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Secondo un’opinione diffusa, l’esplosione della crisi in Grecia e la sua rapida propagazione ad altri Stati dell’eurozona hanno evidenziato “la debolezza del modello di unione economica e monetaria disegnato a Maastricht”135, al quale sarebbero anzi da ricondurre le cause della crisi136. La principale ragione di tale debolezza è altrettanto diffusamente attribuita a quella che all’inizio abbiamo definito l’asimmetria tra i pilastri economico e monetario dell’UEM, la circostanza cioè che, se il secondo è basato su una competenza esclusiva dell’Unione gestita a livello europeo attraverso un’autorità europea indipendente come la Banca centrale europea, il primo risulta sostanzialmente incentrato sulle competenze degli Stati membri, nelle cui mani resta in linea di principio il controllo delle rispettive politiche economiche. Ma la generale sottolineatura di tale asimmetria ha avuto per lo più l’obiettivo, in realtà, di indicare proprio nell’assetto del pilastro economico dell’UEM il “peccato originale” del modello di Maastricht, perché – è stato osservato – esso non ha consentito un effettivo coordinamento delle politiche economiche (e non solo di quelle di bilancio), capace di generare una convergenza delle economie degli Stati membri137.

In verità, sarebbe più corretto osservare come il modello di UEM disegnato da Maastricht soffra di “limiti” non suoi, perché questi sono limiti dello stesso modello su cui si è finora sviluppato il processo d’integrazione europea: un modello che vede coesistere al suo interno, in una miscela del tutto originale, elementi tanto di un’organizzazione internazionale di stampo classico, che di un’entità federale in senso proprio; e che per questo deve conciliare, in un equilibrio non sempre facile, un trasferimento di competenze sempre più ampie verso le istituzioni dell’Unione con il mantenimento in capo agli Stati e ai decisori nazionali delle scelte di fondo di alcune politiche, quelle che giustificano l’esistenza stessa degli apparati statali138. Le politiche

134 Una soluzione del genere avrebbe evitato anche l’impressione di un’associazione “obbligatoria” del

Presidente della Commissione ai lavori del Vertice euro, visto che il Protocollo n. 14 coinvolge formalmente la Commissione nei lavori dell’Eurogruppo. Ad ogni modo, anche a rimanere alla formulazione attuale del Vertice euro, sarebbe stato sicuramente più corretto coinvolgere il Presidente della Commissione a titolo di invito, così come lo stesso art. 12 peraltro prevede per il Presidente della Banca centrale europea e per il Presidente del Parlamento europeo. Tanto per il primo che il secondo, infatti, l’art. 12 stabilisce che il Vertice euro può invitarli alle proprio riunioni.

135 Cfr. per tutti F.D

ONATI, Crisi dell’euro, governance economica e democrazia nell’Unione europea, in

Il Diritto dell’Unione Europea, 2013, p. 337 ss., p. 338.

136 Ricorda questa opinione diffusa G.L.T

OSATO, L’integrazione europea ai tempi della crisi dell’euro, cit., p. 682 ss. Si vedano al riguardo M.RUFFERT, The European Debt Crisis and Europea Union Law, cit., p. 1793 ss.; L.ALLA, Verso una nuova governance economica della UE, in Amministrazione in

cammino online, 24 novembre 2011, p. 1 ss.; S. MICOSSI, Unholy Compromise in the Eurozone and How

to Mend It, CEPS Policy Brief no. 277, July 2012, disponibile su http://www.ceps.eu.

137 Cfr. per tutti C.A

LTOMONTE,A.VILLAFRANCA, F.ZULEEG, La riforma della governance economica

europea, in ISPI, Osservatorio di politica internazionale, n. 27, aprile 2011, p. 5.

138 R. A

DAM, A. TIZZANO, Lineamenti di diritto dell’Unione europea, Torino, 3 ed., in corso di pubblicazione, Capitolo I, paragrafo 1.

economiche sono da questo punto di vista uno dei, se non il terreno principale di questo difficile equilibrio139, ed è quindi da pensare che un assetto del pilastro economico dell’UEM che non avesse tenuto conto di tale equilibrio non sarebbe stato possibile senza un superamento definitivo dello stesso modello di integrazione europea, quale oggi conosciamo.

