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Paradossi: se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi? Ho brevemente illustrato come la strategia prettamente urbanistica, elaborata durante le

giunte di centrosinistra (Rutelli-Cecchini e poi Veltroni-Morassut), si sia persa per strada nella fase successiva, salvo una breve parentesi (giunta Marino-Caudo). Allo stesso tempo, però, allargando lo sguardo si riconosce negli ultimi venticinque anni una continuità sostanziale (il ‘regime dell’Urbe’). Ci sono poi degli aspetti fortemente paradossali che possono essere evidenziati: è piuttosto ironico notare come alcune critiche odierne siano simili a quelle che venivano espresse nei confronti delle strategie precedenti. È il caso di alcuni contenuti di Roma, che ne facciamo, saggio firmato da uno degli esponenti della futura classe dirigente romana, Walter Tocci (1993), agli albori della nuova stagione delle giunte di centrosinistra.

In primo luogo, l’avventato compromesso con i portatori di interessi legati alla rendita fondiaria ed immobiliare. È significativo citare le parole con cui Tocci propone il ricorso all’esproprio preventivo, e alla successiva vendita dei lotti edificabili, mettendolo poi a confronto con il pensiero di altri protagonisti. Un esercizio da fare tenendo a mente da un lato la dialettica interna alla maggioranza di governo, e dall’altro il fatto che lo stesso autore,

in un suo saggio sulla rendita scritto quindici anni più tardi (Tocci, 2009) e a valle dell’esperienza di governo cittadino di cui ha fatto parte, continuerà a proporre il ricorso sistematico all’esproprio nelle trasformazioni urbane194.

“[…] La deregulation degli anni ’80 ha portato gli Enti locali sull’orlo della bancarotta. Questo dato viene usato spesso dal partito della speculazione per dimostrare che gli espropri sono insostenibili in rapporto agli scarsi finanziamenti pubblici e quindi l’unica strada è quella dell’urbanistica contrattata. Si tratta di una propaganda che purtroppo ha fatto breccia nel senso comune, pur non avendo alcun fondamento. È vero, anzi, il contrario: l’acquisizione pubblica delle aree è l’unico modo per risanare le casse comunali […] la rendita viene raccolta dalla collettività, com’è giusto che sia, in quanto la sua valorizzazione non è determinata dal proprietario, ma dallo sviluppo generale della città. […]” (Tocci, 1993) 195

Nel suo Pensare la città contemporanea, Maurizio Marcelloni (2003) espone per filo e per segno le ragioni del nuovo piano, esaltando le scelte pur non nascondendo le contraddizioni. La conclusione dello stesso libro è focalizzata sulla dialettica interna alla maggioranza capitolina in occasione dell’approvazione del piano, descritta come oscillante tra due estremi contrapposti, uno funzionale agli interessi fondiari ed immobiliari ed uno in netta opposizione. Secondo l’autore, l’esito del compromesso tra le posizioni è stato negativo, con l’introduzione di una serie di modifiche196 che hanno stravolto quanto operato fino a quel

momento, fra cui quella della sostanziale abolizione del meccanismo delle ‘compensazioni’ per le aree destinate a servizi pubblici. Giuseppe Campos Venuti, sulla stessa linea, ha disconosciuto il piano di cui era ritenuto il ‘padre’: ha ritirato la sua firma, motivando la decisione proprio con quest’ultima modifica che ripristina il ricorso obbligatorio al meccanismo classico dell’esproprio, da lui ritenuto finanziariamente inattuabile e in ogni caso inopportuno.

194 Parlo di ricorso ‘sistematico’ in quanto, in uno scritto successivo (Tocci, 2009), l’autore propone di istituire un fondo di rotazione alimentato dai proventi delle operazioni condotte attraverso il metodo descritto.

195

Il paragrafo continua citando alcuni casi in cui è stata applicata la logica auspicata da Tocci (anticipazione bancaria sorretta dalla garanzia fondiaria, acquisizione preliminare dei terreni, rivenduti una volta urbanizzati): “[…] In Italia questo metodo è stato usato a Modena e a Brescia, sotto la guida lungimirante di Leonardo Benevolo. Ed è stata usata su grande scala per la più grande dismissione industriale realizzata in Europa, quella della regione della Ruhr (circa 2500 ha., quattro volte lo Sdo) […]” (Tocci, 1993).

