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Il nemico naturale e la giusta rabbia vendicativa

TEMI, FIGURE E CLICHE' DELLA LETTERATURA SUL 1848

3. L’AUSTRIACO: CRUDELTA’ E BESTIALITA’

3.1 Il nemico naturale e la giusta rabbia vendicativa

Se il patriottismo è quel valore spontaneo sopra descritto, allora sarà inevitabile che gli austriaci siano identificati come nemici altrettanto naturali e logici del popolo italiano.

La raffigurazione di tale nemico è ancora più lineare di quella del patriota: così come i combattenti italiani sono eroi valorosi e magnanimi privi di sostanziali colpe, i loro oppositori saranno sempre ritratti come esseri malvagi, infidi e violenti, privi di scrupoli. Nel capitolo precedente si è già avuto modo di illustrare qual era l’immagine dell’austriaco circolante nella produzione letteraria e saggistica sul 1848, un ritratto cui resta poco da aggiungere, anche perché nella sua semplicità e chiarezza presenta variazioni minime e quasi nessuna eccezione. Qualunque autore, nel momento in cui si sofferma a tratteggiare il profilo dei soldati asburgici, così come delle autorità civili e militari dell’impero, li qualifica sempre come barbari, assassini crudeli, belve disumane, guidati da un’innata malvagità in ogni loro atto o decisione.

L’attribuzione ai tedeschi di un atteggiamento crudele, sleale e spesso vigliacco, contrapponendosi alla condotta prode e cavalleresca, sprezzante del pericolo                                                                                                                

332 Fuller, Un’americana a Roma, p. 358. 333 Ivi, p. 359.

propria dei loro oppositori, contribuisce a farne la nemesi per eccellenza degli italiani, il loro naturale opposto, malvagio ed esecrabile quanto questi ultimi sono buoni e valorosi. Per rafforzare quest’immagine dell’Austria come grande rivale e nemico del popolo italiano è naturale insistere sul lungo rapporto di conflittualità che avrebbe contrapposto i due paesi: molto frequenti nei testi sono così i richiami ai lunghi anni della dominazione asburgica su parte del territorio nazionale e spesso si allude a un antagonismo che affonda nei secoli medievali. Così le lotte tra i comuni e l’impero, e soprattutto i celeberrimi episodi del conflitto contro il Barbarossa, sono letti alla luce di vicende storiche di molto successive.

Cesare Cantù, ad esempio, descrivendo tali eventi nella sua storia di Milano, pur rilevando come il contesto politico dell’epoca fosse fondamentalmente diverso ed evidenziando che non si può dunque omologare le vicende della lega lombarda alle recenti insurrezioni, non manca di sottolineare la crudeltà dell’imperatore e dei suoi uomini334 e si lascia sfuggire commenti perfettamente applicabili nella situazione del presente: «Non saria stato meglio che rimanessero a casa loro? meglio per essi e per noi?»335 Inoltre, ugualmente attuale è la morale che egli trae dalla vicenda: gli italiani sono corresponsabili della presenza straniera sul loro territorio a causa delle divisioni e rivalità interne, ma nel momento in cui fanno fronte comune sono perfettamente in grado di prevalere e scacciare l’infido tedesco336.

La feroce rivalità con i tedeschi sfocia in una rabbia vendicativa che si palesa in tutta la sua forza e veemenza nelle poesie che incitano all’intervento armato: Su quei rei di sangue lordi il furor si fa virtù. Ogni spada divien santa Che nei barbari si pianti»337 o ancora «Tutto, tutto il bel paese Guerra echeggi: morte al vile Che tant' anni ci calcô: Guerra suonino le chiese Che il ribaldo profanò»338. La guerra deve proseguire sino alla completa espulsione dei tedeschi dal paese o alla loro uccisione; solo così si potrà risanare pienamente l’onore italiano infangato dalle infamie commesse dal suo dominatore:

O Lombardo coraggioso Ti rallegra, siamo in porto, Ma di calma e di riposo

                                                                                                               

