LA NARRAZIONE DEL 1848 E I SUOI GENERI
2. MEMORIALISTICA E SAGGI SULLE CINQUE GIORNATE: TRA RICORDO DEI MOTI E DENUNCIA DEI COLPEVOLI
2.6 Le storie generali: un approccio più distaccato?
Si è già avuto modo di accennare come un corpo di opere con caratteristiche peculiari, che lo distinguono dal resto della produzione saggistica sugli eventi del 1848, sia costituito da quelle che si è definito storie generali. Con tale espressione si intende qui indicare saggi dalle dimensioni spesso monumentali e facilmente articolati in svariati volumi, che si propongono di ricostruire senza omissioni le vicende storiche in lassi temporali di svariata lunghezza ma tendenzialmente dalla considerevole ampiezza, relativamente ad ambiti geografici le cui dimensioni variano da quelle puramente cittadine di Milano. Storia del popolo e pel popolo di
162 Ivi, p.36.
Cesare Cantù allo scenario internazionale su scala mondiale della Storia dei cento
anni (1750-1850) dello stesso autore.
Tali opere, tutt’altro che rare, ricadono evidentemente a pieno titolo nella nascente disciplina storica; impossibile è in questo caso la confusione con la memorialistica poiché l’esposizione è sempre eseguita da un narratore onnisciente e impersonale senza riferimenti alla propria vita privata, con uno stile distaccato e puramente descrittivo che si avvicina solitamente a quello di un moderno manuale scolastico. Ovviamente si tratta di una storiografia tradizionalmente limitata agli aspetti politici, ideologici, diplomatici e militari con limitatissimi accenni alla storia sociale, culturale e demografica, storiografia che può essere anche estremamente dettagliata, sino a sconfinare nella cronaca: l’approfondimento di eventi di secondaria importanza storica è tendenzialmente inversamente proporzionale alla lunghezza del periodo storico considerato dato che l’ampiezza dell’opera resta solitamente considerevole (i quattro volumi della Storia d’Italia dal 1815 al 1850 di Giuseppe La Farina avvicinano complessivamente le 1200 pagine).
In simili opere il lungo 1848 può rappresentare un singolo capitolo all’interno di un testo che tratta svariati altri eventi spalmati tra più secoli: se nel lavoro di La Farina esso come tema occupa una posizione centrale in quanto culmine dello sviluppo storico dell’intero periodo descritto, altrove non costituisce che uno dei molteplici episodi affrontati nell’opera, facilmente distribuiti tra più secoli: nel
Sommario della storia d’Italia dalle origini sino ai nostri giorni di Cesare Balbo
ad esso è dedicata una trattazione nell’appendice aggiunta con la nona edizione del 1850, abbastanza ampia per quanto l’autore ne lamenti la sbrigatività164. Anche in casi come questo, va però riconosciuto che le insurrezioni del 1848-49, collocandosi in chiusura della trattazione, si ritagliano sempre un’attenzione particolare.
L’approccio nei confronti della materia trattata delle storie generali appare, a una prima lettura, nettamente più freddo e distante di quello proprio delle memorie e dei saggi storici d’impianto più monografico: gli eventi sono discussi in una prospettiva critica che consente di affrontare le carenze del movimento patriottico italiano senza attenersi a un’utopistica immagine idealizzata del popolo, dei patrioti, della condotta in battaglia dei combattenti italiani.
Gli stessi tedeschi perdono quegli attributi di brutalità immotivata, innata ferocia e piacere nell’infliggere dolore ai deboli che, continuamente ripetuti, ne facevano gli indubbi antagonisti della narrazione nel resto della produzione, offrendone un ritratto che difficilmente potrebbe oggi essere ritenuto compatibile con l’oggettività che ci si attende da un saggio. Il giudizio offerto dalle storie generali sull’operato austriaco in Italia rimane nettamente negativo ma si sviluppa soprattutto in connessione alle scelte di governo o amministrative, alle legislazioni restrittive e alle attività poliziesche, senza indulgere troppo nella descrizione degli atti di crudeltà compiuti dai soldati asburgici o dai loro collaboratori italiani, tanto abbondanti in altre opere: il risultato è che il giudizio sull’Austria rimane impersonale e che il nemico cessa di poter essere visto come un personaggio del racconto, tratteggiato con toni estremamente vividi.
Variazioni non meno significative si possono notare nella riflessione sulle cause dell’insuccesso del 1848 e nella valutazione del popolo italiano. Lo stile più posato consente di riconoscere anche gli errori dei soggetti esponenti della propria fazione politica, sfumando la polemica tra i moderati e i radicali (ad esempio né Cantù165 né Balbo166, entrambi simpatizzanti per la monarchia sabauda, intendono dissimulare i gravi errori strategici di Carlo Alberto in campo militare e le deficienze dell’esercito sardo), ma soprattutto favorisce la formazione di un quadro più complesso ed esaustivo quanto alle ragioni della sconfitta: vi sono inclusi la conflittualità tra i partiti, la cattiva conduzione della guerra austro-piemontese, il ritardo dei sovrani nell’adottare le riforme necessarie, il mancato emergere di leader politici adeguati, ma anche fattori che altre opere difficilmente prenderebbero in considerazione quali l’arretratezza politica del Meridione che provoca l’isolamento militare del Regno di Sardegna167, la difficoltà di conciliare le istanze di riforme democratiche con le aspirazioni al conseguimento dell’Unità, la forza considerevole del nemico, sottovalutata dai troppo fiduciosi patrioti, l’eccesso di festeggiamenti in mesi in cui sarebbe stato più opportuno predisporsi alla lotta armata, l’impreparazione morale e civile del popolo italiano immeritevole del conseguimento dell’indipendenza.
