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Narrazioni da altre città: un approccio omogeneo

LA NARRAZIONE DEL 1848 E I SUOI GENERI

2. MEMORIALISTICA E SAGGI SULLE CINQUE GIORNATE: TRA RICORDO DEI MOTI E DENUNCIA DEI COLPEVOLI

2.5 Narrazioni da altre città: un approccio omogeneo

Non sorprende che le Cinque giornate di Milano costituiscano uno degli oggetti privilegiati della narrazione sul 1848: soltanto all’esperienza della Repubblica Romana sembra essere dedicato un numero di pagine paragonabile. Si potrebbero chiamare in causa svariati fattori che affascinavano gli scrittori: dall’imprevedibilità dell’evento allo stretto collegamento con lo sviluppo della Prima Guerra d’Indipendenza, dalla possibilità di narrare un trionfo, sia pur momentaneo, all’importanza della città in sé. Ma molte altre vicende cittadine suscitarono l’interesse degli scrittori: per restare allo scenario dell’Italia settentrionale, quelle più rilevanti, esclusa Milano, riguardano evidentemente Brescia e Venezia.

                                                                                                               

154 Una lunga e dettagliata descrizione di questi eventi, emblematica dell’atteggiamento al riguardo, uniformemente presente anche in altre opere, si può trovare in Venosta, Le cinque

giornate di Milano, pp. 7-51; cfr anche I. Cantù, Storia ragionata e documentata della rivoluzione lombarda.

Le opere relative a questi e altri centri urbani ancora descrivono spesso situazioni differenti rispetto al capoluogo lombardo quanto ai protagonisti della lotta (moderati o democratici, cittadini o masse rurali, eserciti regolari o forze di polizia), alla sua collocazione cronologica nel lungo 1848, ma soprattutto alla natura dello scontro: sia Venezia che Brescia offrono lo scenario di una città assediata, che infine dovrà arrendersi al nemico, più frequente della città che insorge e scaccia l’austriaco rappresentato da Milano.

Ciononostante viene replicata la struttura narrativa di base applicata anche alle Cinque giornate e si ritrovano le stesse coordinate ideologiche e assunti essenziali: non soltanto si mantengono uno stile e un tono analoghi a quelli che si è già avuto modo di descrivere ma sono spesso riproposti gli stessi temi e gli stessi topoi. Ritroviamo quindi lo spietato invasore austriaco, brutale e selvaggio, barbarico e crudele, al cui cospetto risaltano le virtù dei combattenti ma anche dei civili italiani: la cittadinanza anche in questi casi partecipa concorde e con ogni mezzo alla lotta, dando prova di abnegazione, dignità e coraggio. L’intollerabilità e l’illegittimità della dominazione asburgica ancora una volta è un presupposto indiscusso e non pienamente motivato. Lo scontro con il nemico è sempre promosso e sostenuto dalla salda volontà popolare. Le differenze negli esiti della lotta possono comunque portare a un’enfatizzazione di certi temi e questioni: la crudeltà e le atrocità proprie dei soldati tedeschi possono trovare spazio ancora maggiore; negli italiani sono invece messe in maggior evidenza virtù quali la dignità nella sconfitta, la disponibilità al sacrificio e alla lotta senza speranza di vittoria. Tutto ciò si connette con il tema del martirio che i fatti narrati consentono di approfondire: gli assedi di Venezia e di Brescia, anzi, assumono valore e importanza nella memoria proprio in virtù del loro valore di testimonianza dell’estremo valore dimostrato dagli eroici difensori.

Il più noto resoconto delle Dieci giornate bresciane è I dieci giorni

dell’insurrezione di Brescia, pubblicato già nel 1849 da Cesare Correnti

(1815-88), uomo politico, giornalista ed economista milanese, personaggio dall’interessante parabola politica oscillante tra destra e sinistra che gli valse una lunga serie di incomprensioni e accuse di tradimento da entrambe le parti. Privo di un’ideologia stabile e ben precisata, moderato nelle opinioni, Correnti è inizialmente vicino ai democratici e partecipa all’organizzazione dell’insurrezione milanese; negli anni precedenti ad essa si distingue anche per la sua

collaborazione con diverse riviste e almanacchi, che ne rivela le abilità di educatore e divulgatore presso le masse. Celebre è il suo opuscolo L’Austria e la

Lombardia, che rientra nella propaganda anti-asburgica precedente al moto. Nel

1848 entra nel governo provvisorio, unico esponente dei democratici seppur su posizioni più concilianti, ma, con una svolta politica che provoca una rottura con i suoi compagni, si pronuncia favorevolmente alla fusione con il Piemonte, ove emigrerà in seguito alla vittoria austriaca. Entrato in parlamento, torna ad avvicinarsi alla sinistra di Brofferio e Valero, ma abbandona l’opposizione in seguito alla guerra di Crimea, sposando i progetti di Cavour nella speranza di raggiungere l’Unità nazionale.

