenti umani, e permettano allo stesso tempo di costruire delle maglie interpretative non troppo rigide: essi forniscono un quadro di riferimento formato da più filoni teorico-interpretativi, aventi punti in comune e differenze reciproche. La conclusione a cui giungo è che, in ogni caso, essi sono poco utili se non si proiettano dall’analisi del reale a quella del possibile, se non si configurano come strumenti per individuare opportunità per trasformare la realtà, immaginando un futuro migliore.

Penso che, proprio per la sua permanenza nell’immaginario comune, il concetto di ‘città’, idoneamente definito – luogo d’interazione della diversità, non riducibile al solo mercato – ed adattato alla realtà odierna, sia ancora valido, alla luce della necessità di far fronte ad importanti problematiche sociali, politiche, ambientali.

Sono necessarie città ‘altre’, differenti, che attingano dalle tante possibili ‘città immaginate’. Pensieri e pratiche di libertà nei confronti delle pervasive costrizioni imposte dal sistema dominante. Espressioni dissonanti, parole sussurrate o urlate, che squarciano il velo costituito dal silenzio assordante o dall’omogeneo rumore di fondo della narrazione

mainstream. Prospettive che da un lato siano funzionali alla resistenza contro le logiche di

sfruttamento del territorio e dei suoi abitanti, dall’altro siano capaci di produrre esiti materiali, attraverso percorsi che sfuggono tali logiche. Manifestazioni individuali e soprattutto collettive di evasione rispetto a traiettorie prefissate, imposte dai vincoli politico- istituzionali e dalle pressioni economico-finanziarie.

‘Città immaginate’, dunque, come ambienti aperti alla diversità: luoghi di riunione, incontro e scontro, che producono relazioni sociali e si traducono in rinnovate configurazioni fisiche del territorio. Visioni di città che si concretizzano nella ricostruzione di un rapporto tra abitante e luoghi, alternative ad un modello di sviluppo basato principalmente sulla ‘valorizzazione’ economica dello spazio. Organismi urbani perennemente in costruzione, frutto di una creatività diffusa e orientata a mettere in dubbio la mancanza di alternative alle trasformazioni dettate dalle dinamiche di mercato. Territori ricostruiti e resi capaci di ospitare allo stesso tempo fantasie di futuri possibili e trasformazioni reali, talvolta clandestinamente, in silenzio, sottotraccia, talvolta in maniera eclatante, rumorosa, evidente.

Figura 1.12. I ‘semi dell’ecologia urbana’ piantati nel 1993 a Claremont road109, Londra: la protesta contro le demolizioni e la costruzione dell’autostrada urbana M11 (foto © David Salomon).

“Quando fu rasa al suolo nel novembre 1994, Claremont Road era diventata la strada più creativa, celebrativa e vitale di Londra […]. Prima che tutti gli attivisti venissero portati via dalle case sugli alberi e dalle fortezze, il principio ispiratore dell'azione, ovvero l'idea secondo cui le tangenziali e le autostrade prosciugano lo spirito

vitale delle città, non avrebbe potuto essere espresso in modo più convincente e scenografico” (Klein, 2000)

