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Tante questioni problematiche, dentro e oltre la materia urbanistica.

Fin qui, salvo le continuità e discontinuità storiche individuate negli ultimi paragrafi, ho principalmente messo in luce i limiti dovuti alla mancata o ‘traviata’ attuazione del piano, inserendomi in un filone diffuso che attribuisce a ciò il fallimento complessivo della strategia urbanistica. Ho insomma osservato i fatti attraverso una visione subalterna alla cultura urbanistica del piano stesso, anche se, a dire la verità, questo approccio ha fornito il pretesto per fare emergere già da subito alcune criticità più profonde. A seguire, svilupperò alcune questioni fuori dalla prospettiva ‘interna’ alla logica del piano, mettendo in dubbio – o, quantomeno, in tensione – le premesse e le scelte alla base. In ultimo, una volta sgombrato il campo dalle logiche predominanti e rovesciata la prospettiva, utilizzerò proprio il principio ispiratore principale – l’auspicata riconnessione tra ‘storia e natura’ – come chiave condivisibile per immaginare nuovi possibili orizzonti, concentrandomi sul tema delle centralità.

Innanzitutto, che cosa si salva di questa esperienza? Alcuni passi importanti sono stati compiuti, riguardo ambiente e mobilità. A livello programmatico, la ‘cura del ferro’ rimasta sulla carta sembra tutt’ora essere necessaria, come struttura portante di una strategia basata sul trasporto pubblico. Allo stesso modo, va conservata la priorità della salvaguardia ambientale, che merita un ruolo più ampio rispetto a quello di criterio per rilocalizzare le previsioni edificatorie. Un sistema di trasporto pubblico diffuso ed efficiente, idea più generale che soggiace al primo tema, è qualcosa di cui a Roma si sente sempre più bisogno, al di là delle distorte dinamiche che può generare una sua applicazione parziale a livello metropolitano. Il secondo tema, con la questione di un rapporto tra insediamento urbano e ambiente naturale, può aprire il campo alla riflessione sulla condivisione del piano da parte degli abitanti o, in alternativa, tradursi in un approccio tecnocratico.Ci sono poi altri aspetti, marginali, che riprenderò in seguito, possibilità che sono rimaste anch’esse sulla carta, testimoniando però l’esistenza di percorsi alternativi basati su condivisione, comunicazione e sviluppo locale.

La prima questione problematica che si pone, allargando la visione oltre i principi del piano, è quella del rapporto pubblico-privato, ossia tra istituzioni, proprietà fondiaria, imprenditoria, finanza. In fondo, si tratta principalmente di una tematica economica: l’ultimo capitolo di una storia urbanistica della città che, con le parole dell’ex sindaco Giulio Carlo Argan citate in precedenza, è sempre stata caratterizzata dal ruolo della rendita fondiaria. La questione alla base è già stata nominata: il problema delle risorse pubbliche limitate, sporadiche e basate su progetti. Il taglio dei trasferimenti agli enti locali, infatti, ha avuto come esito che, nonostante la retorica politica sul decentramento, avvenisse una centralizzazione decisionale relativa all’assegnazione di finanziamenti statali, sempre più spesso legati ad appositi bandi per progetti202. Non si perde, così, solo (sic) la possibilità di

un rinnovamento complessivo che investa tutto il territorio: mancano proprio le risorse finanziarie per la gestione, e i pochi e rari interventi ‘spot’ non possono certo sostituire la manutenzione ordinaria.

Le logiche di mercato, che hanno poco o nulla a che fare con le necessità dei singoli contesti, hanno poi richiesto agli amministratori di ragionare con l’ottica che accomuna tutti gli ‘operatori’ in campo edilizio e immobiliare: quella orientata alla rendita e al profitto. Il punto di partenza è la ricerca di meccanismi per catturare la rendita (value capture) e renderla disponibile alla collettività per realizzare gli interventi necessari alle aree esistenti. Il passaggio successivo, e qui inizia la distorsione del punto di vista dell’istituzione pubblica, è quella di cercare occasioni per realizzarla: maggiore è la rendita, maggiori sono gli introiti nelle casse comunali…in fin dei conti, si tratta della questione della ‘moneta urbanistica’ già descritta. È un potenziale circolo vizioso, frutto di un compromesso decisamente avventato, che alla lunga si è rivelato sconveniente per la cittadinanza. Peraltro, al di là delle dinamiche finanziarie perverse che innescano, i meccanismi elaborati risultano pensati per la nuova costruzione, per la città che si espande, basati come sono sul trasferimento di previsioni edificatorie su nuove aree, sui premi di cubatura e sullo scambio tra opere pubbliche e nuove costruzioni, e questo avviene mentre il meccanismo della rendita viaggia anche in molte altre direzioni203.

