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Vertigini interpretative/2 Il ruolo decisivo del fenomeno urbano.

L’umanità è dunque minacciata dalla catastrofe climatica, a causa di modelli di sviluppo dissennati. Gli insediamenti umani e le loro caratteristiche, in questo ambito, hanno un ruolo importantissimo.

Un punto di contatto tra queste due questioni può essere offerto da una analisi dei consumi energetici: a tal fine, ci possono essere utili i dati elaborati dall'International Energy Agency (IEA, 2016). La loro lettura e interpretazione42 mette in luce che più della metà dei consumi

energetici sia riferibile ad usi domestici, trasporti, agricoltura, commercio e servizi43, mentre

la restante fetta riguardi consumi per l'industria e usi non energetici. Queste percentuali vanno considerate con tutte le precauzioni necessarie44, dovute alla pretesa di rappresentare

fenomeni riguardanti l’intero pianeta. Va detto poi che vi sono teorizzazioni, quali quelle di Neil Brenner sull’urbanizzazione planetaria espresse nel seguito, che rendono inutile il ricorso a questi dati, sostenendo che tutte le attività umane siano ormai da correlare alle caratteristiche spaziali del modello di sviluppo ed al sistema che lo produce.

È il caso allora, alla luce dei ragionamenti svolti, di riprendere il discorso avviato inizialmente. Negli ultimi decenni si sono succedute numerose ipotesi interpretative,

42 È necessario rielaborare i dati (riferiti all’anno 2014), in quanto i consumi costituiscono solo un capitolo del rapporto, che è mirato a comprendere tutte le tematiche inerenti l’energia: dalla produzione alla trasformazione, dal consumo alle emissioni, passando per bilanci energetici, prezzi, indicatori e giudizi di valore. La parte dedicata ai consumi li suddivide in primo luogo per fonti: petrolio, carbone, elettricità, gas naturale, rifiuti e biomasse, altri. Le prime quattro di esse (84,5% del totale) sono poi suddivise per settori: industria, trasporti, altro (agricoltura, servizi e usi residenziali), usi non energetici.

43 Rispetto ai consumi di petrolio, carbone, elettricità e gas naturale (costituenti come detto l’85% del totale), pesando i valori si registra un 32% dei consumi per trasporti (prevalentemente petrolio) e un 27% dei consumi per gli altri settori (agricoltura, commercio, servizi pubblici) raccolti sotto la dicitura ‘altro’.

44 Come termine di paragone, si prendono i dati Eurostat riguardanti gli usi finali in Italia nel 2015 (Enea, 2017). In questo caso, la quota parte di trasporti (32,1%), agricoltura (2,3%), servizi e usi residenziali (‘usi civili’, 39,3%), è ancora maggiore, arrivando a quasi i tre quarti del totale.

finalizzate a comprendere le principali caratteristiche dei fenomeni di urbanizzazione che ci troviamo di fronte. Le abbiamo definite, nei titoli dei paragrafi, ‘vertigini interpretative’. Sono infatti visioni che, dall’alto, si sbilanciano nella lettura dei cambiamenti in corso, muovendosi a volte su crinali che separano condizioni nettamente differenti: il ‘nuovo’ che ha già iniziato, da più o meno tempo, a svilupparsi; il ‘vecchio’, residuo, che contemporaneamente ha cominciato a sparire ed essere sostituito.

Proprio nell’ottica di trovare degli accessi a quello che venne definito un ‘campo cieco’45, si

sono susseguite nel tempo numerose teorizzazioni, fra le quali ritengo utile usarne alcune per mettere in discussione i possibili assunti di base, piuttosto che provare a fornirne un elenco esaustivo, seppur ragionato. Alcune questioni appaiono infatti problematiche, ed in particolare: la ricerca di un modello in luogo dell’analisi dei processi, e l’attenzione quasi esclusiva ai territori dell’agglomerazione, virtualmente isolati dal loro ‘contorno’. Approfondendo questi ultimi due aspetti, le concettualizzazioni più diffuse sono costrette a fare i conti, in maniera ancor più esplicita, con una realtà fortemente eterogenea come quella costituita dall’urbanizzazione odierna.

