• Non ci sono risultati.

Crisi della regolazione fordista e potere sulla vita

A partire dal fatto che diamo per scontato che interprete centrale della regolazione fordista sia lo Stato, prendiamo in considerazione le riflessioni di Offe e Lenhardt, due studiosi tedeschi che sul finire degli anni ’70 pongono alcuni problemi teorici relativi appunto al ruolo dello Stato nel modo di regolazione fordista della forza lavoro, fondamentali per capire le evoluzioni degli attuali dispositivi del controllo biopolitico.

60

Offe e Lenhardt98 spiegano che il processo di produzione non è in grado, da solo, di garantire la disponibilità qualitativa e quantitativa della forza lavoro né di motivare i lavoratori a sottomettersi al lavoro salariale. Su questo interviene lo Stato.

Offe e Lenhardt analizzano il ruolo dello Stato in relazione alla funzione specifica di assicurare la trasformazione dei soggetti proletarizzati in forza lavoro salariata, per sottolineare, come in nella fase fordista fosse lo Stato a dover garantire – attraverso il welfare e le politiche keynesiane tendenti alla piena occupazione – la continua vendibilità della forza lavoro sul mercato, fornendo la giustificazione simbolica allo scambio.

La questione è dunque quella della trasformazione dei non-salariati in salariati e il ruolo della politica sociale è quello di assicurare la continua dinamica di ri-proletarizzazione.

Il problema con cui si confrontano Offe e Lenhardt sta nel dover fare i conti con la complessità della società nel momento di crisi del fordismo e questo diviene il terreno di scontro e di affermazione del potere (e quindi del controllo sulla riproduzione della forza lavoro). È proprio l’assunzione di tale complessità che indirizza i due autori a coniugare approccio marxista e teoria dei sistemi così come a rilevare profonde trasformazioni del “politico” nel suo rapporto con il “sociale”.

Il sistema della rappresentanza ha esaurito, secondo loro, la sua capacità di controllo sul sociale. Per Offe e Lenhardt, tuttavia, non si tratta di una teorizzazione dell’autonomia del politico, poiché lo svuotamento della funzione politica del sistema non è conseguenza della sua separazione dal sociale quanto piuttosto il risultato di una fuga del sociale dal sistema politico che si autonomizza e, soprattutto, diviene soggetto attivo. La politica diventa il luogo in cui il sociale dialoga direttamente con l’apparato statale (l’amministrazione) “bypassando” il sistema dei partiti e individuando problemi concreti e generalizzabili (all’insieme delle componenti di una società). Scrive Gozzi nell’Introduzione del saggio di Offe e Lenhardt: “Il problema che si pone una teoria sistemica è dunque quello della direzione politica al fine di conservare l’equilibrio fra le variabili interne. (…) La teoria sistemica99 deve essere intesa come l’espressione teorica di un tentativo reale di soluzione della crisi

98 G. Lenhardt, C. Offe Teoria dello stato e politica sociale, Opuscoli marxisti 30, Feltrinelli, Milano 1979.

99 Come per esempio quella elaborata da Luhmann (N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna, 1984).

Capitolo secondo: Dispositivi di controllo e produzione di biopolitica

61

del sistema (assunta come perdita del grado di strutturazione di un ordinamento sociale) determinata dalla sua complessità, attraverso l’elaborazione di una pratica di esercizio del potere tutta ideologica ossia centrata su una razionalità di sistema che mira a rendere indifferenti le posizioni conflittuali”100.

Ma Offe ritiene (in una sua precedente elaborazione101) questo approccio eccessivamente astratto e prova a risolverlo nella successiva analisi della politica sociale individuando nel “politico” la cornice sistemica, lasciando ogni caratteristica di concretezza ai risultati che seguono lo scontro delle forze sociali in lotta. La funzione politica diventa a suo parere pratica ideologica e tecnocratica.

Offe e Lenhardt partono dal presupposto che lo sviluppo capitalistico distrugge di volta in volta le condizioni di lavoro e di sussistenza. Gli individui vengono quindi a trovarsi nell’impossibilità di comparire sul mercato del lavoro dal lato dell’offerta, non controllando minimamente le condizioni dell’impiego: “Per precisare questo problema si può utilizzare la distinzione tra proletarizzazione attiva e passiva. Il fatto di una massiccia ed incessante proletarizzazione “passiva” ossia di distruzione delle forme di lavoro e di sussistenza esistite “finora”, non dovrebbe essere contestato quale importante aspetto socio-strutturale del processo di industrializzazione. Dal punto di vista sociologico nulla ci dice che gli individui toccati da questo fatto, ossia dall’“espropriazione” delle condizioni di impiego del loro lavoro o di altre condizioni di sussistenza debbano passare ad una situazione di proletarizzazione “attiva”, ossia offrire la loro forza- lavoro sul mercato”102.