196 Marcelloni (2003) fa riferimento all’accordo interno alla maggioranza che, nel febbraio 2003, è stato trasformato in emendamento della giunta comunale alla proposta di piano. I contenuti dell’emendamento, che l’autore illustra, riguardano: le nuove centralità (eliminazione di Gabi e Collatino-Togliatti, ridimensionamento di altre); le aree di riserva a ‘edificabilità differita’ (quasi dimezzate); la mobilità su gomma (eliminazione del corridoio tirrenico e di un tratto della tangenziale interna); i programmi integrati (eliminazione del meccanismo incentivante); le compensazioni (eliminazione della procedura di ‘acquisto compensativo’ sulle aree per servizi pubblici); la tutela delle zone agricole (inserite nella rete ecologica e tutte sottoposte ad una normativa più restrittiva); gli interventi in ‘città storica’ (ampliamento dei casi sottoposti a piano di recupero piuttosto che a intervento diretto); le nuove edificazioni (reintroduzione di alcune aree edificabili del vecchio piano e ‘densificazioni’, per garantire alcune compensazioni già decise); le norme tecniche (‘irrigidite’, e contenenti una norma transitoria che garantisce le edificazioni del precedente piano).

Figura 2.9 – Il quartiere Eur: il contesto ‘storico’ e gli interventi recenti.

Al centro, la via C.Colombo, da cui emerge il grande volume del Palazzo dei Congressi (la ‘nuvola’) di Fuksas e, alla sua destra, la ‘Beirut’ delle Torri delle finanze di Ligini (Fonte: Bing Maps, 2017)

Un altro passaggio sembrerebbe parlare della Roma veltroniana, se non fosse stato scritto un decennio prima con l’intenzione di raccontare il periodo di governo del sindaco Carraro:

“[…] Quasi tutte le mattine i giornali informano sulla presentazione di un nuovo progetto. Si potrebbe riempire uno stanzone con i volumi che, in bella carta patinata, illustrano le meraviglie delle opere presentate in questi anni a Roma. Ed è stridente il contrasto tra tale produzione cartacea e il poco effettivamente realizzato, quasi a conferma della sua valenza prevalentemente simbolica. Non è casuale il frequente ricorso ad esponenti del mondo dello spettacolo […]. Anche l’opera è quindi autoreferenziale, pensata non in rapporto alla sua utilità. Viene calata dall’alto sul sistema urbano, senza una consapevolezza degli effetti che produce. Ciò ne rende quasi sempre difficoltosa la gestione. Inoltre, l’apparato simbolico sconvolge l’ordine di priorità, si realizza prima l’opera più

forte non quella che serve prima. In generale poi, i problemi di gestione vengono

trascurati perché meno ricchi di allusioni simboliche: è difficile che pulire le fogne riesca ad appassionare l’immaginario collettivo. Tutto questo complesso di interazioni tra realtà ed immaginazione contribuisce a rendere difficoltosa la gestione ordinaria della città.” (Tocci, 1993)

Ai tempi, dunque, Tocci contestava i grandi progetti in corso, vedendoli come innesti autoreferenziali, contrapponendo le esigenze dello spettacolo alle reali priorità, l’intervento simbolico alla buona gestione quotidiana. Forse è proprio questa poca attraenza il motivo

per cui, tanto allora quanto in seguito, il recupero e la riqualificazione sono stati tutto sommato poco rilevanti rispetto alle trasformazioni delle aree inedificate197.

Egli, inoltre, usava due principali chiavi di lettura: le policy communities, raggruppamenti di interesse che nascono per promuovere le singole politiche; la burocrazia ‘allargata’, aggettivo con il quale se ne indica una proliferazione dai caratteri non più esclusivamente pubblici, effetto di processi non interpretabili con la sola categoria della deregulation198. Nella già citata

analisi del ‘regime dell’Urbe’ (Moini & D’Albergo, 2015), che rilegge a posteriori il periodo di oltre vent’anni intercorso, appaiono elementi per certi versi analoghi: da un lato, la caratteristica ‘collusiva’199 del regime stesso; dall’altro, il cammino parallelo di ‘super-

regolazione’ e ‘de-regolazione’200.

