Le linee di ricerca (‘vertigini interpretative’) tratteggiate hanno messo in evidenza che a livello planetario la città come oggetto discreto, delimitato, dunque nella sua accezione storica, non esista più. Ancora meglio, hanno messo in luce, da diversi punti di vista, quanto abbia poco senso riferirsi con questo termine alle tante e variegate espressioni odierne dell’urbano. La dissoluzione della città veniva colta da Henri Lefebvre che, alcuni anni prima di ipotizzare la ‘rivoluzione urbana’, indicava nello Stato e nell’impresa le forze artefici della sua progressiva distruzione. Per contrastarla, Lefebvre (2012 [1968]) allo stesso tempo apriva una prospettiva: il ‘diritto alla città’.
L’espressione ‘diritto alla città’ ha un suo respiro, un’anima, anche quando rischia di essere un ‘significante vuoto’: perfino se indefinita, espressa come semplice slogan, catalizza quelli che il suo stesso autore, in altre occasioni, definisce ‘significati galleggianti’. Ammetto di provare, proprio per questa ragione, una naturale empatia per tale formula. È un riflesso naturale quello di includerla tra le rivendicazioni di tante battaglie portate avanti dai
61 “[…] Si può affermare che ogni scienza particolare, più spinge la sua analisi, più mette in evidenza un residuo. Questo residuo le sfugge. Esso si rivela essenziale; pertiene ad altri metodi. […] Il problema resta: come passare dai saperi frammentari alla conoscenza totale? Come definire questa esigenza di totalità?” (Lefebvre, 1973). 62
”[…] Senza i passi progressivi e regressivi (nel tempo e nello spazio) dell’analisi, senza questi molteplici ritagli e frammentazioni, è impossibile concepire la scienza del fenomeno urbano. Ma i frammenti non costituiscono una conoscenza. Ogni scoperta in queste scienze parcellari permette un’analisi nuova del fenomeno totale” (Lefebvre, 1973).
63 Proseguendo la citazione della nota procedente: ”Si può anche supporre che la complessità del fenomeno urbano non è quella di un ‘oggetto’. […] L’oggetto si dà o viene dato come reale, prima e per lo studio. […] Sarebbe concepibile che la conoscenza del fenomeno urbano, o dello spazio urbano, consista in una collezione di oggetti […]? No. […] volontà semplificatrice che nasconde […] una strategia di frammentazione, che mira alla proclamazione di un Modello unitario e sintetico, dunque autoritario” (Lefebvre, 1973). Più avanti, l’autore conclude: “Un solo punto è acquisito: è impossibile riunire gli specialisti (delle scienze parcellari) intorno ad un tavolo sul quale viene posto un ‘oggetto’ da conoscere o da costruire” (Lefebvre, 1973).
64 “[…] Che fare? Avanziamo fin d’ora, per poi ritornarci, la nozione di strategia urbana. Questo implica delle distinzioni tra pratica politica e pratica sociale, tra pratica quotidiana e pratica rivoluzionaria, altrimenti detto una struttura della prassi” (Lefebvre, 1973).
movimenti sociali e politici, anche in casi in cui la sua presenza è stata esclusivamente implicita65, non dichiarata.