Dopo il 1861 e l’esperienza di scarso successo come consigliere per la riorganizzazione della Lombardia, lo troviamo nelle fila della destra storica, parlamentare sino al ’66 e in due occasioni ministro dell’istruzione, incarico che onora con importanti riforme a favore di una scuola laica e democratica, palesando il suo anticlericalismo di lunga data. Contribuirà in seguito alla caduta della Destra nel ’76, spostandosi nuovamente verso la sinistra e diventando stretto collaboratore di Depretis155.

I dieci giorni dell’insurrezione di Brescia si apre con un richiamo ai conflitti

comunali del Medioevo riletti in chiave nazionalista, nei quali Brescia avrebbe già dimostrato la sua naturale combattività e dedizione alla causa italiana156. Dopo aver brevemente tratteggiato le condizioni della città dopo la ritirata piemontese e i piani di un’insurrezione che doveva coordinarsi con il riaprirsi del conflitto, Correnti descrive nel dettaglio le varie fasi dello scontro: dalla partenza del grosso del contingente austriaco presente in città ai primi assalti guidati dal Nugent, respinti fuori dalle mura cittadine, dalla sortita, velleitaria e disastrosa negli esiti ma comunque gloriosa, tentata dai bresciani all’attacco finale diretto dall’Haynau che penetra in città ma si scontra con l’indomita resistenza della popolazione, sino alla resa di Brescia dopo che gli austriaci hanno rotto le linee di difesa grazie agli incendi appiccati alle abitazioni. In chiusura, dopo essersi dilungato sulle stragi perpetrate dagli austriaci sulla popolazione ormai prostrata e sulle punitive scelte austriache nel governo della città nei giorni successivi, l’autore sottolinea ancora                                                                                                                

155 Su Correnti si veda B. T. Massarani, Cesare Correnti nella vita e nelle opere,; Marziano Brignoli, Cesare Correnti e l’Unità d’Italia; Amrosoli, Correnti, Cesare in Dizionario Biografico

degli italiani, vol. 29.

una volta l’eccezionalità della resistenza come fatto militare e morale data la drammatica sproporzione di forze.

Per la breve lunghezza, poco oltre il centinaio di pagine, la rapidità con cui è prodotta e il tono indignato ma spesso crudo con cui sono descritti molteplici assassini e atti di crudeltà dei soldati nemici, l’opera ricorda Gli ultimi cinque

giorni degli austriaci in Milano di Cantù. Differente è però lo scopo del volume e

la lettura degli eventi narrati: essi offrono l’occasione, com’è esplicitato sin dalle prime pagine, di riaffermare l’onore dei lombardi messo in discussione dalle precedente disfatta, restituendo speranza per i futuri d’Italia e mostrando che era possibile sospendere la lotta tra fazioni politiche per combattere il nemico comune:

certo la gloria delle cinque giornate, e la istintiva civiltà del popolo lombardo, e la sua eroica perduranza nella fede nazionale sarebbero forse un dubbio per l'Italia, pei posteri, e per noi medesimi, che pur abbiamo provata l'ebbrezza della vittoria e la gioia dell'ammirazione, se Brescia nel 1849 non si fosse levata a mostrare di nuovo, dove e a che prezzo sia la devozione alla patria, e la grandezza dei pensieri e delle opere. E non é soltanto l'onore lombardo che Brescia salvò nel 1849: ma é soprattutto la fede nel popolo, e la coscienza di quello che vale il popolo, che la città magnanima reintegrò coll'esempio, rendendo gloriosa la sua caduta come una vittoria e la sua disperazione profetica come un religioso sagrificio. Dopo la turpe catastrofe dell'agosto 1848 non ci rimaneva che il dubbio e lo scherno. Ora abbiamo qualche cosa da ammirare, qualche cosa in cui credere. Gloria a Brescia salvatrice dell'avvenire!157

Dunque il martirio della città e il valore guerriero degli insorti risollevano l’onore “nazionale”: è cruciale che il popolo sia desideroso di combattere e che le autorità debbano anzi preoccuparsi, almeno inizialmente, di frenarne gli ardori e che lungo tutto l’arco dei combattimenti la proposta di resa sia più volte respinta nonostante le scarse speranze di un successo concreto. Molto significativo è anche che i difensori palesino, attraverso una lunga serie di atti d’eroismo, spesso accompagnati da sagaci motti di spirito, un atteggiamento temerario oltre i limiti della prudenza e a volte sconfinante nell’autolesionismo, quasi a cercare la morte gloriosa per la patria o a sacrificare la propria vita pur di infliggere danni al nemico così da vendicarsi158.