La centralità dell’esistente è, dunque, la seconda questione problematica, in quanto nominata ormai da decenni ma mai affermatasi realmente nella prassi urbanistica. Alcune dinamiche sono in moto: il cambiamento culturale rappresentato dall’opposizione diffusa alla cementificazione del territorio, che ancora non trova un coagulo organizzativo all’altezza di

202 Il modello per progetti può essere visto in relazione ad un cambio di approccio parallelo: quello delle politiche pubbliche mirate allo sviluppo produttivo. In quest’ultimo caso, è avvenuto il passaggio dall’intento dichiarato di creare un’uguaglianza formale, su base nazionale, tra i luoghi, verso un’ottica di forte differenziazione dei sistemi produttivi locali. La competizione economica tra i diversi territori è elevata a orizzonte auspicabile, e addirittura la disuguaglianza viene intesa come un fattore di stimolo (Brenner, 2016c). 203 Ad esempio, oltre agli interventi hard, ristrutturazioni di immobili con cambio di destinazione d’uso e addirittura riconversione di intere aree (la ‘rendita differenziale’ affrontata da Tocci, 2009; vd. nota 143), vi sono tutte le evoluzioni più soft, senza interventi significativi, legate al fenomeno turistico e alla ‘gentrificazione’.

misurarsi con le forze che avversa (Berdini, 2015); l’evoluzione delle politiche urbane europee verso la rigenerazione urbana integrata (Dichiarazione di Toledo 2011), e gli analoghi sviluppi locali204, in cui un approccio molteplice sostituisce una logica di intervento

basata esclusivamente sul mattone e sul cemento; la crisi economico-finanziaria in corso a livello globale, che si traduce in una sovrapproduzione edilizia nel contesto romano205 e in

molte altre parti del ‘belpaese’206, determinando un crollo del settore edilizio, rispetto al

quale l’unico elemento di contrasto è costituito dagli interventi sull’esistente207.

Edoardo Salzano e Mauro Baioni (2015) riassumono la questione in due frasi, che riprenderò anche in seguito:

“[…] Oggi, per la prima volta nella storia urbanistica delle nostre città, la fine dell’espansione costituisce una possibilità concreta. La trasformazione dell’esistente non ha più un carattere residuale, ma costituisce il principale campo di azione della pianificazione. […]”

Lo stesso Salzano ha da sempre denunciato la legittimità e l’utilità di uno dei primi passi in materia urbanistica della giunta, via via confermato e diventato senso comune: il riconoscimento dei cosiddetti ‘diritti edificatori’. Questi ultimi, definiti dall’autore un ‘mostro giuridico’, si traducevano nella ricerca di modi per risarcire (‘compensare’) i proprietari privati, a seguito delle decisioni pubbliche mirate a lasciare inedificate aree che erano state definite edificabili dal precedente piano regolatore, varato decenni prima e con una previsione di crescita demografica totalmente fuori misura rispetto a quella realmente avvenuta208. Su questa tematica sono stati espressi punti di vista differenti: da un lato,

Salzano ed altri studiosi209 hanno ribadito la priorità degli interessi della collettività, e la

legittimità delle decisioni di piano sugli usi del suolo, senza necessità di indennizzi; dall’altro, al contrario, la giunta e l’avvocatura comunale hanno deciso in molti casi di

204 In Italia, anche se l’espressione ‘rigenerazione urbana’ è comparsa anche in altre occasioni, il riferimento principale è alla Legge della Regione Puglia n.21 del 2008 (“Norme per la rigenerazione urbana”).

205 Pochi anni fa, in coincidenza con l’ultimo censimento, Legambiente (2011b) stimava circa 245.000 abitazioni inutilizzate a Roma, pari a più di un sesto del totale di 1.151.762 (Istat, 2011).

