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Le colpe della sconfitta: lo scambio d’accuse tra moderati e democratici

LA NARRAZIONE DEL 1848 E I SUOI GENERI

2. MEMORIALISTICA E SAGGI SULLE CINQUE GIORNATE: TRA RICORDO DEI MOTI E DENUNCIA DEI COLPEVOLI

2.3 Le colpe della sconfitta: lo scambio d’accuse tra moderati e democratici

La ricerca di spiegazioni alla conclusione negativa del 1848 è, si è visto, una componente centrale nella maggior parte delle narrazioni sui moti prodotte in Italia, soprattutto in quelle riguardanti Milano. A differenza delle opere dedicate a Roma, Brescia e Venezia che possono semplicemente fare riferimento alla schiacciante superiorità numerica e di armamenti del nemico per tratteggiare un’onorevole resistenza senza compromessi sino all’esaurimento delle poche forze disponibili, i testi che si concentrano sulle vicende del capoluogo lombardo e sul conflitto austro-piemontese devono affrontare direttamente la spinosa questione della sconfitta in una guerra tra due eserciti regolari, in cui tra l’altro la parte italiana si era trovata per lunghi tratti in posizioni nettamente favorevole, con le truppe asburgiche costrette sulla difensiva dopo le iniziali insurrezioni. Pur nella varietà dei fattori individuabili come concause e dei soggetti a cui è attribuibile la responsabilità, tale dibattito segue alcuni meccanismi comunemente accettati.

Può essere utile anche un confronto con le cause proposte per spiegare la vittoria iniziale che ricadevano quasi sempre in tre grandi ambiti: il provvidenziale sostegno divino; l’ardore, il coraggio e la combattività del popolo; la concordia d’intenti e il compattarsi attorno alla causa nazionale di tutta la popolazione.                                                                                                                

137 Correnti, Il martirio di Brescia. 138 Bianchi, Venezia e i suoi difensori.

Evidentemente non era concepibile mettere in discussione i primi due fattori per spiegare la sconfitta: non si poteva certo riconoscere il valore militare degli odiosi tedeschi o negare quello italiano e a maggior ragione ritenere che Dio non volesse il raggiungimento della naturale indipendenza italiana; si poteva al più riconoscere che il tempo prefissato non era ancora giunto, ma ciò non implicava una spiegazione soddisfacente.

Nel rendere conto dell’insuccesso finale, sarà quindi naturale chiamare in causa il mancato conseguimento della concordia universale, un sabotaggio dello sforzo comune senza calcoli per il conseguimento dell’Unità e indipendenza italiana, duplice obiettivo primario rispetto al quale ogni aspirazione personale o anche partitica avrebbe dovuto passare in secondo piano e se necessario venir sacrificata. Il popolo rimane però al di fuori dal dibattito sulle responsabilità: per quanto in alcuni casi se ne possa riconoscere l’impreparazione politica e l’immaturità civile o morale (soprattutto nelle storie generali dall’approccio più critico e distaccato), esso rimane un soggetto spontaneamente positivo che può contribuire favorevolmente o restare inerte a seconda della capacità della classe dirigente di educarlo alla causa nazionale e di guidarlo nella lotta. Le colpe dell’inadeguatezza civile ricadono quindi sempre sul ceto politico, sui leader di partito, sui sovrani, sui comandi dell’esercito, in un gioco di accuse reciproche che contrappone radicali e moderati, facendo spesso sfumare le disparate divisioni interne ai due schieramenti.

A esasperare spesso i toni della diatriba politica vi è la facilità con cui si ricorre all’accusa di tradimento: i personaggi che si sostiene parteggino per l’Austria o comunque preferiscano far fallire il moto nazionale pur di non lasciar prevalere la fazione politica avversa nelle narrazioni compaiono frequentemente quanto coloro che, pur essendo accusabili dei più svariati errori politici o militari, si ritiene meritino il riconoscimento della buona fede. La figura del traditore è del resto ben radicata nell’immaginario nazionalista139 ed essa ben s’inserisce in un discorso che deve descrivere il mancato conseguimento dell’Unità spirituale prima che concretamente politica degli italiani, ma fatica ad ammettere colpe imperdonabili nel proprio schieramento.

Nell’acceso confronto tra i sostenitori liberal-moderati e democratici è quindi consueto il ricorso ad accuse di tradimento nei confronti della parte avversa,                                                                                                                

mentre per descrivere le mancanze proprie e della propria fazione, ma spesso anche per altre correnti interne alla galassia, moderata o radicale, cui si appartiene si usa di preferenza la categoria dell’errore di valutazione e della scelta infelice ma ben intenzionata: tale è ad esempio l’atteggiamento che Cattaneo riserva ai mazziniani e alle varie posizioni democratiche da cui si smarca140. L’effetto fondamentale di questo tradimento, più o meno consapevole, è la rottura dell’unità del fronte patriottico che conduce al suo indebolimento e alla sua sconfitta finale. Secondo la lettura dei moderati, i democratici provocherebbero agitazioni e alienerebbero consenso alle forze filo-piemontesi, ostacolando la buona amministrazione del Governo Provvisorio milanese e compromettendo il sostegno della popolazione rurale all’esercito sardo. Nell’interpretazione contrapposta, la politica dei Savoia vanificherebbe intenzionalmente il contributo altrimenti valido dei volontari e alienerebbe gli aiuti degli altri stati, spalleggiata dai moderati lombardi che controllando politicamente la regione imporrebbero alla popolazione un atteggiamento attendista, smorzandone irrimediabilmente gli ardori patriottici. Momento centrale nelle opposte ricostruzioni, ed emblematico dei meccanismi che esse seguivano, è dato dal dibattito sulla fusione al Piemonte. Secondo i moderati la scelta favorevole era la mossa più logica in vista del compattamento del fronte patriottico e i democratici si erano macchiati di una grave colpa con la loro propaganda contraria che aveva alimentato divisioni e agitazioni. Questi ultimi invece si attengono all’idea che la scelta dell’assetto costituzionale andasse decisa a scontro con l’Austria concluso proprio per non rompere la concordia universale e stigmatizzano di conseguenza l’imposizione stessa del plebiscito da parte dei moderati.