Margit Mayer (2012) evidenzia le radici dell'emergere, tanto nei movimenti quanto in contesti più istituzionali, della rivendicazione del 'diritto alla città'. Tratta infatti le grandi tendenze socio-economiche degli ultimi quarant'anni nei paesi occidentali, mettendo in luce le traiettorie dei movimenti sociali urbani di resistenza: a partire dagli anni Settanta, con la centralità dei conflitti riguardanti la sfera riproduttiva (servizi sociali, partecipazione alle decisioni) come reazione alla crisi del fordismo, passando poi per le diverse fasi nelle quali si afferma l'ideologia e la pratica neoliberista, cui corrisponde un ritorno delle lotte sociali su temi classici (disoccupazione e povertà) e una successiva frammentazione tra gruppi emarginati e organizzazioni coinvolte in strategie di rigenerazione urbana (in ogni caso legate alla cornice dominante di crescita economica e competitività). A valle delle ultime evoluzioni di questi processi, e in maniera ovviamente complessa e non linearmente causale, secondo l'autrice la questione emerge in due modalità opposte. Da un lato come appropriazione diretta e creazione del 'diritto alla città' da parte degli abitanti, dunque in termini lefebvriani. Dall'altro, come formalizzazione di specifici 'diritti alla città' all'interno di documenti istituzionali a differenti scale (dal locale al globale), con una evidente depoliticizzazione e un rischio di svolgere una funzione ancillare all'ideologia dominante. Oltre a mettere in fila le occasioni in cui emergono tali parole d'ordine66, Mayer riflette sulle
connessioni possibili fra le lotte in corso all'interno delle metropoli dei paesi ricchi, e fra queste e quelle nel Sud del mondo.
65 Cito qui, a titolo di esempio, alcuni episodi significativi inseriti in una trama più ampia e ricca, quella della storia dell’Italia repubblicana: lo sciopero generale per la casa e per l’urbanistica nell’autunno del 1969; le rivolte del sottoproletariato urbano nel 1977; la diffusa occupazione (riappropriazione, ‘liberazione’), temporanea o permanente, di spazi lasciati all’abbandono, a partire dai primi anni Novanta. Essi fanno parte di una costellazione di eventi, sono inseriti in un contesto da cogliere nelle sue relazioni con trasformazioni più ampie, difficilmente riducibili ai confini nazionali. Negli ultimi cinquant’anni si può rintracciare infatti una continuità, con i relativi salti e punti di rottura, nei movimenti politici e sociali della penisola: dallo straordinario ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta, alla repressione e al ‘riflusso’ nel decennio successivo, fino all’emergere dirompente della galassia dei centri sociali occupati e autogestiti, che ha condotto alle contestazioni globali a cavallo del millennio (il ‘movimento dei movimenti’, cosiddetto noglobal, e le manifestazioni contro la guerra). La forza delle (auto)rappresentazioni fornite da queste stesse lotte è tale da permettere agevolmente, senza troppi rischi, questa operazione di attribuzione di significato (o, più semplicemente, di rappresentazione dall’esterno e a posteriori).
66
Figura 1.8 – Reclaim the Streets67, festa sull’autostrada M41, Londra 13 luglio 1996 (foto © Nick Cobbling). “Il concetto di riunirsi in strada è in netto contrasto con il modo in cui la nostra cultura tende a immaginare la libertà
[…], libertà significa di solito abbandonare la dimensione claustrofobica della città. […] Rts [Reclaim the Streets], al contrario, non cancella la città o il presente ma imbriglia il desiderio di divertimento (e il suo lato oscuro, ovvero il desiderio di follie e tumulti) e lo incanala in un atto di disobbedienza civile che è nel contempo una festa. Per un giorno il
desiderio di spazi liberi non si identifica con la fuga, ma con la trasformazione della città e del presente” (Klein, 2000).