206 In base ai censimenti Istat, il patrimonio edilizio in Italia è cresciuto dell’82% negli ultimi quarant’anni, passando da 17 milioni di abitazioni nel 1971 a 31 milioni nel 2011, mentre nello stesso periodo la popolazione è aumentata da 54 a 59 milioni di abitanti.

207 In generale, per diversi motivi, le dinamiche economiche degli ultimi anni premiano l’intervento sull’esistente a dispetto della nuova costruzione. In questo senso, sono interessanti i dati riportati analizzati in un rapporto del Cresme (2014), riguardanti il settore delle costruzioni con riferimento al periodo 2006-2013. Negli otto anni considerati la spesa per interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria del patrimonio esistente è cresciuta (+8%), in controtendenza rispetto al crollo degli investimenti in nuove costruzioni (-40%) ed al contesto generale di crisi economica. Un dato su tutti ci restituisce come in Italia il settore delle costruzioni si orienti sempre più sulla riqualificazione dell'esistente: gli interventi citati, al momento della rilevazione dei dati, costituivano i due terzi degli investimenti complessivi nel settore edilizio.

208 Il Piano Regolatore di Roma del 1962-65 era dimensionato per una città di cinque milioni di abitanti. 209 In particolare: Cerulli Irelli, 2003; Salzano, 2003.

riconoscere i cosiddetti ‘diritti edificatori’ pregressi, e ‘compensare’ le scelte di piano con l’edificazione in altre aree ai fini di evitare contenziosi con i proprietari.

Figura 2.10 – La Storta, quartiere in costruzione in prossimità di quello esistente.

Le compensazioni, talvolta, ‘atterrano’ lontano, tra i campi (Fonte: Bing Maps, 2017)

In ogni caso, probabilmente è proprio questa mossa iniziale ad aver determinato il sostanziale slittamento degli obiettivi della politica urbanistica: la centralità della città esistente è diventata anch’essa un espediente retorico, mentre nella capitale avveniva un nuovo enorme ampliamento, in continuità con quelli precedenti. Questa è stata poi la pietra angolare su cui si sono costruiti gli altri meccanismi ‘perequativi’ del piano210, fondati sulla

‘compensazione’ e sullo scambio tra le istituzioni pubbliche, teoricamente votate a perseguire gli interessi della collettività, e attori privati, cioè gli operatori economico- finanziari interessati alle trasformazioni urbane. Proprio la predisposizione di questi meccanismi, peraltro, ha garantito l’esistenza di una copertura culturale per successive proposte che deviavano dall’assetto minimo stabilito dal piano, interessando aree previste come inedificabili211.

210 In base alle Norme Tecniche di Attuazione del Prg (art.17 e successivi), sono previsti: “Ambiti di compensazione”, quali insiemi dei luoghi delle nuove edificazioni di piano, dove far ‘atterrare’ le superfici edificabili; “Contributo straordinario” (quota della valorizzazione immobiliare da destinare al comune); “Compensazioni urbanistiche” (edificazioni del ‘piano delle certezze’ trasferite altrove); “Incentivi per il rinnovo edilizio” (‘incentivi urbanistici’ consistenti in superfici edificabili realizzabili anch’esse negli ‘ambiti di compensazione’); “Cessione compensativa” (modalità alternativa all’espropriazione, con scambio tra aree per destinazioni pubbliche e previsioni edificatorie).

211 Il riferimento è bando per gli ambiti di riserva per il social housing, predisposto dalla giunta Alemanno e riguardante soprattutto le aree agricole (vd. note 161 e 187). Per usare un eufemismo, esso era frutto della