Passando poi a un piano più specifico, la critica del modello di UEM (o per meglio dire del suo pilastro economico) disegnato dal Trattato di Maastricht appare ancor più ingenerosa, quando si consideri che proprio quel modello ha costituito comunque la base formale dell’assetto di governance uscito dalla riforma descritta nelle pagine precedenti. Questa è stata infatti realizzata quasi esclusivamente con modifiche del quadro applicativo e non del Trattato. Gli interventi operati attraverso il ricorso a una fonte superiore o diversa dal diritto derivato sono stati invece, oltre che numericamente esigui, non strettamente necessari quanto meno da un punto di vista formale.

Questo è certamente vero per la modifica apportata all’art. 136 TFUE al fine di autorizzare gli Stati membri della zona euro a creare un meccanismo permanente di stabilità finanziaria. Senza ritornare sulle perplessità che, come si è visto, la modifica ha suscitato per altri aspetti, è certo infatti che la creazione del MES non necessitava di quella autorizzazione per essere realizzata. Una conferma indiretta viene dalla circostanza che il MES sia entrato in vigore (27 settembre 2012) prima ancora dell’entrata in vigore della modifica dell’art. 136 (1° maggio 2013). Una conferma diretta e formale, è data invece dalla sentenza resa dalla Corte di giustizia nel più volte citato caso Pringle. In quella sentenza, infatti, la Corte ha esplicitamente riconosciuto che il nuovo par. 3 dell’art. 136 si è limitato a “confermare” una competenza già esistente in capo agli Stati membri (punto 72), visto che anche il principio del no bail-

out di cui all’art. 125 TFUE non “è diretto a vietare (…) agli Stati membri la

concessione di qualsiasi forma di assistenza finanziaria ad un altro Stato membro” (punto 130), ma, impedendogli di rispondere o farsi carico degli impegni finanziari di questo, punta solo “a garantire che gli Stati membri rispettino una politica di bilancio virtuosa” (punto 135). Peraltro, la nuova disposizione inserita nell’art. 136 non esprime un suo valore aggiunto nemmeno rispetto ai vincoli che, secondo la Corte, il diritto dell’Unione pone comunque all’esercizio di quella competenza: essa, infatti, non attenua, né aggrava quei vincoli, ma si limita a confermare sia il presupposto (la salvaguardia della stabilità della zona euro) che il limite (soggezione ad una rigorosa condizionalità), cui la concessione di un’assistenza finanziaria doveva già considerarsi subordinata in base al Trattato 140.

Venendo poi al Fiscal Compact, il carattere per lo più non necessitato delle sue disposizioni è, quanto meno dal punto di vista giuridico, del tutto evidente. Mentre

139

Così F.DONATI, Crisi dell’euro, governance economica e democrazia nell’Unione europea, cit., p. 350 s. Cfr. anche K.TUORI, The European Financial Crisis. Constitutional Aspects and Implications, cit.,

p. 9.

140 Secondo la sentenza Pringle cit. questo pone l’obbligo che qualsiasi assistenza finanziaria sia

subordinata ad una rigorosa condizionalità, la quale è diretta “a garantire la conformità delle attività del MES, in particolare, con l’art. 125 TFUE e con le misure di coordinamento adottate dall’Unione” (punti 111 e 121, ma anche, più diffusamente, punti 136 ss.). Aveva sostenuto la contrarietà all’art. 125 dei meccanismi di stabilizzazione finanziaria, M.RUFFERT, The European Debt Crisis and Europea Union

Law, cit., p. 1785 ss. Al riguardo vedi J.-V. LOUIS, The No Bail-Out Clause and Rescue Packages, in

Common Market Law Review, 2010, p. 971 ss.; e A. DE GREGORIO MERINO, Legal Developments in the

Economic and Monetary Union during the Debt Crisis: The Mechanisms of Financial Assistance, cit., p.

