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Ritorno alla democrazia e il neoliberismo di Menem

Nel primo periodo post-dittatura, la transizione è stata caratterizzata dalla volontà di recuperare un senso etico alla democrazia, una volontà di rivalutare un senso giuridico nella politica attraverso l’opposizione tra dittatura e stato di diritto. La necessità di perseguire una soglia di benessere su scala allargata e la ricerca di una giustizia regolata da norme condivise ha impedito però un’analisi e una ricostruzione di ciò che era avvenuto nella prima metà degli anni’70.

Durante gli anni ‘80 dunque, il tentativo di rivalutare i diritti e le libertà individuali e di uno stato di diritto, ha definito una sorta di patto sostenuto dalla paura che si ripetesse un passato traumatico, in modo che la domanda di giustizia fosse limitata a un solo tipo di “condanne” che iniziarono a svolgere un ruolo di sperimentazione di nuove tecniche di contenimento del conflitto sociale che si esprimerà poi in tutta evidenza nei recenti anni dei governi Kirchner.

Nel 1983 crollò dunque la dittatura militare, dopo la rovinosa guerra delle Falkland, e fu eletto democraticamente Raúl Alfonsín esponente del partito radicale che prese l’incarico di presidente della rinata Repubblica argentina in un clima festoso, che sarebbe comunque durato poco: “Pronto se puso de relieve no sólo la capacidad de resistencia de los enemigos juzgados vencidos, sino la dificultad para satisfacer el conjunto de demandas de todo tipo que la sociedad había venido acumulando y que esperaba ver resueltas de inmediato, quizá porque a la clásica imagen del Estado providente se sumaba la convicción –alimentada por el candidato triunfante- de que el retorno a la democracia suponía la solución de todos los problemas.”. Il neonato governo democratico si prefisse tre compiti quali la ricostruzione delle istituzioni democratiche su basi stabili, lo smantellamento

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del “potere militare”, e la condanna giudiziaria dei suoi crimini, la ristrutturazione del sistema economico e la fuoriuscita della crisi.

La crisi economica affondò però i sogni di riforma sociale della sinistra radicale, ed erose l’influenza del partito radicale nella società argentina. Elemento centrale di quella nuova crisi era l’iperinflazione, ovvero una svalutazione della moneta a tassi del 6000 % annuo. Il debito estero era pari al prodotto lordo del paese, accresciuto dagli interessi “drogati” con i quali le autorità monetarie dei paesi centrali tenevano in piede la loro prosperità. Non meno gravi erano le ingenti fughe di capitali (sono state stimate in 50 mila miliardi di dollari) e l’impossibilità di trovare una formula stabile e praticabile di inserimento nei mercati internazionali. La spesa pubblica fu dirottata da Alfonsin, dal settore industriale-militare a quello sociale. Si trattò di un tentativo generoso, e in realtà lungimirante, ma tuttavia destinato al fallimento. Il mercato internazionale al quale l’Argentina doveva aprirsi per uscire dalla crisi, il sistema di stati democratici che potevano sostenere la democratizzazione della società argentina, e il club di banchieri internazionali che controllavano il paese attraverso il debito esterno, erano dominati dai processi di privatizzazione neoliberali. Si saldò ben presto un’alleanza tra il blocco industriale-militare, la classe imprenditoriale che aveva lucrato con la dittatura, e lucrava ancora con la esportazione di capitali e la speculazione finanziaria, e la struttura politica del peronismo. Unita intorno alla candidatura di Menem questa opposizione trovò un vasto sostegno di massa, tra i milioni di persone rovinate dalla crisi e dall’iperinflazione.

Va comunque ricordato che sotto il governo Alfonsin venne istituita la Comision Nacional Sobre la Desaparicion de Personas (CONADEP) che compilò una relazione sconvolgente degli orrori perpetrati e si intraprese un primo processo contro i responsabili dell’esercito. Una sintesi del rapporto venne pubblicata nel 1984 in un libro dal titolo Nunca Mas (Mai Più) che ha consegnato alla società argentina e al mondo intero una delle pagine più cruente della storia del ventesimo secolo. Nonostante il tentativo di fare giustizia il timore di una rivolta dei militari249, causato dal malcontento per i processi in corso, portò successivamente Alfonsin a decidere per la

249 Fu in particolare la ribellione dei carapintadas che condusse Alfonsín a negoziare con le Forze Armate il mantenimento della democrazia, in cambio dell’approvazione delle due leggi che misero al sicuro i militari dai processi.