In quei casi in cui si sono avviati i necessari processi di recupero e riqualificazione dell’esistente, pur relazionati allo scambio con il privato disposto a realizzare opere pubbliche in cambio della possibilità di costruire, l’attuazione ha subito i tempi e gli orientamenti del mercato. Questo aspetto è ancor più vero e riscontrabile oggi che la crisi ha affossato la precedente euforia edilizia ed immobiliare, fermando persino i cantieri già in corso. L’osservazione degli effetti di questa dipendenza dalle logiche di mercato, mi spinge verso alcune conclusioni sulla sperimentazione dei ‘programmi complessi’212, i nuovi

strumenti già citati, concepiti per operare sulla città esistente, che il piano utilizza per la sua attuazione. La prima è che emerge la difficoltà di leggere un disegno complessivo, o anche dei disegni parziali riguardanti brani di città, al di là del (teorico) principio che vuole che ogni intervento abbia un suo taglio specifico, e che questo obiettivo possa essere ottenuto in virtù della flessibilità degli strumenti adottati. La seconda, che vale come orientamento, è che gli strumenti meritevoli di essere portati avanti sembrano essere soprattutto quelli di iniziativa pubblica, che hanno innovato realmente la prassi urbanistica e, guidati da una volontà politica, hanno le caratteristiche per garantire una affidabilità nel tempo.

Il nuovo piano regolatore, la gestione urbanistica caratterizzata dalla logica del ‘pianificar facendo’, la predisposizione dei programmi urbanistici complessi e tutte le altre questioni ascrivibili alle politiche urbanistiche, al di là delle continuità e delle discontinuità successive, per circa quindici anni sono state una parte del cosiddetto ‘modello Roma’. Si tratta di una formula onnicomprensiva per descrivere una strategia di governo complessiva della capitale, attuata durante le giunte di centrosinistra:

“Nell’espressione modello Roma sono, nel tempo, confluiti diversi significati e simboli: un modello di sviluppo urbano caratterizzato da un alto consenso, l’aspettativa prodotta dalla nascita dei nuovi Municipi, lo sviluppo delle attività culturali e di spettacolo, la celebrazione di grandi eventi urbani. Ma, soprattutto, questa espressione ha assunto il significato di una ‘nuova forma della politica’ che sembra in grado di riscuotere successi e consensi tali da poter essere esportata in altri contesti nazionali. In un certo senso il

modello Roma è diventato simbolo e sinonimo di: modernismo, innovazione,

cambiamento. Un ‘nuovo corso’ che si annuncerebbe svincolato da una prassi partitica considerata ingombrante, arretrata, incapace di affrontare le sfide dei tempi nuovi.” (Scandurra et al., 2007)

Queste sono le prime righe del libro collettivo Modello Roma. L’ambigua modernità (Scandurra et al., 2007), scritto durante gli ultimi anni del ciclo delle giunte di centrosinistra, che raccoglie una serie di contributi mettendo in luce i tanti lati oscuri: “contraddizioni,

cattiva comprensione del concetto di salvaguardia ambientale, e di un’ottima comprensione del meccanismo di scambio alla base delle compensazioni. Un analogo discorso si potrebbe fare sul tema recente dello stadio della Roma.

212 Per arrivare a conclusioni approfondite, come detto in precedenza, sarebbe utile compiere un’analisi puntuale dei singoli interventi e delle famiglie di strumenti utilizzati, che però non è qui possibile.

lacerazioni, disagi sociali, nuove esclusioni e privazioni”. A dieci anni di distanza, nonostante la storia abbia fatto il suo corso ed il ‘modello Roma’ sia già scomparso dal dibattito pubblico, le tematiche trattate nel libro sono importanti ancora oggi: gli effetti delle grandi migrazioni, i fenomeni di esclusione e le nuove povertà; i processi socio-economici in corso, legati alla globalizzazione neoliberista e non solo213, e le loro ricadute sul mondo del

lavoro, sul tessuto sociale e sull’organizzazione della città; la persistenza della storica questione abitativa, con caratteristiche nuove; le difficoltà quotidiane legate al problema della mobilità; la critica di un’urbanistica subordinata all’economia; l’insufficienza delle politiche adottate rispetto all’esigenza di affrontare l’urgente questione ambientale; il bluff del decentramento e della partecipazione.

Quest’ultima questione, riguardante una partecipazione sbandierata più che realizzata214,

offre l’occasione per tornare sul tema del piano regolatore, muovendo un’ultima critica. In precedenza ho illustrato le falle ‘a valle’ del piano, nell’attuazione, e le questioni problematiche ‘a monte’, indicando una fragilità complessiva dei principi alla base del piano. L’analisi dei diversi aspetti del piano e delle politiche urbanistiche degli ultimi decenni sembra un lavoro inesauribile, perciò quanto fatto in questo capitolo sicuramente presenta lacune e spazi per ulteriori approfondimenti.