Il sociologo statunitense Neil Brenner ha focalizzato la questione, portandola all’estremo. Egli evidenzia infatti come le dinamiche di urbanizzazione, figlie delle logiche di accumulazione del sistema economico capitalista, abbiano finito per coinvolgere 'tutto' lo spazio del pianeta. Tuttavia, egli afferma: “la nostra tesi non è […] che le città (o, più precisamente, le zone di agglomerazione) si stanno dissolvendo in una società senza luoghi costituita da flussi globali” (Brenner, 2016e).

L’autore non avverte infatti l’urgenza di abbandonare il termine ‘città’, semmai quella di rinnovare il contesto in cui si inserisce, rimpiazzando un’immagine precostituita ormai poco utile46. In luogo di un modello non più corrispondente alla realtà, consistente in un’unità

spaziale delimitata rispetto ad un suo ‘fuori costitutivo’ (il territorio ‘non-urbano’), propone di considerare “la possibilità che le geografie dell’urbanizzazione trascendano le città, la metropoli e la regione” (Brenner, 2016d).

45

“[…] I campi ciechi? […] ciò che non si sa e ciò che non si può chiarire. Ciò che sul campo cieco c’è, è l’insignificante, che la ricerca chiamerà al senso. […] i campi ciechi sono insiemi mentali e sociali. Per capire la loro esistenza bisogna fare riferimento alla potenza delle ideologie (che illuminano altri campi e fanno sorgere campi fittizi), e d’altro canto alla potenza del linguaggio. Non v’è forse ‘campo cieco’ sia quando manca il linguaggio, sia quando v’è abbondanza e ridondanza di metalinguaggio (discorso sul discorso, significanti galleggianti lungi dai significati)? Siamo ricondotti così al contrasto fra l’accecante e l’accecato. L’accecante è la sorgente luminosa (conoscenza e/o ideologia) che proietta il fascio di luce, che illumina altrove. L’accecato è lo sguardo abbagliato; ed è anche la zona lasciata in ombra. Da una parte si apre una via all’esplorazione; dall’altra v’è una chiusura da infrangere, una consacrazione da violare” (Lefebvre, 1973).

46 Occorre, secondo Brenner (2016e), una “rottura radicale con il dispositivo urbano ereditato”, “abbiamo bisogno di nuovi modi di interpretare e cartografare la varietà dei territori del pianeta, le ecologie e i paesaggi dell’urbanizzazione che non si oppongono in modo binario alle città”.

Brenner non nega che le città si siano notevolmente ampliate in dimensioni, spalmandosi su territori sempre più ampi e ponendosi come un continuum indifferenziato di strade ed edifici. Ritiene però quest’ultima lettura, come già accennato, limitata (e limitante), osservando il fatto che, d’altra parte, le aree cosiddette ‘esterne’ non siano certo indipendenti nel tracciare le loro traiettorie evolutive. Egli le definisce con espressioni quali ‘paesaggi funzionali’ e ‘spazio operazionale’, volte ad evidenziare come anch’esse, nella loro trasformazione, siano in stretti rapporti con quelle che chiamiamo ‘città’.

Figura 1.6 – La stazione di McMurdo (Isola di Ross, Antartide), scenario del film documentario Encounters at the end of the world (2007, regia di Werner Herzog).

“Vaste zone del pianeta – incluse l’atmosfera, gli oceani, le catene montagnose, i deserti e molte altre aree che sembrano ‘remote’ – sono ora sfruttate e rese operazionali per sostenere gli agglomerati, le grandi città e il modo di vita che esse stanno producendo e generalizzando” (Brenner, 2016f)

In definitiva, lo studioso statunitense mette in dubbio “l’interpretazione dominante dell’urbano come condizione socio-spaziale rinchiusa entro confini, nodale e relativamente autosufficiente, e questo in favore di concettualizzazioni territorialmente differenziate, morfologicamente variabili, multi-scalari e processuali” (Brenner, 2016e). Egli si muove alla luce dell’approfondimento preventivo (Brenner, 2016c) sulla tematica dell’evoluzione dell’organizzazione territoriale e dunque sulla questione della ‘scala’47, definita come esito

instabile di processi sociali conflittuali48 su cui l’autore ritiene sia preferibile concentrarsi, e

del processo di implosione-esplosione49 della città mutuato da Lefebvre (1973). Partendo da

47 “[…] l’esigenza di ricorrere alla questione della scala si lega direttamente ai cambiamenti di organizzazione e configurazione territoriale intervenuti nella più recente fase dello sviluppo capitalista” (Brenner, 2016c).