Le esperienze di costruzione e gestione dal basso degli spazi pubblici e comuni sono sempre esistite nella storia della città, costituendone forse lo stesso fondamento. L’emergere dello stato, con la sua pretesa di ergersi al di sopra della società68 (in questo caso, degli abitanti dei
67 Dal celebre No Logo di Naomi Klein (2000): “[…] i legislatori britannici, con il Criminal Justice Act del 1994, stabilirono in sostanza che i rave erano illegali. […] Dall'incontro-scontro culturale di dee-jay, attivisti antiaziendali, artisti politici e New Age ed ecologisti radicali è nato quello che può a ben ragione essere definito come il più vivace e rigoglioso movimento politico dopo quello di Parigi del 1968, il movimento noto come Reclaim the Streets (Rts) – Riprendiamo le strade. Dal 1995, Rts ha occupato strade trafficate, incroci chiave e perfino tratti autostradali mediante raduni volontari. In pochi attimi, una folla di partecipanti apparentemente casuali trasformano un'arteria stradale in un surreale box per bambini. […] Quando il traffico è fermo, la carreggiata viene dichiarata ‘Strada finalmente libera’. […] Gli organizzatori descrivono questi furti stradali come qualcosa che va dalla realizzazione di un ‘sogno collettivo ad occhi aperti’ a un ‘incontro casuale su vasta scala’”; “[…] l'impresa più teatrale di Rts è stato il raduno di 10.000 partecipanti sull'autostrada londinese a sei corsie M41. In quest'occasione, due persone vestite con sofisticati costumi carnevaleschi se ne stavano sedute su impalcature alte circa nove metri ricoperte con enormi gonne di crinolina. I poliziotti presenti non immaginavano neppure che sotto le gonne fossero all'opera ‘eco-guerriglieri’ che muniti di martelli pneumatici foravano la pavimentazione stradale e piantavano alberelli nell'asfalto”.
68 Il ‘mondo alla rovescia’, già descritto da Marx, che la ‘rivoluzione urbana’ si propone di ribaltare, consiste in “una società: a. in cui l’intermediario soppianta il produttore (lavoratore) e il creatore (artista, inventore, produttore di conoscenze e di idee), in cui egli può arricchirsi alle loro spese […]; b. in cui lo stato […] rinforza lo sfruttamento dell’insieme della società, si erige al di sopra di essa ed afferma di essere l’essenziale della vita sociale e la sua struttura, mentre non è che un accidente (una sovrastruttura); c. in cui la burocrazia può acquistare interessi propri e i mezzi per servirli […]; d. in cui di conseguenza l’effetto passa per causa, dove il fine diventa mezzo e il mezzo fine” (Lefebvre, 1973).
singoli luoghi) piuttosto che esserne uno strumento, ha portato la popolazione a porre le proprie istanze sempre più in maniera rivendicativa, di pari passo con l’aumento della delega alle istituzioni. In controtendenza, negli ultimi decenni, all’interno dei movimenti dal basso si diffondono pratiche e pensieri che mirano a costruire ambiti di autonomia e autogestione: da semplici mezzi, questi si affermano come finalità coscienti, proiettandosi sul territorio.
L'emergere recente, in diverse aree urbane del pianeta, di movimenti legati implicitamente69
o esplicitamente70 alla questione del ‘diritto alla città’, evidenzia un terreno di unione tra le
tante esperienze diffuse in maniera molecolare (‘germi di autogestione’), le lotte contro la nocività che negli ambiti urbani prendono sempre più piede e le parallele battaglie per la salvaguardia dei residui del welfare urbano, minacciate a tutti i livelli da governi ancora intrisi dall’ideologia neoliberista71. La forza e l’attualità di questa rivendicazione, a dispetto
69 Limitando la visuale a Europa e Nordamerica, nel 2011 il movimento spagnolo 15M, variegato e di massa, affianca l’azione diretta di riappropriazione di spazi pubblici ed immobili, agli esperimenti di ‘democrazia radicale’ e alle questioni socio-economiche più ampie (l’impatto del capitalismo finanziario, la sua crisi, e le responsabilità del sistema politico spagnolo). Lo stesso farà, nello stesso periodo, il movimento Occupy, che prenderà piede negli Stati Uniti e avrà una maggiore risonanza internazionale. Entrambi terranno insieme le differenti articolazioni specifiche locali con un coordinamento a scala maggiore (nazionale).