La complessità dell’argomento è enorme, ed è proprio da questo che conseguono alcune distorsioni: la discussione sul futuro di una città sfugge ai suoi abitanti, rinchiudendosi nei tecnicismi procedurali, con il loro linguaggio da decifrare e loro numeri, o nella logica di compatibilità politiche e amministrative. Recentemente, il libro Roma disfatta di Francesco Erbani e Vezio De Lucia (2016), ha tentato di ovviare a questa degenerazione, a partire dallo stile di scrittura: i due autori hanno infatti pubblicato un vero e proprio dialogo su Roma che, tenendo conto dei loro diversi percorsi professionali, ha come esito un’analisi al contempo tecnica e divulgativa. Trovo lodevole l’intenzione di riportare ‘a terra’ i discorsi urbanistici, rendendoli comprensibili e dunque ricostruendo un ponte tra la disciplina e le persone. Questo intento va al di là del contenuto specifico, che in questo caso consiste nell’espressione del loro punto di vista sulla vicenda urbanistica romana degli ultimi cinquant’anni, con un severo giudizio nei confronti di quella recente legata alla ‘nuova urbanistica romana’, e nell’evidenziare il ruolo di alcuni progetti nel delineare traiettorie

213

Nei diversi contributi sono affrontate tematiche socio-economiche quali ad esempio il modello di sviluppo della capitale, la precarizzazione del lavoro, l’enorme espansione dei flussi turistici, l’economia militare.

214 Nel suo contributo sul tema, Carlo Cellamare (2007) analizza le numerose ambiguità legate alla ‘partecipazione': il passaggio da un approccio sistematico ad uno episodico, in corrispondenza con l’inizio del mandato di Veltroni; il ruolo marginale della partecipazione rispetto alla costruzione delle politiche complessive, al di là dei singoli episodi positivi; l’utilizzo della partecipazione come meccanismo di ammortizzazione dei conflitti; la riduzione dei processi partecipativi alle attività di informazione (più che altro, pubblicità dell’attività dell’amministrazione), consultazione (ridotta a mero meccanismo procedurale), o al massimo di progettazione partecipata di singoli interventi; l’inefficacia delle deliberazioni di iniziativa popolare; il tentativo di assimilazione delle iniziative dal basso che realizzano esperienze di partecipazione diretta e conflitto; l’incompletezza del processo di decentramento istituzionale.

d’uscita dalla situazione odierna. La (apparente) ‘semplificazione’ del discorso non serve certo a negare la complessità delle questioni. Essa contribuisce a colmare la distanza abissale tra il dibattito ‘tecnico’ e l’esperienza della gran parte degli abitanti della capitale, che negli ultimi decenni hanno visto sorgere cantieri a non finire, e possono constatare le conseguenze di ciò sulla loro qualità della vita. Gli autori sembrano, così, voler allargare il più possibile il dibattito, rispondendo ad un’esigenza non sempre condivisa da tutti215.

In definitiva, infatti, si può parlare di un’autoreferenzialità, se non addirittura di una deriva tecnocratica, che emerge dalla distanza tra le logiche dei pianificatori e quelle degli abitanti, e non solo. È difficile che strumenti complessi, predisposti per affrontare una realtà altrettanto complessa, siano comprensibili da chi vi si interfaccia senza conoscere il processo con cui sono stati costruiti. La mancanza di una cinghia di trasmissione fa sì che anche per gli altri tecnici – geometri, architetti, ingegneri – sia difficile la comprensione delle logiche sottese al piano: il loro operato rischia così di tradursi in un’immersione controvoglia tra elaborati prescrittivi e gestionali, norme tecniche, indici, delibere, regolamenti e leggi, in modo di poter compilare i documenti necessari a realizzare progetti. L’idea che gli interventi diretti abbiano un legame con l’attuazione dei principi del piano e, più in generale, con la costruzione della città futura che esso propone, è molto distante. Con le parole di Insolera (2011): “anche l’urbanistica è scomparsa, sepolta sotto metri cubi di pratiche”.

Il nodo delle centralità: dalla retorica della riqualificazione all’impatto

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