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Una città è in grado di dare qualcosa a tutti solo perché è stata costruita da tutti. E così dovrebbe essere anche per il futuro: architetti e urbanisti possono dare un contributo essenziale, ma anche più vitale è quello del cittadino. Dopo tutto, è la sua città. Il suo ruolo non è semplicemente quello di accettare i progetti degli altri, ma di mettere direttamente le mani in pasta.

(Jacobs, 1958)

Nel capitolo precedente ho analizzato alcune ipotesi interpretative della realtà odierna, letture di fenomeni conseguenti all’affermazione e al dispiegamento di un modello di sviluppo che tende ad un’’urbanizzazione planetaria’ (Brenner, 2016a; Lefebvre, 1973), senza esterno e senza fine. Ho inoltre tratteggiato delle traiettorie alternative, possibilità centrate sulla ‘ricostruzione del territorio’ (Magnaghi, 2010), riconoscendone i germi nelle numerose pratiche ‘dal basso’ diffuse nella realtà romana. Si tratta di ipotesi di riconnessione tra abitanti e luoghi, materializzazioni di quelle che ho voluto chiamare ‘città immaginate’.

In un’ottica di esercizio pieno, da parte delle persone, del loro ruolo di abitanti, attraverso la riappropriazione e la trasformazione dei propri ambienti di vita, può l’area metropolitana romana costituirsi come un arcipelago, fatto di tanti quartieri e città differenti tra loro, capaci di porsi in una reciproca interazione? Forse succede già, parzialmente e in maniera poco visibile, e forse è proprio per questo che altri in passato hanno già posto domande simili. Una risposta recente e rilevante è stata quella dell’ultimo piano regolatore, preceduto e accompagnato da una marcata enfasi sulla visione di un assetto policentrico.

In questo capitolo voglio analizzare questa risposta istituzionale: provare a comprendere la logica del nuovo piano, e più in generale dell’urbanistica romana recente; analizzarne l’efficacia attuativa, confrontando a posteriori le intenzioni e i risultati parziali; individuare le problematiche, i paradossi, le correlazioni con aspetti esterni al campo disciplinare. Per far ciò, mi servirò di una letteratura variegata, ed in particolare alcuni dei testi pubblicati sul tema, a partire dalla documentazione ufficiale relativa alla costruzione del piano. Saranno importanti, poi, le ‘voci’ degli autori organici a questo processo (Tocci, 1993; 2009; Cecchini, 1996; Marcelloni, 2003) e, ancor di più, le riflessioni critiche pubblicate nel corso degli anni (Archibugi, 2002; Berdini, 2000; 2008; Berdini & Nalbone, 2011; Scandurra et al, 2007; Insolera, 2011; Moini & D’Albergo, 2015; Cellamare, 2016a; De Lucia & Erbani, 2016).

La conclusione che emerge è che, pur proclamando il ‘policentrismo’, le politiche portate avanti nel tempo, e le stesse linee direttrici del piano, hanno spinto nella direzione opposta, rendendo peraltro possibile un’ulteriore gigantesca espansione del territorio urbanizzato, contribuendo – in particolare, attraverso la diffusa realizzazione di centri commerciali – alle dinamiche, già in atto, di distruzione del tessuto sociale esistente.

Perché questa analisi del piano? Ritengo che, come detto nel capitolo precedente, anche ponendo come questione centrale quella della scala locale e del ruolo degli abitanti, sia sempre necessario analizzare il livello d’intervento di chi governa (pretende di governare?), poiché agisce sugli stessi luoghi su cui insistono le pratiche ‘dal basso’. Innanzitutto, attraverso la conoscenza è possibile operare disvelamenti, evidenziare le contraddizioni, decostruire le retoriche. Inoltre, si possono individuare dei punti su cui ‘fare leva’, possibilità che superano la demarcazione netta fra politiche e pratiche ‘dal basso’ e ‘dall’alto’.

L’espressione presente nel titolo di questo capitolo, ‘rovesciare il piano’, sta a significare proprio questo. Il tentativo che farò in conclusione, infatti, è quello di individuare delle tensioni verso le possibilità alternative latenti, a partire dal precedente approfondimento critico. Cercherò di rintracciare alcuni di questi indizi, senza la pretesa di costituire un modello complessivo, utili a orientare la pianificazione verso ipotesi di ‘produzione e gestione sociale del piano’. L’attenzione, dunque, sarà data in particolare a proposte e suggestioni focalizzate sul ruolo locale delle ‘centralità’, sulla riconnessione tra abitanti e luoghi e sulle iniziative di autogoverno.