48 “[…] le scale geografiche – ossia i livelli discreti all’interno delle gerarchie interscalari – non costituiscono proprietà stabili e permanenti delle istituzioni politico-economiche o delle spazialità sociali” ma “dimensioni socialmente costruite e, di conseguenza, intrinsecamente plastiche e malleabili, di specifici processi sociali”; “le scale costituiscono gli esiti provvisoriamente stabilizzati dei processi di scaling e rescaling e possono essere colte solo attraverso l’analisi di questi ultimi” (Brenner, 2016c).

49 Il filosofo francese ravvisa nelle dinamiche urbane il realizzarsi di un “[…] processo storico: l’implosione- esplosione […] cioè l’enorme concentrazione (di persone, di attività, di ricchezze, di cose e di oggetti, di

qui, si spinge, come detto, a parlare di ‘urbanizzazione planetaria’, ed immagina l’utilità di una ‘teoria urbana senza un fuori’, che finalmente superi le letture precedenti.

Dal momento che “il discorso sui temi urbani dell’inizio del XXI secolo […] è diventato una delle metanarrazioni dominanti” (Brenner, 2016d), ritiene infatti necessario guardare ‘altrove’, invertire la centralità analitica. Piuttosto che avallare una lettura fondata sull’evocazione di un’’era urbana’, peraltro alla base dei documenti delle maggiori istituzioni internazionali, ne cerca le cause, partendo dall’analisi dei processi in corso, messi in luce anche attraverso la chiave di lettura illustrata50.

La sua tesi è che “la forma capitalista di urbanizzazione continua a produrre percorsi di agglomerazione specifici ai contesti, ma al contempo trasforma senza sosta gli spazi non cittadini in zone di infrastrutture industriali ad alta densità e di larga scala – paesaggi

operazionali”, che “si consolidano attraverso l’attiva produzione di configurazioni spaziali

urbano-industriali di larga scala che sono state progettate per accelerare e intensificare l’accumulazione di capitale sul mercato mondiale” (Brenner, 2016f).

Si tratta di qualcosa di simile a quanto già avvenuto in passato, quando “la delimitazione, lo sfruttamento e la permanente riorganizzazione di questi paesaggi è stata cruciale nella storia del capitalismo in termini di espropriazione, spostamenti forzati e proletarizzazione delle stesse popolazioni che sono spesso ghettizzate all’interno dei grandi centri urbani” (Brenner, 2016e)51. Oggi assistiamo però a un notevole salto di scala: i ritmi di sviluppo di questi

‘paesaggi’ sono “legati in modo ancora più diretto a quelli dei principali centri urbani attraverso una divisione spaziale del lavoro su scala mondiale” (Brenner, 2016f). La globalizzazione neoliberista, d’altro canto, si materializza come un enorme processo di riorganizzazione scalare (rescaling) dei processi produttivi, portato avanti dal capitalismo internazionale.

strumenti, di mezzi e di pensiero) nella realtà urbana, e l’immensa esplosione, la proiezione di frammenti multipli e slegati (periferie, sobborghi, abitazioni secondarie, città satelliti, ecc.)” (Lefebvre, 1973).

50 “[…] è tempo per gli urbanisti di abbandonare la ricerca di un’essenza nominale che possa distinguere l’urbano come un tipo di insediamento […] e le concezioni ad esso associate degli altri spazi (suburbano, rurale, territori selvaggi) come non-urbani a causa della loro supposta separazione dalle condizioni, dalle tendenze e dagli effetti urbani”; “la teoria urbana deve dare priorità all’analisi delle essenze costitutive – i

processi attraverso i quali i variegati paesaggi del capitalismo moderno sono riprodotti” (Brenner, 2016d).