Infine, affrontando il nodo della rendita nel nascente modello policentrico, l’autore delinea la prospettiva di un’organizzazione metropolitana a rete, un policentrismo non gerarchico fatto di ‘città della metropoli’:

“[…] In conclusione, lo sviluppo regolato dalla rendita come variabile indipendente ha determinato certamente, nella forma del traboccamento, una redistribuzione di funzioni verso l’esterno; ciò non ha però risolto la classica gerarchia tra centro e periferia, l’ha resa soltanto molteplice: stanno nascendo nuovi centri e, rispetto ad essi, nuove periferie. […]

197 Si fa qui riferimento principalmente alla cosiddetta ‘città da ristrutturare’, contrapposta alle edificazioni fuori scala (in buona parte, centri commerciali), realizzate nella migliore delle ipotesi in prossimità. Discorso a parte meritano le iniziative culturali (Auditorium, Maxxi, Macro, Casa del Jazz, eccetera) realizzate nelle aree centrali, il cui privilegio è evidentemente tale anche a livello di gestione e manutenzione ordinaria.

198 “[…] È limitativo interpretare gli anni ’80 solo con la categoria della deregulation. La leva pubblica ha infatti abuto un grande peso nelle dinamiche di potere; essa è stata rimodellata e integrata all’interno delle nuove forme dell’organizzazione politica. Si pensa di solito alla burocrazia come al settore che è rimasto sempre lo stesso; invece, sotto certi aspetti, esso ha subito una radicale trasformazione nei ruoli e nelle forme organizzative. Il risultato non è stato ovviamente un aumento di efficacia, bensì di maggiore spreco; il tutto è stato finalizzato ad una maggiore funzionalità nei riguardi delle nuove forme di potere. Si possono indicare tre fenomeni principali: la duplicazione dei servizi, le agenzie di servizio, il circuito vizioso tra statalismo e deregulation […]” (Tocci, 1993).

199 “Il concetto di collusione a cui si fa riferimento non è quello propriamente giuridico […]. È piuttosto un riferimento indiretto alla definizione e all’uso del concetto di collusione fatti nella teoria economica e nella teoria dei giochi. Si tratta di pratiche che, esplicitamente o implicitamente, anche legalmente, consentono un ampliamento del profitto per i soggetti coinvolti nella relazione collusiva stessa, come ad esempio la limitazione della concorrenza attraverso accordi informali. Per estensione questa pratica indica intese di tipo contingente tra differenti attori che dovrebbero, o potrebbero, essere caratterizzati da valori e obiettivi diversi” (Moini & D’Albergo, 2015, p.61).

200 Questa ‘compresenza’, limitandosi all’azione urbanistica, si presenta nella riflessione di Barbara Pizzo e Giacomina di Salvo (2015) sull’attuazione delle centralità: “[…] Come si è potuto determinare un esito tanto diverso da quello previsto? La nostra ipotesi è che ciò sia stato ottenuto facendo seguire ad un processo lungo e ‘iperstrutturato’ di regolazione forme varie di de-regolazione nel passaggio al momento attuativo. I due momenti si rivelano perciò reciprocamente funzionali”. Le autrici utilizzano questo caso per parlare di una tendenza insita nei piani regolatori romani, con un intento: “[…] l’interpretazione più generale che proponiamo è che, anche grazie a questo doppio indirizzo, l’urbanistica è stata utilizzata a beneficio di pochi grandi proprietari e costruttori, ma anche di molti piccoli proprietari e imprenditori. In questo modo si è ottenuto un consenso su scala vasta e da parte di interessi differenziati”.