70 La coalizione di numerose organizzazioni statunitensi sorte negli ultimi decenni in un'ottica di ricomposizione della classe operaia (New Working Class Organizations), genera nel 2007 la 'Right to the City Alliance'. "Le richieste politiche delle 40 organizzazioni che ora sono membri della RTTC Alliance sono concentrate sulla riproduzione sociale, ovvero, sulle necessità e i desideri collettivi associati con il sostentamento e la crescita dei lavoratori. Molte delle nostre lotte sono per preservare ed espandere l’appoggio collettivo (sociale) per la riproduzione sociale. Questo include le lotte per l’edilizia pubblica ed accessibile, scuole efficaci così come una serie di salari sociali come i sussidi familiari e l’accesso allo spazio pubblico e ricreativo" (traduzione mia, dal testo originale in lingua inglese: "The political demands of the 40 organizations that are now members of the RTTC Alliance are centered around social reproduction, that is, around collective needs and wants associated with sustaining and raising working people. Many of our struggles are to preserve and expand collective (societal) support for social reproduction. This includes fights for affordable public housing, high-performing schools as well as a range of social wages such as childcare subsidies and access to public and recreational space"; Liss, 2011).
71 Nella città di Roma, questa convergenza si rivelerà, in particolare, con la grande manifestazione “Roma non si vende” del 19 marzo 2016, in risposta alle politiche del commissario straordinario governativo, Francesco Tronca, nominato in seguito alla caduta della giunta di centrosinistra del sindaco Marino. In particolare, ne venivano contestati i provvedimenti lontani dall’esercizio di una semplice amministrazione transitoria. Da un lato, la giunta commissariale aveva minacciato una campagna di sgomberi di esperienze sociali, culturali e associative, in base ad un provvedimento dell’amministrazione precedente (la delibera 140 del 2015) e nell’ottica di una ‘valorizzazione’ economico-finanziaria del patrimonio immobiliare comunale. Dall’altro, era stato approvato un documento di programmazione per il triennio successivo (2016-2018) all’interno del quale si prospettavano tagli ai servizi pubblici, in particolare con la chiusura di numerosi asili comunali. Queste due politiche, d’altro canto, si ricollegavano alle politiche di austerità promosse a livello europeo, e ad una più longeva tendenza neoliberista di dismissione e/o privatizzazione del patrimonio e dei servizi pubblici. La manifestazione, che riuscì ad ottenere (informalmente) il blocco degli sgomberi, portò in piazza più di 10.000 persone. La sua preparazione fu caratterizzata dalla convergenza di tante organizzazioni differenti, fra le quali, con un ruolo decisivo, la ‘Rete per il diritto alla città’, denominazione sotto la quale dal 2014 si raccoglievano alcune componenti dei movimenti sociali romani.
dei cambiamenti intercorsi nei cinquant’anni passati dalla sua formulazione originaria, è proprio questa: la capacità di riunire e dare spazio alle diversità, nella dimensione futura e possibile, analogamente a quanto fatto, in quella storica e concreta, dalla ‘città’ stessa.
Figura 1.9 – L’acampada di Puerta del Sol, Madrid, maggio 2011 (foto © Mikel Prádanos)
“La città si colloca tra le due dimensioni, a metà tra ciò che chiamiamo ordine prossimo (relazioni degli individui in gruppi più o meno vasti, più o meno strutturati, e relazioni tra questi gruppi) e
ordine remoto, quello della società, regolato da grandi e potenti istituzioni (Chiesa, Stato) per mezzo di un
codice giuridico più o meno formalizzato, di una “cultura” e di un insieme di significati.” (Lefebvre, 2012)
Nella definizione di Henri Lefevbre (2012 [1968]), il ‘diritto alla città’ è visto come un'espressione molteplice:
“Il diritto alla città si presenta come forma superiore dei diritti, come diritto alla libertà,
all'individualizzazione nella socializzazione, all'habitat e all'abitare. Il diritto all'opera (all'attività partecipante) e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto di proprietà) sono impliciti nel diritto alla città.”