51 Qui Brenner fa riferimento alla dinamica dell’’accumulazione primitiva’ analizzata da Marx ne Il Capitale. Ribadisce poi il concetto, riprendendo anche altri autori: “[…] i percorsi di sviluppo degli agglomerati capitalisti sono stati sempre associati intimamente con trasformazioni di larga scala degli spazi non-cittadini”; “Mumford ha descritto questa relazione come uno scambio tra up-building, raggruppamenti di infrastrutture industriali verticali, orizzontali e sotterranei, e un-building (Abbau), il degrado dei panorami di periferia attraverso il loro ruolo sempre più intenso di fornitori per le città di benzina, materiali vari, acqua e cibo, e di gestori della loro produzione di rifiuti”; “la crescita delle città è stata direttamente facilitata attraverso rivoluzioni industriali e ambientali attraverso l’intero pianeta, anche se distribuite in modo ineguale”; “gli spazi della non-città sono stati continuamente resi operativi per sostenere l’’urbanizzazione del capitale’” (Brenner, 2016e).

Figura 1.7 – Il ‘paesaggio funzionale’ di Chiomonte, Val di Susa.

“Comincia tutto sempre / con la città che impone / parola sguardo senso legge / la voce del padrone la campagna e la montagna / senza alcuna condizione / si immolino al progresso / alla sua grande ragione

all'immensa megamacchina / che non si ferma ad aspettare / chi perde tempo a far domande” (dalla canzone “Libera Val Susa – 27 giugno 2011” di Marco Rovelli)

L’argomentazione che conduce alla tesi, cioè il disvelamento dell’asservimento generalizzato del territorio alle esigenze della realtà urbana presa in considerazione dall’analisi dominante (città, megacittà, ecc.), ha un’enorme utilità per i movimenti antisistemici. Evidenzia i nessi – “le reti onnipresenti, ma di solito invisibili, che legano il nostro stile di vita urbano alla violenza silente dell’accumulazione per espropriazione e alla distruzione dell’ambiente negli hinterland del mondo e nei paesaggi operazionali” (Brenner, 2016f) –, ponendo così la base per la connessione tra le lotte portate avanti nei diversi territori. La proposta di spostare il punto di vista nei territori di margine, da cui far scaturire ipotesi di alter-urbanizzazione52

anche attraverso l’impegno di urbanisti e architetti53, può dare nuova linfa ad istanze di

trasformazione allo stesso tempo locali e globali. In maniera più diretta rispetto al testo di Choay54, e differentemente dalla (apparente) neutralità di Koolhaas, Brenner afferma il ruolo

52

“[…] queste tesi mettono in discussione il dogma della città ipertrofica – l’idea prevalente che città sempre più vaste rappresentino il futuro inevitabile dell’umanità – esse aprono anche un orizzonte per immaginare diverse forme di urbanizzazione, un’alter-urbanizzazione” (Brenner, 2016e).

53

“[…] forse il ruolo del design negli spazi del mondo non-cittadini è proprio quello di facilitare l’immaginazione e la produzione di queste e di molte nuove alter-urbanizzazioni” (Brenner, 2016e).

54 Nello stesso testo precedentemente preso in considerazione (Choay, 2006), parlando – cfr. nota 26 – dell’importanza della scala locale, e della possibilità di immaginare nuclei di ’urbanità’ immersi nell’urbanizzazione complessiva: “Mais cette hypothèse est aléatoire. Elle dépend d’une prise de conscience

determinante della politica: “i progetti di urbanizzazione sono scelte politiche collettive, un mezzo e un prodotto del potere, di immaginazione, di lotta e di sperimentazione” (Brenner, 2016b).