quelle poche che sfuggono a un giudizio così netto, avrebbero potuto essere poste in essere attraverso il diritto dell’Unione. È questo il caso, prima di tutto, del coinvolgimento della Corte nel controllo sul rispetto degli obblighi riguardanti la regola del pareggio di bilancio, il quale, come si è detto, sarebbe stato comunque possibile in base all’art. 273 TFUE, ma ovviamente non con le modalità che, attraverso l’art. 8 del

Fiscal Compact, gli si è voluto attribuire. E lo stesso è da dirsi con riguardo alla regola

di bilancio, benché essa diventi proprio grazie al Fiscal Compact oggetto esplicito di un obbligo giuridico e, soprattutto, di un obbligo di inclusione formale nel diritto nazionale 141

. Anche qui, infatti, lo stesso risultato avrebbe potuto essere raggiunto, pur se probabilmente non con lo stesso rilievo mediatico, anche attraverso norme dell’Unione. Non a caso, una delle due proposte della Commissione sulla cui base è stato adottato il

Two Pack, puntava a imporre anch’essa l’obbligo di recepire in norme interne

preferibilmente costituzionali la regola del pareggio di bilancio, benché poi il Consiglio abbia preferito accantonare questa parte della proposta142.

Se così è e se, al contrario, la riforma della governance economica realizzata per le vie istituzionali ha portato a un assetto della stessa ben più compiuto e completo di quanto non fosse quello inizialmente costruito con il Patto di stabilità e crescita, se ne deve concludere, in primo luogo, che le inadeguatezze mostrate da quella governance allo scoppiare della crisi erano inadeguatezze non tanto del modello disegnato a Maastricht, ma piuttosto della disciplina con cui a quel modello è stata data inizialmente applicazione; e in secondo luogo, che il modello di Maastricht, pur nel suo apparente dettaglio, disponeva, al pari di tante altre parti dei Trattati, della necessaria flessibilità per atteggiare quella disciplina in maniera più rispondente alle esigenze di un’efficace UEM.

Sarebbe naturalmente facile, e non del tutto infondata, l’obiezione che quella flessibilità è stata usata in taluni casi al limite della legalità. Gli esempi sono stati fatti in precedenza e non vale la pena di ritornarci, se non per sottolineare nuovamente come gli imperativi imprescindibili della crisi finanziaria fornissero più di una ragione per interpretazioni delle norme rilevanti dei Trattati particolarmente estensive e comunque finalizzate prima di tutto a dare risposte rapide alle urgenze della crisi. Certo, in alcuni casi, e con maggior ponderazione, si sarebbero potute trovare formulazioni e soluzioni più ortodosse o meglio costruite. Ma nell’alternativa pressante tra rapidità della reazione alla crisi finanziaria e rispetto formale della legalità, non vi era probabilmente altra scelta143.

Vi è piuttosto da chiedersi se, per il diverso equilibrio tra competenze degli Stati e ruolo delle istituzioni che questo percorso di riforma ha finito per disegnare, il nuovo assetto della governance europea dell’economica non sia arrivato al limite di quanto consentito dal modello di Maastricht. È forte il dubbio, infatti, che ulteriori modifiche di

141 Anche se, come si è già visto in precedenza, essa probabilmente già dispone, indipendentemente dal

Fiscal Compact, di valore giuridico obbligatorio per effetto del regolamento 1466/97, sebbene questo non

lo sancisca indubbiamente con altrettanta chiarezza e soprattutto non ne imponga la consacrazione in una norma – e di rango preferibilmente superiore – degli ordinamenti nazionali.

142 Si veda l’art. 4, par. 1, in fine, della proposta della Commissione del 23 novembre 2011 (COM(2011)

821 def.), in GU C 102 del 5 aprile 2012, p. 16: “Gli Stati dispongono di regole di bilancio numeriche sul saldo di bilancio”, le quali “interessano l’insieme delle pubbliche amministrazioni e sono vincolanti, preferibilmente di natura costituzionale”. Cfr. anche il considerando n. 7 della proposta.