109 “[...] «La tangenziale M11», spiega John Jordan di Rts [Reclaim the Streets], «doveva collegare Wanstead ad Hackney nella zona orientale di Londra. Per costruire questa tangenziale, il dipartimento dei Trasporti doveva demolire 350 case, far traslocare migliaia di persone, passare attraverso una delle più antiche foreste londinesi e devastare un'intera comunità per far spazio a una lingua di cemento a sei corsie del costo di 240 milioni di sterline, il tutto per poter risparmiare sei minuti di viaggio in macchina». Dato che la città aveva ignorato le violente proteste della comunità locale, contraria alla costruzione della strada, un gruppo di artisti attivisti cercarono di fermare i bulldozer e trasformarono Claremont Road in una fortezza culturale vivente. Portarono i divani nelle strade, appesero i televisori ai rami degli alberi, dipinsero una scacchiera gigantesca in mezzo alla carreggiata e collocarono falsi tabelloni sullo sviluppo delle aree periferiche davanti agli edifici destinati alla demolizione con la scritta: ‘Benvenuti a Claremont Road. Case ideali’. Molti di loro erano andati ad abitare sui castagni, avevano occupato le gru e di qui mandavano musica a tutto volume e lanciavano baci ai poliziotti e agli operai di sotto. Le case ormai vuote erano state trasformate, collegate tra loro con tunnel sotterranei e riempite di opere artistiche. Nelle strade, le automobili in disuso erano state dipinte a strisce, coperte di slogan e trasformate in fioriere: in questo modo non solo erano belle a vedersi ma formavano anche efficaci barricate di protezione. Un castello di impalcature alto circa trenta metri arrivava fino al tetto di una delle abitazioni. La strategia di questi attivisti, spiega Jordan, non consisteva nell'utilizzare l'arte per raggiungere obiettivi politici ma nel trasformare l'arte stessa in uno strumento politico concreto che fosse al contempo ‘bello e funzionale’” (Klein, 2000).

Queste suggestioni mettono così in luce l’importanza delle persone e delle loro aspirazioni, dell’immaginario, della fantasia, della creatività e dell’esercizio della libertà. Possono senza problemi tradursi in spazi dell’abitare dove si configura il primato del valore d’uso, riallacciandosi al ‘diritto’ di Henri Lefebvre, o ancora come ‘centralità’ per riprendere le sue teorizzazioni successive, o corrispondere a tante altre descrizioni ancora. Nell'ottica di una futura società ecologica, potrebbero infatti rappresentarsi come nodi di quella "rete di municipalità di dimensioni contenute, ciascuna delle quali formata da comunità più piccole, o anche da insediamenti individuali, tutte in stretta sintonia con l'ecosistema in cui si trovano" (Bookchin, 2006).

Le ‘città immaginate’ si ritrovano, assumendo concretezza, in quei luoghi cui alludono le parole evocative di Lidia Decandia (2000):

“[…] Lontano dall’ordine dei piani, dalle atmosfere armoniose delle città antiche, cominciano ad emergere, in maniera brulicante, segnali di una creatività dispersa e diffusa, molecolare che sa opporsi attraverso il fare alle logiche tecnicistiche dell’ordine stabilito; spazi vissuti e usati, che si inventano e si trasformano, di cui ci si appropria nelle pratiche dinamiche del quotidiano. È qui che prendono forma nuove centralità dinamiche, spazialità frammentate, luoghi complessi, sfondamenti improvvisi e vertiginosi, sospensioni di senso, elementi estranianti; è qui che fioriscono, nella contraddizione e nella conflittualità, forze positive e costruttive, “ambienti vitali di straordinaria forza e comunicazione, forze ed emozioni, storie spesse ed intriganti” (Borri, 1997110); è qui che si

dischiudono nuove maniere di fare società; è qui ancora che il disagio e l’insofferenza nei confronti dei modelli insediativi e delle tipologie proposte dalla cultura ufficiale producono crogiuoli di idee, sperimentazione di nuovi modelli di vita, laboratori di nuove immagini di città […]”.

Si percepiscono poi forti legami tra ciò che può emergere dalle ‘città immaginate’ e le visioni di scenario strategico elaborate dalla ‘scuola territorialista’: soprattutto la loro natura di ipotesi riguardanti futuri possibili, utilizzabili come strumenti di azione nel presente, ed il recupero del ruolo dell’utopia, come antidoto contro il realismo emergenziale. Per evitare il rischio, presente nell’approccio territorialista, di operare forti astrazioni e ridurre la tensione utopica alla semplice elaborazione di modelli, come descritto da Francoise Choay (1965), le ‘utopie concrete’ che possono derivare devono conservare sempre l’adesione alla scala locale descritta in precedenza ed essere il più possibile ‘opera’ diretta degli abitanti dei luoghi, di tutti coloro che li conoscono in quanto li vivono e li hanno a cuore. Perciò, le concretizzazioni delle ‘città immaginate’ possono anche essere definite come ‘nuclei di urbanità’ immersi nell’oceano urbano, come negli orizzonti prefigurati dalle parole di quest’ultima autrice (Choay, 2006).