Penso che questa analisi del contesto sia necessaria per l’economia della tesi, proprio in virtù delle caratteristiche proprie del caso-studio analizzato, la fabbrica Snia Viscosa al Pigneto- Prenestino. Il processo di riappropriazione e restituzione all’uso pubblico dell’area dismessa in questione, come illustrerò nei prossimi capitoli, è stato contraddistinto da una forte azione ‘dal basso’, in cui individui e associazioni si sono relazionati in maniera significativa ed efficace proprio con rappresentanti e politiche istituzionali, senza mai smettere di portare avanti i loro percorsi autonomamente. Questa interazione è avvenuta in un tempo lungo, ultradecennale, ha riguardato un enorme numero di attori ed è stata di volta in volta collaborativa o conflittuale. Lentamente e un passo alla volta, come illustrerò in seguito, la battaglia per la restituzione all’uso pubblico dell’area ha condotto a un esito chiaro: il soddisfacimento delle esigenze espresse dalla popolazione, con la progressiva – e ancora in divenire – realizzazione di una nuova centralità locale, a partire proprio dal legame degli abitanti con questo luogo e del loro protagonismo nella gestione dello stesso.

Nell’analisi delle politiche urbanistiche portate avanti a livello istituzionale nel frattempo, in ragione dei propositi fin qui delineati, mi concentrerò in particolare sul supposto ‘policentrismo’, senza però tralasciare completamente le altre questioni. Al di là delle semplificazioni, infatti, il nuovo Piano Regolatore Generale di Roma è uno strumento che possiede tante sfaccettature, è frutto di un processo di elaborazione decennale, con una sua storia ancor più lunga alle spalle, e nonostante i recenti mutamenti (socioeconomici, politici, istituzionali)111 continua tutt’ora a definire il tracciato regolatore e le norme specifiche della

trasformazione urbana della capitale.

In primo luogo è necessario farsi un’idea complessiva del nuovo piano, che comprenda i passaggi che hanno portato alla sua adozione (2003) e approvazione (2008), e quelli che l’hanno seguito, per poterne poi metterne in crisi alcuni aspetti e conservarne altri. È d’obbligo una premessa: le questioni da approfondire sono molte e lo spazio a disposizione non è certo sufficiente per trattarle esaurientemente, poiché alcune di esse costituiscono veri e propri temi di ricerca a sé stanti.

Questa complessità si avverte già cercando di comprendere la genesi del piano, partendo dalle condizioni (economiche, sociali, politiche, culturali)112 alla base di quella che i

111 Ci si riferisce: alla crisi economico-finanziaria globale; alla rottura dello schema del bipolarismo centrodestra-centrosinistra della cosiddetta ‘seconda Repubblica’, con l’emergere a livello nazionale di un nuovo partito politico, il Movimento Cinque Stelle, largamente vittorioso alle elezioni comunali di Roma del giugno 2016; al processo di istituzione delle Città metropolitane, giunto dopo quasi trent’anni ad un esito istituzionale concreto (vedi note 152 e 153).

112 Tra le questioni che sono correlabili con l’azione urbanistica del primo governo cittadino di centrosinistra successivo alla scomparsa del Partito Comunista Italiano vi sono avvenimenti di enorme portata quali quelli correlati al passaggio nei paesi occidentali da un’economia basata sull’industria ad una basata sui servizi avanzati e sulla conoscenza, l’affermarsi della globalizzazione neoliberale, la caduta del muro di Berlino e del blocco sovietico. A livello locale, lo spegnersi dei grandi movimenti politici e sociali che avevano animato il paese negli anni ’60-’70, e la dissoluzione del sistema di partiti della prima Repubblica a partire dall’inchiesta Tangentopoli.

protagonisti hanno definito la ‘ricostruzione’ della disciplina urbanistica a Roma113. Era

l’inizio degli anni Novanta, il momento in cui si verificò una convergenza di idee verso la necessità di dare alla città un nuovo tracciato di sviluppo che avrebbe sostituito quello elaborato a partire dal dopoguerra ed approvato nel 1965, soggetto nel corso di quarant’anni ad un buon numero di varianti.