143 Si veda al riguardo B.D

E WITTE, Treaty Games - Law as Instrument and as Constraint in the Euro

Crisis Policy, cit., p. 159, che sottolinea le garanzie di flessibilità e rapidità che offriva ad esempio, ai fini

quell’equilibrio a discapito delle sovranità statali comporterebbero uno spostamento definitivo verso un modello diverso, in cui la più volte richiamata asimmetria di Maastricht rimarrebbe solo sul piano formale. Alcune avvisaglie vi sono144. È però evidente che se ciò avvenisse, la riforma della governance economica richiamerebbe con sé l’esigenza di un intervento più generale sui meccanismi di funzionamento del processo d’integrazione europea, un intervento che non potrebbe probabilmente esaurirsi nell’introduzione all’interno di quella governance di qualche dose più o meno accentuata di “coinvolgimento parlamentare” nazionale o europeo145.

144

Si parla, ad esempio, dell’ipotesi di introdurre la possibilità di stipulare dei c.d. contractual

arrangements tra l’Unione e singoli Stati membri, come nuovo strumento di governance che

consentirebbe di vincolare “contrattualmente” lo Stato “contraente” alla realizzazione di riforme strutturali della propria economia. La proposta, partita dal Consiglio europeo del 13-14 dicembre 2012 (Conclusioni, par. 12), è ricordata nella Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio del 20 marzo 2013 (COM(2013) 166), Verso un’Unione economica e monetaria autentica e

approfondita. Coordinamento ex ante delle grandi riforme di politica economica previste, par. 1. La

fattibilità e le modalità di questi contratti “reciprocamente concordati per la competitività e la crescita” e il loro eventuale collegamento con “meccanismi di solidarietà che possano intensificare gli sforzi compiuti dagli Stati membri che concludono tali intese” saranno discussi dal Consiglio europeo di dicembre 2013. È tuttavia evidente che essi sono diretti a creare, seppur come conseguenza di un vincolo contrattuale volontariamente concluso, un obbligo giuridico alla realizzazione di specifiche riforme strutturali. È da pensare, peraltro, che il tipo, l’entità e le modalità degli incentivi cui si vincolerebbero le istituzioni nel quadro dei meccanismi di solidarietà di cui sopra finirebbero per rappresentare, in sede di “contrattazione dell’intesa”, una fonte di condizionamento anche dei contenuti della o delle riforme da realizzare da parte dello Stato contraente.

145

Si vedano le considerazioni di F. DONATI, Crisi dell’euro, governance economica e democrazia

nell’Unione europea, cit., p. 353 s. (“In assenza di un effettivo potere di governance europea

dell’economia, non si pongono particolari problemi sotto il profilo del rispetto dei principi di democrazia… È tuttavia evidente che una trasformazione di questo modello, attraverso il riconoscimento agli organi dell’Unione di un potere effettivo di indirizzo e di coordinamento, tale da svuotare o comunque limitare fortemente le scelte dei parlamenti nazionali di decidere la propria politica economica, richiederebbe che l’azione degli organi dell’Unione europea fosse supportata da una forte base di legittimazione democratica, che i Trattati non hanno ancora garantito”. In generale sul tema della democrazia nella nuova governance economica dell’Unione, M. STARITA, “Governance economica europea e principi democratici dell’UE”, in questo Volume. Si rinvia inoltre a K. TUORI, The European

Financial Crisis. Constitutional Aspects and Implications, cit., p. 44 ss.; eM.POIARES MADURO,B.DE

WITTE, M.KUMM, “The Euro Crisis and the Democratic Governance of the Euro: Legal and Political Issues of a Fiscal Crisis”, in M.POIARES MADURO,B.DE WITTE, M.KUMM (a cura di), The Democratic

Governance of the Euro, in EUI RSCAS Policy Reports, No. 2012/08 (2012), p. 3-11, disponibile su http://hdl.handle.net/1814/23981. Con rispettivo e specifico riguardo al ruolo in materia del Parlamento

europeo e dei parlamenti nazionali, si vedano invece C. HEFFTLER, W. WESSELS, The Democratic

Legitimacy of the EU's Economic Governance and National Parliaments, in IAI Working Papers, No.

1313 (April 2013); eA.MAURER, From EMU to DEMU: The Democratic Legitimacy of the EU and the

European Parliament, in IAI Working Papers, No. 1311 (April 2013), disponibile su http://www.iai.it/content.asp?langid=2&contentid=892.

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