Il contrario della gerarchia è la rete, ovvero uno schema di relazioni qualitative tra elementi differenti. Questo dovrebbe essere il paradigma di una seria politica riformatrice. Non si tratta di imporre uno schema astratto ai processi reali, ma di governarli secondo un progetto. La tendenza spontanea del traboccamento offre in tal senso una grande occasione, rende possibile il trasferimento in periferia di funzioni pregiate che prima tendevano solo a concentrarsi. In altre parole, se davvero vogliamo eliminare la patologia della periferia, bisogna pensare Roma come una metropoli, un’area metropolitana, costituita al suo interno da tante città, tenute insieme da relazioni qualitative, reti di comunicazione e sistema ambientale. Il titolo del progetto deve essere: le città della

metropoli. Il valore urbano in questo schema perde quella funzione gerarchica, diventa

invece molteplicità delle differenze, non solo quantitativamente, ma qualitativamente. […] Con le città della metropoli non si intende un ennesimo progetto da realizzare chissà quando, ma una regola urbana che deve guidare sia le scelte immediate che quelle strategiche, un modo diverso di vedere il problema di Roma che cerca di tenere insieme il progetto urbano e la vita concreta di uomini e donne.” (Tocci, 1993)

Tanti dettagli delle ‘città della metropoli’ descritte mi portano a pensare alle visioni emergenti dalle ‘città immaginate’ definite nel primo capitolo: il paradigma della rete quale “schema di relazioni qualitative tra elementi differenti”, una Roma “costituita al suo interno da tante città, tenute insieme da relazioni qualitative, reti di comunicazione e sistema ambientale”, il valore urbano come “molteplicità delle differenze” più che gerarchia fra le parti. Eppure, negli anni successivi da queste ‘città immaginate’ sono emerse soprattutto ipotesi di altro tipo, opposte a quelle desiderabili da chi ‘abita’ i luoghi e ne prefigura la trasformazione: sono state progettate da lontano, invece, estensioni e nuove parti, in nome delle promesse scintillanti del mercato.

L’aver riportato questa citazione, a differenza delle precedenti, non ha come fine una critica paradossale, a meno di focalizzarsi sul ruolo della rendita nel successivo sviluppo. Ho voluto evidenziare uno scenario che è stato allo stesso tempo molto abusato a livello retorico e ben poco attuato201. Lo stesso autore lo chiarirà anni dopo, scrivendo che “il termine

policentrismo ha coperto con un’immagine suggestiva la vecchia disseminazione edilizia che

ha contraddistinto la vicenda urbanistica romana per l’intero Novecento” (Tocci, 2009). L’ipotesi a rete non gerarchica che l’autore chiama ‘città della metropoli’, in ogni caso, ha ancora una sua attualità, al di là della sua formulazione originaria caratterizzata da un’ottica riformista e un punto di vista dall’alto, peculiarità che forse costituiscono limiti alla sua realizzazione più che ipotesi tattiche. Resta un aspetto, già identificato da Tocci e aggravato ancor più dalle dinamiche intercorse del tempo, che riguarda l’incontro-scontro tra i due

201 Su questo tema, c’è un’altra frase che merita una rivisitazione odierna: “Tutto il dibattito sulla città policentrica, tanto di moda in questi anni, ha prodotto solo fumisterie accademiche oppure è servito come alibi per riprendere il vecchio programma dello sviluppo a macchia d’olio” (Tocci, 1993, p.210).

sistemi, città e metropoli, e di conseguenza tra comunità e individuo. Un nodo problematico, certamente, ma allo stesso tempo una speranza:

“[…] Si sono rotti quei legami e quelle identità che tenevano insieme la gente nei cortili di Pietralata; quegli spazi disadorni erano teatro di grande politica, comunità di uomini e donne. Ma quei legami erano anche frutto dell’isolamento e della povertà, non solo economica, ed è bene averli rotti. Poi siamo entrati in società, siamo diventati individui metropolitani, sicuramente più liberi, ma con una pena nell’animo. Mi domando: è possibile mantenere quella libertà metropolitana e allo stesso tempo ricostituire un legame, meno rigido del primo, ma che pure configuri, ad un livello superiore, una comunità […]?” (Tocci, 1993, p.214)

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