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approvazione di due leggi che finirono per garantire la impunità ai responsabili: la “Ley del punto final” (legge del punto finale), approvata nel dicembre 1986 che sanciva che militari o poliziotti non ancora incriminati per i crimini commessi tra il 1976 e il 1983 sarebbero stati immuni da procedimenti giudiziari successivi per quei crimini; la “Ley de la obediencia debida” (legge dell’ubbidienza dovuta) approvata l’anno successivo che si riferiva ai militari che rispondevano al comando dei Colonnelli.

Nella primavera del 1989, dopo che il presidente in carica ebbe annunciato una serie di misure economiche che miravano ad un rilevante aumento dei prezzi che coronava un’inflazione (che era già al 70%), numerose rivolte scossero una buona parte delle città argentine e Alfonsin fu costretto alle dimissioni. La crisi di iperinflazione del 1989 fu la crisi più importante che colpì l’Argentina prima di quella del 2001. Vale la pensa riportare alcune considerazioni di Maristella Svampa in proposito: “La crisi iperinflazionaria sfociò nell’accordo tra differenti attori sociali rispetto ad alcuni punti fondamentali, in particolare, l’esaurimento della via nazional popolare, ovvero del modello di integrazione sociale che il peronismo aveva intrapreso nel 1945 - e che il progetto alfonsinista, si era proposto di ricostituire, almeno in parte - rendendo evidenti le deformazioni e le insufficienze prodotte in quarantacinque anni di conflitti e trasformazioni. Di conseguenza, la iperinflazione terminò per rafforzare quelle posizioni che affermavano la necessità di un’apertura del mercato e un radicale restringimento dello Stato. […] In termini esperenziali invece l’iperinflazione impose la dissoluzione del vincolo sociale che avrebbe lasciato una profonda traccia nella coscienza collettiva, evidente nella forte domanda di stabilità che segnò la società argentina degli anni ‘90.”250

Questo secondo punto assume un carattere paradigmatico in questo lavoro nel momento in cui si guarderà in seguito agli effetti sociali della crisi del 2001 in termini costituenti di nuove soggettività e nuove forme di vita che hanno come primo effetto dirompente proprio quello della ricostruzione dei legami sociali, distrutti dalla frammentazione e dalla differenziazione sociale prodotte dall’applicazione “letterale” delle politiche economiche neoliberiste, ma anche dall’imporsi di un immaginario che pretendeva trasportare di colpo l’Argentina tra i paesi del “primo mondo”, senza fare i conti con la realtà sociale effettiva carica di contraddizioni e, in una parola, fortemente

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caratterizzata da una situazione di povertà strutturale, tutt’oggi difficilmente risolvibile.

Ma non solo. Vedremo come, il ruolo della rivolta del 2001 assunse un significato molto più profondo se si fa risalire la brutale distruzione dei legami sociali a partire dalle tecniche repressive, come abbiamo visto, direttamente legate alla strategia economica, utilizzate dal governo militare negli anni dell’ultima dittatura.

In un contesto di iperinflazione, causata dalla svalutazione del peso, infatti, si svolsero dunque le elezioni del 1989 in cui trionfò il candidato giustizialista Carlos Saúl Menem, ex-governatore della Rioja e caudillo di provincia. Maria Seoane commenta così: “castigata prima dalla repressione e dal terrore e poi dall’iperinflazione, la società argentina era disposta ad accettare qualsiasi ricetta che fosse in grado di liberarla dal caos economico. Il cammino era spianato per gli illusionisti e i tecnocrati che avrebbero incominciato a dominare la scena politica”. Mentre il collettivo Situaciones scrive: “Il neoliberismo in Argentina è conosciuto con il nome di menemismo.”251

Va tenuto conto però che la vittoria di Menem espresse anche le attese (le illusioni) dell’ “altra Argentina”, “negra e barbara”, “meticcia e povera”, dei disoccupati, dei “dimenticati dal capitalismo esportatore” che aveva, soprattutto negli ultimi anni, pagato ad un prezzo atroce il progressivo collasso “nazionale” (lo stesso da cui hanno fatto fortuna speculatori ed esportatori di capitali). Il 30% dell’occupazione industriale era svanito e il potere d’acquisto dei salari precipitato, il mercato del lavoro andava frammentandosi sempre più e l’organizzazione sindacale aveva forza, e soprattutto si avvicinava l’orizzonte della fame e dell’indigenza per una grande parte della popolazione.