334 Cesare Cantù, Milano. Storia del popolo e pel popolo, pp. 72-5. 335 Ivi, p. 68.

336 Ivi, pp. 75-8.

337 Carrer, Canto di guerra in I poeti della patria, p. 303. 338 Ivi, p. 304.

Per noi tempo ancor non è. Il nemico fuggitivo

Teme il nome d'un Lombardo, Ma Radetzchi ancora è vivo, È un infame traditor. […] È fuggito, debellato, Avvilito quell'infame, Ma da morte fu salvato Dall'infamia il traditor. Depor l'armi non dobbiamo, Sia terribile il Lombardo339

Benché sia spesso esplicitato che le ragioni del conflitto cesserebbero non appena i tedeschi si ritirassero dal suolo italiano, essi sono fatti oggetto di un odio profondo che appare estinguibile solo attraverso una rivalsa violenta. Lo stesso sentimento si ritrova espresso chiaramente, sebbene in toni più posati, nel capitolo iniziale di Maria da Brescia:

 

Vedi ora, o Ernesto, s'io debba odiare gli austriaci. Ah si! tu ne hai tutte le ragioni.

Io non posso respirare che dell'esecrazione per loro; il mio amore che tutto si rivolge sopra di te, lo ritrarrei a costo di morirne d'affanno, se tu non dividessi questo mio odio. […]

La vendetta ce la dobbiamo fare da noi; […] Spetta a noi il lavare le nostre vergogne nel loro sangue.340

Quest’odio radicato viene spiegato e legittimato in questo caso specifico da una lunga serie di soprusi che la famiglia di Maria avrebbe subito, descritti nelle pagine precedenti. Si può così notare una tendenza ampiamente diffusa nell’intera produzione scritta presa in esame, quella di attribuire alle scelte dell’amministrazione e dell’apparato poliziesco-militare asburgico la responsabilità di ogni motivo d’infelicità della popolazione del Lombardo-Veneto. Oltre alle minime concessioni di libertà individuali e di forme d’autonomia locali, alla rigidità immotivata della censura e all’ingiustificata durezza dell’attività poliziesca, anche l’eccessiva tassazione, l’andamento economico negativo della regione, la massiccia leva militare, la mancata modernizzazione sociale e produttiva sono così riconosciute come responsabilità non accidentali della                                                                                                                

339 Bertolotti, Relazione storica del dominio del tedesco in Milano, pp. 63-4. 340 Ferrari, Maria da Brescia, pp. 41-2.  

dominazione asburgica. Esse sarebbero frutto non semplicemente di valutazioni erronee o oggettivi ostacoli nel modificare la struttura socio-economica dell’Impero, ma di un consapevole disegno che intende perseguire il rafforzamento del potere centrale assolutistico, la spoliazione e l’impoverimento delle province italiane conquistate, la mortificazione delle speranze dei lombardi e dei veneti, nonché quella della locale attività culturale; molte delle decisioni adottate dalle autorità austriache e dalla burocrazia imperiale sono giudicate espressione del desiderio di far soffrire la popolazione civile. Non di rado si evidenzia che tra gli obiettivi finali di tale politica vi sarebbe la prostrazione totale degli italiani, così da renderli servi privi di capacità di contrastare le volontà dei dominatori, un progetto che comunque gli autori sono concordi nel giudicare sostanzialmente lontano dal realizzarsi, data la tempra morale delle vittime. Questa chiave interpretativa rimane fondamentalmente attiva anche nelle analisi più acute e attente a introdurre dei distinguo: per Cattaneo ad esempio le politiche asburgiche sono viziate dal peccato originale di aver adottato una politica di potenza, insensibile ai bisogni delle popolazioni sottomesse, e rigettato qualunque riforma in senso democratico341. Più spesso simili convinzioni sono espresse con brevi ma trancianti accenni al dispotismo austriaco che compaiono in gran parte delle opere. Nessuno comunque pone in evidenza che parte dei pesi e delle richieste che ricadono sul popolo sono comunque riconducibili a inevitabili esigenze statali in materia finanziaria e militare e che sarebbe quindi difficile immaginare una loro totale sparizione anche sotto un differente regime statale. Alle spalle di questo atteggiamento si può cogliere una tendenziale confusione tra il piano delle strategie politiche portate avanti dai vertici dell’impero, quello della condotta adottata dalle figure di spicco dell’esercito, della polizia a delle autorità civili presenti in loco e quello dell’operato dei singoli austriaci, innanzitutto dei soldati e poliziotti che si trovarono o contrastare i moti italiani, ma anche degli impiegati della burocrazia e degli organismi amministrativi asburgici. Non si dubita mai che gli ordini dati dal Viceré e da Radetzky, dai vertici della polizia milanese e da tutti gli ufficiali dell’esercito o dalle autorità civili austriache siano espressione delle disposizioni di Vienna, o quantomeno coincidano con esse nelle linee generali e nella volontà di inasprire il giogo cui sono sottoposti i lombardo-veneti, senza mettere per questo in dubbio che attraverso tali disposizioni si                                                                                                                