La concettualizzazione di Brenner, d'altro canto, non può che essere assunta in termini provocatori, in quanto nel suo affermare la trasformazione di tutto il pianeta in spazi funzionali ai grandi agglomerati, realizza dei nessi concettuali che portano all'esasperazione la condivisibile ipotesi di base. Se, con le parole di Bookchin (2006), "in realtà non possiamo dominare la natura proprio come non possiamo sollevarci tirandoci su per le stringhe", men che meno tale illusorio dominio può essere inteso in maniera assoluta, includendo perfino l'atmosfera, i deserti, gli oceani e le catene montuose all'interno degli 'spazi operazionali'. Il modello di ‘urbanizzazione planetaria’ si presta, infatti, a una critica analoga a quella rivolta alla ‘Città Generica’ di Koolhaas: la generalizzazione del fenomeno, al fine di affermare con maggior forza la tesi, può apparire come una forzatura. Come detto, c’è però una differenza sostanziale: la teoria proposta da Neil Brenner non mira a mantenere ed assecondare l’esistente. Nelle intenzioni espresse dall’autore c’è piuttosto un rovesciamento, un’emersione delle alternative latenti alla realtà capitalista dominante55. C’è da evidenziare

però che una rappresentazione quale quella data, consistente in un assetto onnipresente e pervasivo, rischia di scoraggiare l’azione collettiva, cioè la forza che può intervenire e fare leva, nonostante la vistosa tendenza all’omologazione globale, sulla sostanziale indefinitezza delle traiettorie di sviluppo dei singoli luoghi, influenzandone le trasformazioni.

La sua analisi, come quella di altri autori56, si ricollega esplicitamente e ripetutamente

all’opera di Henri Lefebvre. In particolare, affermando la realizzazione della tendenza prevista da quest’ultimo, la ‘rivoluzione urbana’ (Lefebvre, 1973) come materializzarsi progressivo di un’urbanizzazione completa della società57. Il filosofo francese individuava i

germi di tale tendenza in tempi molto lontani, illustrando le evoluzioni e le costrizioni subite durante il cammino attraverso alcune tappe storiche: dalla società rurale, amministrata dalla città politica, alla concentrazione degli scambi all’interno di quest’ultima e dunque alla

collective, d’un choix de société; mieux, d’une option philosophique“ (“Ma questa ipotesi è aleatoria. Essa dipende da una presa di coscienza collettiva, da una scelta di società; meglio, da una opzione filosofica”). 55 Questo concetto è espresso chiaramente nella definizione della teoria critica urbana (Brenner, 2016b), che ha in comune con la teoria critica (Scuola di Francoforte) alcuni elementi-chiave: la necessità di astrazione (“la teoria critica è teoria”); le radici nei conflitti sociali (“la teoria critica è riflessiva”); il contrasto coi poteri esistenti, il rifiuto della separazione dall’oggetto della riflessione, l’esplicitazione delle preferenze pratico- politiche e normative (“la teoria critica implica la critica della ragione strumentale”); l’analisi le forme di dominazione finalizzata all’affermazione delle possibilità di liberazione umana e di trasformazione sociale (“la teoria critica enfatizza la disgiunzione tra l’attuale e il possibile”).

56 Vedi i paragrafi seguenti.

57 Nelle prime pagine del libro, Lefebvre (1973) dichiara: “[…] Partiremo da una ipotesi: l’urbanizzazione

completa della società […]. Chiameremo ‘società urbana’ la società che risulta dall’urbanizzazione completa, oggi

fioritura della città commerciale, fino all’inversione del rapporto tra città e campagna con l’affermarsi della città (e della società) industriale.

L’analisi comparativa tra i testi dei due autori, se portata in profondità, potrebbe condurre ad altri dubbi interpretativi e a considerazioni teoriche58, nonché a contraddizioni. È

importante, a mio avviso, sottolineare una differenza: il fatto che Lefebvre indicasse la prospettiva di urbanizzazione completa come tendenza. La ‘società urbana’ come ipotesi teorica, espressa utilizzando il procedimento filosofico definito ‘trasduzione’: la costruzione di un oggetto virtuale (possibile), da mettere poi in relazione con un processo e una prassi59.

Resta il dubbio se, al giorno d’oggi, egli avrebbe convenuto con la tesi dell’avvenuto compimento di tale prospettiva. In un caso o nell’altro, il procedimento utilizzato ormai quarant’anni fa da Lefebvre sembra preferibile, in quanto delinea la possibilità futura al fine di illuminare il presente, invece che unicamente affermare, in modo perentorio, l’avvenuto cambiamento.