                                                                                                                157 Ivi, p. 6.

158  Ivi, pp. 24-36, 39-41, 46-7, 56-8. Sulla volontà di rivalsa come motivazione alla lotta si veda in particolare ivi, p. 27.  

Se il caso di Brescia si presta sin dai mesi immediatamente successivi a una lettura che evidenzi il valore di testimonianza del fatto e tralasci invece il rimpianto per una sconfitta che sembrava inevitabile, Venezia, rimanendo in mano austriaca sino al 1866, stimola al contrario un atteggiamento più mesto e recriminatorio nel ricordarne la caduta nel ’48, anche a lunga distanza dagli eventi. Ancora nel 1863 la narrazione imbastita da Celestino Bianchi ne Venezia e

i suoi difensori (1848-49) è velata dal rammarico per l’esclusione della regione

veneta dai più felici destini del resto del paese, riunificato sotto i Savoia, e ricorda a più riprese come la missione nazionale non sia del tutto compiuta.

Bianchi (1817-85) è un giornalista e politico esponente del liberalismo moderato toscano, filo-piemontese ma favorevole al mantenimento di spazi d’autonomia regionale. Incline a iniziative clamorose poco in linea con l’atteggiamento più portato ai compromessi del suo partito, come la stesura de Toscana ed Austria, un opuscolo che generò scalpore, Bianchi deve limitare pesantemente la sua intensa attività di giornalista politico (ha collaborato a La Patria e fondato Il nazionale) in seguito alla conclusione del 1848. Dopo essere stato nel 1859 commissario del governo provvisorio toscano, avvia la propria lunga militanza nella destra storica per cui è deputato in più legislature e segretario generale del ministero dell’Interno dal 1861 al ’66, divenendo stretto collaboratore e confidente di Ricasoli, senza abbandonare per questo la carriera giornalistica.

La distanza cronologica dal 1848 sembra aver alleggerito i toni della polemica politica, consentendo un’analisi degli eventi e delle strategie politiche meno smaccatamente militante: Bianchi, anche in virtù della sua posizione ideologica intermedia si lancia in entusiasti giudizi sulla figura di Manin, uno tra gli eroi principali della narrazione159, ma non cela difficoltà e mancanze dei suoi governi. Allo stesso modo è evidenziata la ragionevolezza delle posizioni dei fusionisti e la statura morale di moderati e filo-monarchici come i commissari regi160, senza per questo ridurre minimamente i gravi errori militari del re e degli ufficiali161.

Il testo si apre rivisitando in poche pagine l’intera storia di Venezia dalla fondazione all’apogeo del XV secolo, passando quindi attraverso una lenta e graduale decadenza sino all’ignominioso trattato di Campoformio e alla deprecabile dominazione asburgica. Narra quindi le vicende del 1848 nella                                                                                                                

159 Bianchi, Venezia e i suoi difensori, pp. 41-3. 160 Ivi, pp. 92-3, 99.

prospettiva cittadina, con rapidi cenni a inserirla nel più ampio scenario italiano. Bianchi si sofferma a descrivere le cruciali giornate del marzo ’48: la liberazione quasi pacifica di Venezia è attribuita all’abilità politica di Manin, che agita la piazza, e dell’avvocato Avvesani, che conduce la trattativa con i governatori austriaci. Prima di concludersi descrivendo nel dettaglio i mesi dell’assedio della città lagunare e la resa della città stremata, l’opera rende conto del dibattito politico e delle varie transizioni istituzionali attraversate da Venezia.

Al di là della peculiare limitatezza di riferimenti alla ferocia dei tedeschi, temi e posizioni ideologiche riguardo ai concetti centrali del nazionalismo dell’opera non si distanziano da quelli che abbiamo già più volte incontrato, semmai alcuni concetti patriottici possono farsi ancor più espliciti, una volta raggiunta una prima Unità nazionale. Ecco dunque che, discutendo delle ragioni per cui il governo asburgico risultava odioso ai veneziani, Bianchi, pur effettuando una disanima ricca di motivazioni più prosaiche (ad esempio il porto è trascurato a favore di Trieste), esplicita che l’assoggettamento allo straniero è di per sé motivo di umiliazione e risentimento162. Nella narrazione di Bianchi la decadenza veneziana è generata da istituzioni obsolete e da un ceto dirigente inadeguato, non certo da una crisi morale del popolo, che, infatti, nel 1848 è il vero protagonista della resistenza: ancora una volta il desiderio di combattere sino al venir meno d’ogni possibilità di successo, l’eroismo dei difensori163, la capacità, a dispetto della sproporzione delle forze, di fare più vittime trai nemici di quanti siano i caduti tra le proprie fila (rivendicata in quasi ogni opera) consentono di riabilitare, pur nella sconfitta, l’onore italiano.

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