Su questi ultimi tre temi insistono in particolare le opere di Cesare Cantù che si distanzia così dalla raffigurazione sempre fondamentalmente entusiastica che
165 Cesare Cantù, Storia dei cento anni (1750-1850) Vol. 3, pp. 542-5. 166 Balbo, Sommario della storia d’Italia, pp. 449-425.
solitamente viene data del popolo, per mostrare invece un volgo litigioso, credulone, non ben educato né a una condotta politicamente avveduta né ai valori nazionali, che dovrebbero andare ben oltre l’odio per lo straniero168. Qui evidentemente prevale la prospettiva del politico moderato contrario a rilevanti riforme in senso democratico, ma stupisce in ogni caso che si possa rigettare implicitamente la visione, dominante in altri generi, delle masse italiane intrinsecamente buone e docili, vittime innocenti dei soprusi e destinate a un futuro glorioso.
Certamente le storie generali si segnalano per un approccio più critico alle vicende del 1848 che consente un’analisi più dettagliata di certi aspetti e si discosta da quel sovraccarico di emozioni e passioni che gli altri saggi cercano di veicolare. Detto ciò, anche simili opere si collocano all’interno della logica narrativa propria della restante produzione. Per quanto possano essere maggiormente consapevoli che il dominio asburgico è intollerabile semplicemente in quanto straniero169, accettano tale principio senza discussione, e in ogni caso non si perde occasione per criticare la cattiva amministrazione asburgica. L’austriaco non è più una figura quasi demoniaca, ma si resta ben lontani da qualunque accenno positivo, mentre all’estremo opposto non vi è traccia di ingiustizie o crudeltà perpetrate dagli italiani. Nonostante la narrazione più fredda e distante, l’orgoglio per le imprese dei compatrioti, l’adesione personale degli autori all’«idea nobilissima della nazionalità»170, l’esaltazione delle virtù morali dimostrate dagli italiani anche nella sconfitta riemergono sempre in qualche punto dell’opera, sottolineati da uno stile che si fa epico ed enfatico, anche nei lavori più attenti a evidenziare le mancanze del movimento nazionalista:
Non che eserciti disciplinati, ma gioventù nuova alle armi, ma popolazioni pacifiche e città aperte, affrontarono la morte, […] non solo coll'impeto istantaneo, ma colla difficile perseveranza, e anche dopo perduta la fiducia del vincere. […] Fra i deplorabili dissensi, il bisogno della nazionalità fu sentito comunemente; espresso da singhiozzi prima, dall'esultanza poi, in fine dalle proteste.171
168 Cesare Cantù, Storia dei cento anni (1750-1850), Vol. 3. 169 Si veda ad esempio ivi, pp. 474-5.
170 Ivi, p. 473. 171 Ivi, p. 555.
La conclusione di tale passo è inoltre indicativa di come i destini della causa italiana siano sempre affidati all’universale adesione alla lotta di liberazione: dunque, al di sotto delle considerazioni di Cantù sulla necessità di un’educazione nazionalista del popolo altrimenti politicamente immaturo, troviamo la consueta struttura narrativa per cui l’Unità e l’indipendenza del paese saranno conseguite nel momento in cui la popolazione italiana sarà coinvolta in una mobilitazione totale, superando contrasti e divisioni interne.
Nonostante tutto, lo stile distaccato non implica quindi il rifiuto dell’impianto narrativo consueto; corrisponde invece alla differente funzione di questi lavori, che paiono preoccuparsi poco di fare proselitismo alla causa italiana e maggiormente di intavolare una discussione sulle strategie per garantirle successo futuro (senza dimenticare che questi saggi devono innanzitutto riportare gli eventi storici spesso sul lunghissimo periodo). Riducendo la componente propagandistica dei testi, trova spazio una riflessione sugli eventi e sulle loro spiegazioni, sul ruolo svoltovi dai vari attori coinvolti, che presuppone comunque alla base la condivisione, non necessariamente consapevole, dei pilastri della narrazione nazionalista della storia (adesione al principio di nazionalità, “italiani buoni” contro “malvagi tedeschi”, discordia come fattore chiave delle sconfitte): queste opere sembrano insomma dare già per acquisita la bontà della causa nazionale e con essa la crudeltà austriaca e il valore dei patrioti e di conseguenza sentono meno il bisogno di soffermarvisi.
Lo stile è senza dubbio più posato, gli autori meno evidentemente partecipi che altrove, tuttavia non mancano passi in cui il tono si fa più altisonante e denso di pathos, in particolare nel sottolineare l’onorevole condotta dei combattenti italiani o nel descrivere il momento della sconfitta e lo sconforto che lo accompagna: Qual fosse lo stato di Milano in quella notte e nelle prime ore del dì che sorse è più facile immaginare che descrivere: più di centomila persone d'ogni età, sesso e condizione uscivano dalla città: dappertutto udivansi pianti, gemiti, grida di dolore, accenti di disperazione e di cordoglio; e vedevansi gentildonne andare a piedi, scarmigliate e lagrimose, co' loro figlioletti in collo; e vecchi portati sugli omeri de' loro figli; e malati e feriti raccomandarsi alla pietà de' congiunti e degli amici, onde sottrarli all' odiosa vista de' vincitori: e sì grande il pubblico dolore e sì inattesa la sventura, che più di cento cittadini smarrirono in quel di la ragione, e li vedevi erranti per le deserte vie della città con urli disperati, con dirotto pianto, o con risa forsennate, combattere
nemici che non v' erano, rallegrarsi d' immaginata vittoria, o accusare di tradimento la moglie, i figliuoli e i loro più cari.172