110 La citazione usata di Lidia Decandia è di Dino Borri (Pluriworld, Relazione presentata al convegno “Le scienze della città e del territorio. Percorsi meridiani”, Palermo 12-13 giugno 1997).

Figura 1.13 – Tavola da Favola di Venezia, avventura a fumetti di Corto Maltese (Hugo Pratt, 1976).

"Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti [...]. Quando i veneziani (qualche volta anche i maltesi...) sono stanchi delle autorità costituite, si recano in questi tre luoghi segreti e, aprendo le porte che stanno nel

fondo di quelle corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie" (testo di un’altra tavola). Mi sembra che la sensazione di ‘sogno’ che può suscitare l’abbinamento tra l’immagine e le parole di Pratt,

abbia a che fare col senso profondo, difficile da definire razionalmente, dell’espressione ‘città immaginate’.

Roma.

C’è una presenza che non ho ancora esplicitato, un ‘convitato di pietra’, sottesa a tutto quanto tratteggiato finora: la città in cui vivo e ho sempre vissuto, Roma. Nel contesto metropolitano romano è difficile rintracciare il concetto di città che la storia ci ha consegnato, quello che si respira in ogni angolo attraversando il suo centro storico. Quell'insieme strutturato di spazi privati, pubblici e comuni appare infatti solo in alcuni punti dell’attuale agglomerato urbano, ed i confini amministrativi di quest’ultimo sono quasi totalmente sganciati dalla vita quotidiana e dalla possibilità di partecipazione.

Eppure l’idea di città si può ritrovare nell’essere ‘abitante’, immergendosi nell’azione diretta di trasformazione dei luoghi e partecipando alle discussioni riguardanti scelte collettive, come cercherò di mettere in luce analizzando il caso studio del lago e della ex fabbrica Snia

nel quartiere semicentrale del Pigneto-Prenestino. L’approfondimento farà emergere una caratteristica che penso sia riscontrabile anche altrove: l’immagine della città, non più coincidente con la sua forma concreta e materiale, che si materializza e diffonde nell’aggregazione sociale, quando l'azione delle persone crea spazi pubblici, permanenti o effimeri, in maniera pressoché indipendente dalla loro definizione giuridico-proprietaria. È anche per questo motivo, a mio parere, che l’immagine globale della città di Roma, anche se molto idealizzata e poco definita, permane nell’immaginario collettivo, nonostante a comporla e sentirsene parte siano spesso gli abitanti di insediamenti semi-autonomi dal contesto in cui sorgono, localizzati a grandi distanze da quelli che erano (e sono tutt’ora) i suoi centri nevralgici. Permane l’identificazione con la città di Roma e quella con i singoli luoghi e quartieri, costituenti tante isole di un potenziale arcipelago urbano.

Non è certo questa la prima volta che viene menzionata una visione dell’area metropolitana romana come costituita da una rete di città e quartieri, anche se spesso è stata concepita dall’alto e con rapporti di dominio tra le sue parti, e nei confronti di altri luoghi. L’idea di città policentrica, che ha trovato grande diffusione nei decenni scorsi, si configurava proprio come distribuzione di attività (funzioni) caratteristiche del centro cittadino nella infinita periferia della capitale, ed il ‘policentrismo’ stesso ha contribuito fortemente alla retorica del piano regolatore vigente, strumento di traduzione in termini spaziali del progetto di città delle recenti giunte di centrosinistra. Il prossimo capitolo affronterà proprio questo tema, cercando di operare alcuni disvelamenti, decostruendo quella stessa retorica, e individuando le contestuali possibilità, sfruttate o latenti, per concretizzare una visione di Roma come ‘arcipelago urbano’.

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