Sono cambiate molte cose dagli anni Sessanta. La gran parte del territorio di quella che era la ‘città’ di Roma fatica sempre più ad essere riconosciuto in quanto tale, per la sua forma storica, alla luce del crescere disordinato lungo le direttrici radiali di un’urbanizzazione fatta di frammenti, spesso autoreferenziali e poco connessi gli uni con gli altri, difficilmente identificabili per un particolare rapporto col genius loci.

Il territorio romano, e la città nel suo complesso, faticano ad essere conosciuti e riconosciuti in primis dai loro abitanti o, meglio (sic), residenti. Nell’introduzione all’ultima edizione di

Roma moderna, Italo Insolera e Paolo Berdini si soffermano sul ruolo fondamentale che la

cultura potrebbe avere nell’immaginare una città migliore, evidenziano il rapporto tra questa e la conoscenza, e pongono una serie di interrogativi, arrivando a delle conclusioni riguardanti la realtà sociale, politica e culturale della capitale:

“[…] Quanti sono i suoi abitanti che, un’occasione dopo l’altra, l’hanno percorsa tutta?

Quanti sono gli abitanti della periferia che sono stati almeno una volta in centro? E viceversa? Quanti hanno una conoscenza del rapporto tra il quartiere dove abitano, la zona dove lavorano e il resto della città?

Ignoriamo Roma, la vita delle persone che vi abitano, il rapporto di queste con l’ambiente. Ignorano Roma i romani e ignorano quindi se stessi come gruppo sociale. Questa ignoranza condiziona anche la posizione di ogni individuo e genera quella esasperazione dell’individualismo che sembra essere a Roma l’unico modo di sentirsi presenti e riconoscersi esistenti. […]” (Insolera, 2011)

È naturale porsi anche altre domande, ed in particolare una: è questo un fenomeno che riguarda solo Roma? È la domanda alla base del capitolo precedente e, come in quella sede, anche qui emerge un nodo problematico, seppur implicito: quello della conoscenza, della necessaria riproduzione o ricostruzione di una specifica ‘coscienza di luogo’ (Magnaghi, 2010). La scomparsa della città tradizionalmente intesa è un fenomeno globale, come abbiamo visto, connesso alle caratteristiche dell’urbanizzazione contemporanea. Per quanto riguarda la capitale, una serie di processi differenti – dinamiche di crescita diffusa, rapporto con i comuni circostanti, diversità delle sue parti, importanza dei flussi materiali e

113 L’assessore alle politiche del territorio delle due giunte Rutelli (1993-2001), Domenico Cecchini, comunica sin da subito come la prospettiva politica del nuovo corso del centrosinistra contenga “l’ambizione di restituire rilievo civile e dignità morale ad una disciplina del cui rinnovamento si sentiva bisogno da tempo che invece è stata avvilita, negli anni della cosiddetta deregulation, dell'illegalità direi io, ricordando il condono edilizio dell'85 e quello che abbiamo dovuto subire sotto il governo Berlusconi” (Cecchini, 1996).

immateriali – rendono molto difficile, se non impossibile, offrirne un quadro di insieme. È utile allora guardare al contesto romano odierno come sistema metropolitano emergente o, come in una proposta di definizione contenuta in una recente ricerca114, ‘post-metropolitano’,

piuttosto che nei termini classici della città.

Secondo i loro estensori, gli atti urbanistici avviati a metà anni Novanta, che hanno portato al licenziamento del nuovo Piano Regolatore Generale, sono stati sempre concepiti proprio nell’ottica del passaggio alla scala metropolitana. A livello di discorso pubblico, quanto fatto dalle giunte di centrosinistra era finalizzato a costruire e mettere in pratica una strategia urbanistica, una nuova prospettiva adeguata ai tempi per la capitale, ‘rimettendo in ordine’ un’urbanizzazione cresciuta disordinatamente e frammentariamente. Roma era concepita, secondo la classica analogia ‘medica’ della cura, come un sistema di cui correggere il funzionamento, così da renderla più vivibile nelle sue parti e nelle relazioni tra le stesse. In fin dei conti, la vera sfida era quella di attrezzare la capitale per la competizione globale.

Le cosiddette ‘migliori intenzioni’: la narrazione ufficiale del

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