I problemi posti da Offe e Lenhardt relativamente alla proletarizzazione attiva sono fondamentalmente tre: un primo problema di legittimazione; un problema di istituzionalizzazione e di controllo delle sfere della vita non collocabili all’interno del rapporto di lavoro salariato; un problema di controllo e pianificazione di domanda e offerta di lavoro sul mercato. Sostenendo che non vi sia stata una fase nella storia del capitalismo in cui il mercato abbia regolato da solo la riproduzione sociale, Offe e Lenhardt ricordano che “…il possessore di forza lavoro diventa operaio salariato prima di tutto in quanto cittadino. In via ipotetica intendiamo per politica sociale l’insieme delle strategie e dei rapporti politicamente organizzati che danno costantemente

100 G. Lenhardt, C. Offe, Op. cit.

101 C. Offe, Lo stato nel capitalismo maturo, Milano, 1977. 102 G. Lenhardt, C. Offe, Op. cit., p. 24

62

luogo proprio a questa trasformazione di possessori di forza lavoro in operai salariati…”.103

Questo ragionamento presuppone come dato di fatto una fuga dal rapporto di lavoro salariato che si dà in diverse forme. Forme quali l’accattonaggio, il furto, ecc., generalmente definibili come “forme di esclusione”, non vanno intese al di fuori di questo rapporto ma sono, piuttosto, un suo prodotto, data l’appropriazione privata del prodotto del lavoro. Il fatto che siano una costrizione o una fuga può essere ampiamente discusso. Scrive L. Fiocco: “Per lungo tempo la riproduzione della forza lavoro futura è passata “naturalmente” attraverso condizioni materiali e sociali d’esistenza della famiglia […]. Con il welfare state questa unità tende a spezzarsi e la selettività deve essere surdeterminata in modo tale da impedire che la forza lavoro si sottragga al lavoro salariato, ricorrendo a forme di sussistenza alternative”104. Nella fase attuale lo Stato non assicura più la copertura dei costi materiali della riproduzione della forza lavoro. La crescita della popolazione eccedente è uno dei fattori più evidenti del problema di governabilità della forza lavoro e della sua distribuzione sul mercato.

Riprendendo ancora la tesi sostenuta da Offe e Lenhardt è possibile introdurre il concetto foucaultiano di “biopolitica”. Infatti, la tesi da loro sostenuta è che la trasformazione della forza lavoro proletarizzata in lavoro salariato non sia possibile senza l’intervento statale. Lo Stato rende possibile un controllo sulle condizioni di vita e sull’ambito personale cui viene concesso di essere al di fuori del mercato del lavoro, regolando in questo modo la riproduzione della “vita” stessa.

Foucault, per definire i processi di gestione e di organizzazione della popolazione e dei corpi viventi nelle società moderne, ha introdotto i concetti di biopolitica e di biopotere identificando con essi innanzitutto una politica e un potere che fondano il loro archetipo sul vivente in quanto tale. Quindi sui corpi, ma si può dire sulle forme di vita in generale. Si tratta del potere postdisciplinare che caratterizza secondo Deleuze “la società del controllo”105. Nella società di controllo il biopotere esercita il suo governo

103 Ibidem, p. 32.33

104 Continua L. Fiocco con le parole di Offe e Lenhardt: “Per motivi di controllo assoluto dei salariati, bisogna che sia stabilito politicamente chi e secondo quali criteri debba essere dispensato dall’obbligo di offrire la propria forza lavoro sul mercato del lavoro”.

105G. Deleuze, “La società di controllo” in L'autre journal, n.1, Parigi, maggio 1990, ora in G. Deleuze, Pourparlers (1972-1990), Minuit, Paris, maggio 1990, pp. 240-247

Capitolo secondo: Dispositivi di controllo e produzione di biopolitica

63

non tanto sul singolo corpo ma sulle aggregazioni spontanee della vita sociale che divengono l’oggetto del controllo. La definizione dei soggetti produttivi e dei soggetti pericolosi (alla pace sociale) è, ad esempio, un momento determinante di questo potere.

Sulla forza lavoro contemporanea, si può dire che agisce una dinamica di potere che possiamo definire di controllo, un potere che identifica per differenziare e separare, per riconoscere e sussumere. Il controllo ha una funzione di regolazione e repressione nel momento stesso in cui adempie la sua funzione di sfruttamento e di sussunzione. Nei dispositivi di controllo biopolitico si mostrano insieme tanto il potere politico che quello economico. Nella società di controllo il potere sulla vita assume la forma di governo della differenza, nel senso che opera per differenziare, imponendo l’eccezione come norma, come dispositivo di separazione tra gli individui. Il governo della forza lavoro si ottiene mediante la rottura sistematica dei legami passati che la rendevano unita e che sono però quegli stessi legami che ne costituiscono la potenza produttiva. In questo modo i concetti di sussunzione reale e società di controllo divengono quasi sovrapponibili (Tiddi 2002). Gestire e governare le forme di vita, indirizzare e ostacolare i processi di soggettivazione singolari, regolare la produzione e la riproduzione sociale della forza lavoro sono dunque gli obiettivi di biopotere del capitalismo contemporaneo.

L’antica distinzione tra “lavoro” e “non lavoro” si risolve ora in quella tra “vita retribuita” e “vita non retribuita”. Il confine tra l’una e l’altra è arbitrario, mutevole, soggetto a decisione politica. Questo è lo spazio del conflitto sull’autonomia della soggettività e la sfida che i “precari” hanno davanti, intendendo qui la precarietà della vita in quanto tale, includendo dunque in primo luogo i soggetti di questo lavoro, i piqueteros e gli operai delle fabbriche recuperate.

Ed ancora, è sulla labilità di questo confine che è necessario confrontarsi, politicamente, ma anche teoricamente, per una ridefinizione del welfare state. Un welfare adeguato alle domande del presente deve piuttosto creare le condizioni perché ogni individuo residente in un territorio abbia la garanzia, in modo incondizionato, di un reddito stabile e continuativo che gli consenta lo sviluppo delle sue capacità cognitive-creative (basic income) e gli assicuri il diritto di scelta del lavoro (ben diverso e più dirompente del diritto al

64

lavoro). Le strutture del welfare diventano oggi l’ambito di una contesa molto concreta che riguarda il controllo e la gestione della vita.