In questo gioco di accuse reciproche diviene vitale anche rivendicare il contributo fondamentale fornito all’iniziale vittoria dell’insurrezione. I liberali conservatori imputano la ritirata austriaca da Milano al timore dell’imminente intervento piemontese ed evidenziano il ruolo di guida e imprescindibile riferimento morale e civile per il popolo insorto detenuto dalle autorità municipali e in particolare dal podestà Casati. Al contrario, le narrazioni che esprimono le posizioni dei democratici lanciano contro Casati e i suoi collaboratori pesanti accuse d’incapacità, codardia e ingiustificata propensione a trattare tregue con il

                                                                                                               

nemico141, senza necessariamente negarne la sincerità d’intenti; acquistano per contro maggior rilievo figure di eroi popolari o leader democratici come Cernuschi e lo stesso Cattaneo; il suo Comitato di Guerra è indicato come vero artefice della direzione dei moti e fedele interprete della volontà popolare al posto della municipalità. Gli attivisti democratici sono presentati come un tutt’uno con il popolo il che rende trascurabile la questione se il moto sia stato premeditato dai radicali o se sia sorto spontaneamente; si rivendica il merito esclusivo del popolo nel cacciare le truppe di Radetzky, evidenziando come Torino dichiari guerra solo a liberazione già avvenuta.

Evidentemente lo sviluppo storico delle vicende nel complesso si adattava meglio alla narrazione intessuta dai democratici: era difficile negare le responsabilità di Carlo Alberto e dei suoi collaboratori nella sconfitte militari, nella ritirata, nella dedizione all’Austria di Milano, la cui popolazione era così riconsegnata invitta al nemico, che da sola era stata in grado di sconfiggere, da un insospettabile tradimento. In queste condizioni la produzione di parte moderata si trovava costretta sulla difensiva, preoccupandosi innanzitutto di rivendicare la sensatezza delle proprie scelte e di rispondere alle veementi accuse lanciate dai moderati. Questo stato di cose traspare in modo abbastanza netto dalla lettura de Milano e i

principi di Savoia, una delle più importanti testimonianze della posizione

filo-piemontese. L’autore è Antonio Casati (1828-57), figlio del podestà del 1848 Gabrio, il quale aveva seguito il padre nel suo esilio in Piemonte e aveva fatto carriera in ambito diplomatico.

Pur presentandosi come una ricostruzione storica delle vicende del 1848, con un’ampia introduzione relativa ai rapporti tra Piemonte e Lombardia nelle epoche precedenti, l’opera si risolve in realtà in una lunga difesa delle mosse politiche del Governo Provvisorio, guidato dal padre, e in un’apologia appassionata della connessione profonda tra Lombardia e Piemonte, la cui dinastia sarebbe intrinsecamente portata a impegnarsi per il raggiungimento dell’unificazione nazionale, trascurando invece la concreta descrizione delle varie fasi dell’insurrezione cittadina e del conflitto aperto con l’Austria. Carlo Alberto è dipinto come figura eroica, senza nulla da rimproverarsi per l’esito contrario della                                                                                                                

141 Per un esempio significativo si veda Pietro Maestri, Origine dell’insurrezione lombarda del

1848. Memorie di un membro del comitato ordinatore in La insurrezione di Milano a cura di

Ambrosoli. Cfr anche Cattaneo, L’insurrezione di Milano nel 1848; Venosta, Le cinque giornate

guerra, ma le ragioni di tale disfatta non sono di fatto affrontate. Evidentemente Casati è maggiormente interessato a rispondere alle varie accuse mosse dai democratici e in particolare da Cattaneo: più volte sembra voler replicare direttamente alle opere del federalista sostenendo o quantomeno giustificando le varie scelte del ceto dirigente moderato di Milano: dalla richiesta d’aiuto a Carlo Alberto alla trattazione di una tregua con Radetzky, dalla convocazione del plebiscito sulla fusione ai dettagli delle modalità di votazione adottate. Casati non manca di porre l’accento sull’irragionevolezza dei mazziniani nel radicalizzare l’opinione pubblica sottraendola periodicamente alla tendenziale egemonia naturale dei moderati e agita in più occasioni il vago sospetto di connivenze dei democratici, in primis di Cattaneo stesso, con l’Austria. Nonostante non esiti a calcare la mano sia nelle accuse agli avversari politici sia nell’esaltazione del glorioso destino nazionale dei Savoia, Casati risulta meno convincente, almeno allo sguardo di un lettore moderno, rispetto a Cattaneo, il quale perlomeno fornisce motivi più credibili per cui il suo colpevole, il re di Sardegna, dovrebbe danneggiare con le proprie azioni la causa nazionale (innanzitutto l’aspirazione egoista all’espansione territoriale e la repulsione per la possibile nascita di un regime repubblicano).

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