Tra gli autori che hanno recentemente ripreso in mano tale concetto, Peter Marcuse spiega questa molteplicità a partire dai diritti reclamati da un'alleanza di soggetti: “il diritto all’acqua pulita, all’aria pulita, all’alloggio, a condizioni igienico-sanitarie decenti, mobilità, educazione, assistenza sanitaria, partecipazione democratica alle decisioni, ecc. – le necessità per una vita dignitosa. […] Ma questa risposta non è sufficiente. […] il diritto alla città è un diritto unitario, un solo diritto che pretende una città in cui sono impiantati tutti i diritti
separati e individuali così spesso citati nelle carte e nelle agende e nelle piattaforme. È Il diritto alla città, non i diritti alla città”72.
David Harvey (2013) suggerisce questa convergenza con una frase decisamente evocativa, che mette in luce, come aspetto più importante, la decisione sulle sorti del proprio ambiente di vita: “il diritto a cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze”.
Figura 1.10 – Il ‘diritto alla città’ al CSOA Forte Prenestino per ‘Babel2 – Abitare critico’ (Roma, 2012).
“Volevamo un altro ruolo nella politica culturale della città e ogni primo maggio risalivamo via Federico Delpino verso la Festa del Non Lavoro cercando un parco dove sentirci liberi, un luogo dove essere comunità e la comunità si doveva vedere in ogni gesto: aperta, inclusiva, solidale, capace di governare un territorio,
di combattere le speculazioni e migliorare la vita” (Militant A, 2016)
Le pratiche e le teorie alle quali abbiamo accennato, influenzano le mobilitazioni e confluiscono nel dibattito interno ai movimenti sociali e per osmosi, in assenza di una separazione netta, in quello scientifico73. Il ‘diritto alla città’ si insinua perfino nel dibattito
culturale mainstream e in quello istituzionale, anche qui in maniera implicita74 o esplicita75. In
72Traduzione mia, dall’originale in lingua inglese: “[…] the right to clean water, clean air, housing, decent sanitation, mobility, education, health care, democratic participation in decision making, etc. - the necessities for a decent life. […] But that answer in not enough. […] the right to the city is a unitary right, a single right that makes claim to a city in which all of the separate and individual rights so often cited in charters and agendas and platforms are implanted. It is The right to the city, not rights to the city” (Marcuse, 2011).
73 In particolare, oltre ai numerosi articoli e monografie, si segnala il volume collettivo Cities for people, not for
profit: Critical Urban Theory and the Right to the City (Brenner, Marcuse & Mayer, 2011).
74 Ne sono un esempio, in Italia, la nascita nel 2011 della Biennale dello Spazio Pubblico, promossa dall’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) in collaborazione con altre istituzioni (locali, nazionali e internazionali), e la scelta, per la 13a Biennale di Architettura di Venezia (2012) curata dall’architetto inglese David Chipperfield, dal tema Common Ground.
ogni caso, aldilà della sua diffusione e del dibattito più recente, è interessante attingere allo scritto originale di Lefebvre (2012 [1968]), una vera e propria miniera di riflessioni che appaiono tutto fuorché datate.
Un primo tema su cui l’autore torna più volte, mettendo in luce la sua appartenenza alla tradizione marxista, è quello della distinzione tra valore d'uso e valore di scambio, evidenziando l'importanza del primo76. Egli lega infatti il valore d'uso al concetto di opera e
di creazione, mentre associa il valore di scambio al prodotto, la merce inserita in un circuito di valorizzazione. A dispetto della razionalità economicista e produttivista77, afferma che
l’urbano si fonda sul valore d’uso, trovandone le tracce passate e le prospettive future78,
precorrendo così la tematica principale del suo scritto successivo: la ‘società urbana’.
Altra tematica importante è quella dell’abitare, che Lefebvre (2012) definisce così: “‘abitare’ significava partecipare alla vita sociale, fare parte di una comunità, di una città o di un villaggio. Tra le altre cose, la vita urbana possedeva proprio questa qualità, questo attributo. Si prestava all'abitare, permetteva ai ‘cittadini’ di abitare”.