L’illustrazione e il confronto tra alcune ipotesi interpretative riguardanti la realtà odierna non è finalizzata a metterle in competizione, per poi sposare compiutamente un’unica tesi, né a cercare una sintesi. Riprendo qui le loro parole, i loro concetti, le loro visioni, per mettere in luce alcuni aspetti della realtà, ragionare su di essa in maniera critica, esplorare i nessi fra visioni differenti. Di fronte alla differente provenienza scientifica degli autori fin qui citati, il pensiero tende alla cooperazione interdisciplinare (a certe condizioni)60

individuata dallo stesso Lefebvre come necessaria per cogliere la problematica complessiva

58 Uno spunto potrebbe essere quello per cui, a supporto della tesi dell’urbanizzazione planetaria, Brenner porta alcuni esempi riguardanti gli ‘spazi funzionali’ (agro-business, infrastrutturazione, ecc.), che si riferiscono a trasformazioni complesse, frutto di un mutuo appoggio fra le logiche commerciali, industriali ed urbane illustrate come distinte e interagenti nel testo di Lefebvre.

59 “[…] riserveremo il termine ‘società urbana’ alla società che nasce dall’industrializzazione […] originata da questo processo, quest’ultimo dominando e riassorbendo la produzione agricola. Questa società urbana non si concepisce che alla fine di un processo nel corso del quale esplodono le antiche forme urbane, ereditate da trasformazioni discontinue […]. Per dar nome alla società post-industriale, cioè quella che nasce dall’industrializzazione e le succede, si propone qui questo concetto: società urbana, che designa la tendenza, l’orientamento, la virtualità, piuttosto che un fatto compiuto […]“ (Lefebvre, 1973).

60 Nell’affrontare la complessità del ‘fenomeno urbano’ nel capitolo ad esso dedicato, Lefebvre (1973) scrive: “[…] Questa complessità rende indispensabile una cooperazione interdisciplinare […]. Pur se viene posto come principio metodologico che nessuna scienza non debba rinunciare a sé stessa, ma al contrario ogni specialità debba spingere fino in fondo l’utilizzazione delle proprie risorse per raggiungere il fenomeno globale, nessuna di queste scienze può pretendere di esaurirlo. Né di controllarlo. Ammesso o stabilito ciò, cominciano le difficoltà […] ognuno cerca la sintesi e si erige a ‘uomo di sintesi’. Talvolta la ricerca detta interdisciplinare resta aperta, o piuttosto spalancata e vuota, senza conclusione. […] Ogni scienziato si figura le altre ‘discipline’ come sue ausiliarie, vassalle, serve. […] Il fenomeno urbano manifesta la sua universalità. Questo basterebbe a giustificare la creazione di una universalità per il suo studio analitico. […] Molto paradossalmente, una certa unità della conoscenza non può oggi ricostituirsi che intorno ad un insieme coordinato di problemi”. Nello stesso libro, dopo aver affrontato altri temi, tornerà sul tema fugando i dubbi sulle basi necessarie per istituire la cooperazione interdisciplinare auspicata: “[…] ogni scienza può considerarsi parte in causa della conoscenza del fenomeno urbano, a due condizioni: che essa contribuisca con concetti e un metodo specifici, e che rinunci all’imperialismo” (Lefebvre, 1973).

nella sua totalità e complessità: ogni disciplina è infatti ritenuta capace di coglierne analiticamente un frammento61. Nell’esprimere l’importanza dei singoli contributi e

l’esigenza di pervenire ad una ‘scienza del fenomeno urbano’62, egli metteva in luce

l’impossibilità di un accordo ‘teorico’ che definisca l’oggetto di studio63, mettendo al centro

invece la costruzione di una strategia condivisa64. Ciò che serviva allora, e che serve ancora

oggi, è una conoscenza viva e in movimento, ‘praticata’, che nasca in relazione con e in funzione delle trasformazioni, piuttosto che un semplice esercizio intellettuale, peraltro difficilmente praticabile.

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