manifesti anche l’effettiva volontà personale di tutte queste figure. Lo stesso discorso si può riferire alle violenze commesse dai soldati e ai crimini polizieschi: secondo la lettura fornita dalle opere, la condotta delle truppe imperiali riflette sempre i disegni degli spietati superiori, rivelando però al contempo l’incapacità dei tedeschi di frenare i loro istinti bestiali; le violenze non sono un caso, ma l’applicazione di esecrandi piani dei superiori, non certo un atto d’indisciplina, né un risultato della momentanea esasperazione degli animi.

Al di là della correttezza storiografica di una simile raffigurazione dell’Austria e degli austriaci, l’Impero ne esce come un mostro mitologico dalle molteplici facce, tutte però concordi nell’opera di devastazione e annientamento del nemico: Avvi un essere però più della iena e dell'assassino feroce, intelligente come una scimia (sic), sitibondo di sangue come il vecchio Titano: essere gigante che appunto perché maggior spazio occupa su questa terra, più compie la propria missione di profanarla, di insanguinarla: essere che non dorme mai, e che conduce la vita dell'Argo della mitologia, il quale possiede cioè novantanove occhi intenti a spiar dove si possa derubare, stilettare, opprimere, devastare, mentre uno si chiude al sonno. Questo essere, alla cui esistenza niegheranno loro fede i tardi nepoti, ha nome AUSTRIA, e quest'Austria stava sotto le mura di Brescia in quella notte, rappresentala da un esercito cupido di sangue e di bottino, e guidato da un mostro settuagenario rivestito del carattere di Tenente Maresciallo comandante il secondo corpo dell'armata di riserva, Haynau.

Questo mostro non dormiva, ma s'accingeva a tali infamie che uguali non commisero i barbari dalle sponde del Don e dalla Scizia precipitatisi sull'Italia.342

Sembra mancare completamente la coscienza delle diverse anime presenti nella compagine statale e nella società austriaca: la politica seguita dai comandi militari, da Radetzky e da Haynau in primis, è percepita come diretta manifestazione della volontà dell’Impero, trascurando del tutto la possibilità che esistano forze politiche o ceti sociali non pienamente allineati alle scelte del governo e dell’imperatore.

Va comunque notato che gli austriaci descritti nei testi sono ovviamente quelli presenti sul territorio italiano e che il monolitismo con cui è rappresentata l’Austria tende a sfumare nelle rarissime occasioni in cui gli autori si trovano a trattare della società civile austriaca e non solo delle forze occupanti la Penisola: gli austriaci ritratti come barbari brutali sono i soldati giunti in Italia e, meno frequentemente, i funzionari statali, comunque un volto della dominazione                                                                                                                

straniera. L’unica opera che si dilunga sui pittoreschi costumi delle valli alpine e sulla Vienna tumultuante del 1848, Gli Ostaggi di Mascheroni, offre, infatti, un quadro decisamente meno negativo della società dell’Impero, che torna a essere composta da individui “civilizzati”, che possono anche dissentire nei confronti dell’assolutismo del proprio governo e mostrarsi gentili con gli italiani.

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