Egli usa il passato, in quanto mette a fuoco la crisi della città come effetto di una strategia di riorganizzazione più generale, relazionandola alla parcellizzazione delle diverse funzioni urbane: si perde il significato d'insieme dell'abitare, come complesso di differenti attività sociali, a favore del concetto di habitat, come funzione a sé stante.
Questa contrapposizione tra ‘abitare’ e ‘habitat’, porta l’autore a una critica più ampia riguardante la razionalità moderna ‘organizzatrice’79, e la sua applicazione all’interno
75 Ad esempio, il concetto di ‘diritto alla città’ ha trovato ospitalità nel contesto di UN-Habitat (programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti urbani), nell’agenda urbana emersa dal suo terzo congresso svoltosi a Quito, (Ecuador) nel 2016, e in altre iniziative collaterali allo stesso.
76
All’inizio del libro, a proposito dell'ascesa del capitalismo industriale e del legame tra industrializzazione ed urbanizzazione, l'autore introduce una tesi fondamentale: “[…] la città e la realtà urbana dipendono dal valore d'uso. Il valore di scambio e la generalizzazione della merce prodotta dall'industrializzazione tendono a distruggere, subordinandole a sé, la città e la realtà urbana […]” (Lefebvre, 2012).
77
“[…] Il mondo della merce ha la sua logica immanente, quella del denaro, del valore di scambio generalizzato e illimitato. Una simile forma […] è indifferente alla forma urbana […]. La società urbana […] manifesta una logica diversa da quella del mercato. È un altro mondo. L'urbano si fonda sul valore d'uso. Il conflitto non può essere evitato” (Lefebvre, 2012).
78
Lefebvre (2012) fa riferimento alla città del passato ed agli investimenti improduttivi che le classi dominanti vi operavano. Guardando al futuro, afferma: “[…] Se vogliamo superare il mercato, la legge del valore di scambio, il denaro e il profitto non è forse necessario definire il luogo di possibilità di tale superamento: la società urbana, la città come valore d'uso?”.
79
Si tratta di un tema dalla portata enorme, rispetto al quale si esplorano a seguire, senza alcuna pretesa di esaustività, due letture ritenute significative. Sulle radici epistemologiche di tale razionalità, si sofferma Lidia Decandia (2000): il testo individua nel passaggio alla modernità un punto di rottura nel modo, da parte di comunità ed individui, di esperire tempi e luoghi, che si riflette nella pratica della costruzione e dell'organizzazione dello spazio urbano e nella relazione tra questo ed il suo ambiente naturale. Leonie Sandercock (2004), nel suo libro Verso Cosmopolis, dedica grande spazio alla critica al paradigma in questione (analizzando le teorie di pianificazione che nel tempo si sono scostate da quello che definisce il modello razionale comprensivo), ed alle sue radici epistemologiche illuministe (raccogliendo critiche femministe,
dell’urbanistica del Movimento Moderno80. Quest’ultima tende infatti a operare separazioni,
le quali hanno delle conseguenze: la parcellizzazione delle funzioni urbane81 si traduce, a
livello sociale, nella segregazione, il cui caso limite (il ‘ghetto’82) è solo l’apice di una
tendenza in atto e molto diffusa. Egli ne cerca le cause e, con i dovuti distinguo83, le trova
nelle spinte contemporanee provenienti dall'alto (lo Stato) e dal basso (l'impresa)84. Di
conseguenza, come detto in apertura del paragrafo, identifica in queste due forze, convergenti nella direzione della segregazione, le ragioni della crisi della città.
La crisi in questione riguarda le istituzioni della città, la sua giurisdizione e l'amministrazione urbana, non esclusivamente le forme. Nella visione dell'autore, la città è