I quattordici scioperi generali nei sei anni dal crollo del regime militare dimostrarono che, per quanto provata, ciò che rimaneva della classe operaia non aveva abbandonato il terreno della lotta, che assumeva direttamente una valenza non solamente di lotta salariale, perché gli scioperi avevano una valenza politica maggiore se contestualizzati nel continuo “ricatto del terrore” delle reiterate sedizioni golpiste. Del resto, nella sola ed unica occasione in cui il governo Alfonsin è sembrato disponibile ad andare al di là delle sue promesse di giustizia contro i militari, al tempo del primo

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ammutinamento guidato da Rico, i lavoratori, soprattutto i più giovani, risposero con forza all’appello, scoprendo poi che ciò che mancava era proprio l’appoggio del governo democratico.

Il voto dell’“altra Argentina” per Menem, esponente del Partido justicialista, fu un voto per quel peronismo che i lavoratori argentini continuavano in maggioranza, a considerare il “proprio” vessillo di lotta. Va inteso, perciò, esso stesso, come espressione, certamente contraddittoria, del fatto che la carica conflittuale degli strati sociali più disagiati dell’ Argentina non era mai stata completamente debellata.

In realtà, il peronismo del 1989 si mostrò molto presto cosa assai diversa da quello di Perón, anche se la facciata ideologica appariva immutata: come il peronismo storico il programma menemista sosteneva l’alleanza tra capitale, lavoro e governo nazionale, promettendo una rivoluzione produttiva fondata sull’espansione del mercato interno ed allo stesso modo innalzava in principio la bandiera della “giustizia sociale”. Profondamente differente ne era però il retroterra. Dietro il peronismo di Peron vi era un capitalismo in ascesa che cercava una sua specifica collocazione all’interno di un sistema capitalistico mondiale in forte espansione e dentro un Sud America che ignorava il “pericolo proletario”. Dietro il peronismo d Menem vi era invece un capitalismo già in crisi che cercava di risollevarsi dentro un sistema economico che aveva esaurito il ciclo dello sviluppo “per tutti” e andava sempre più polarizzandosi, in un continente che vedeva un aumento esponenziale di esperienze di lotta dei soggetti svantaggiati, fossero operai, disoccupati, indigenti o indigeni.

Obiettivamente il peronismo di Menem aveva margini molto più stretti per riuscire a tenere insieme “capitale, lavoro e governo nazionale” e i primi provvedimenti del suo governo lo confermarono. Le decisioni di affidare al management della Bunge & Born, potente gruppo capitalistico, la guida del ministero dell’economia, di avviare il processo di privatizzazione di importanti imprese statali aprendo le porte al loro assorbimento da parte del grande capitale estero e di varare un duro piano di austerità hanno incontrato l’opposizione dei sindacati peronisti, sebbene siano state accompagnate da alcuni contrappesi come l’affidamento del ministero del lavoro ad un sindacalista, l’impegno a non fare né permettere licenziamenti, l’elargizione di un sussidio miserevole ai più poveri.

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Né certamente mantenne le promesse di “giustizia sociale” la proposta di Menem di chiudere definitivamente con un indulto la “pendenza” dei militari assassini e/o golpisti: contro di essa si innescò immediatamente una protesta di massa che attraversò e frammentò anche lo stesso schieramento peronista, nonostante il “pacchetto” prevedesse allo stesso tempo l’amnistia per i “montoneros” e le altre organizzazioni armate della decade del ‘70. Il problema fondamentale si manifestò nel fatto che gli interessi dei settori sociali, che, pur distinti, si erano riconosciuti nel passato nel “blocco corporativo” peronista diventavano sempre meno conciliabili e, la pressione dei capitali statunitensi incitava il continente sudamericano ad estirpare le “antiquate” politiche stataliste e interventiste delle correnti populiste proponendo quale modello da imitare il Cile “risanato” dall’economia liberale e da Pinochet, non fece che inasprire queste divisioni.

La continuità maggiore con il peronismo è paradossalmente rintracciabile nel rappresentarne un’anomalia, ma dunque anche nel legittimare il “peronismo” come un blocco di potere che viveva di rendita in termini di consenso, che andava sempre di più affermandosi come una specificità argentina da difendere quasi ritualmente a prescindere dagli effetti delle politiche reali. R. Zorrilla, definisce Menem come “l’agente liquidatore del peronismo storico”252, anzi, lo trasforma in un “pezzo da museo”.253

In sintesi, gli strumenti fondamentali della politica menemista furono: la rapida ondata di privatizzazioni dell’industria di Stato, i decreti volti ad aumentare il grado di apertura dell’economia e l’adozione nel 1991 del Plan de Convertibilidad, per mano del ministro dell’economia, Domingo Cavallo254, un programma che agganciava per legge il dollaro al peso in rapporto 1:1 e che obbligava ad emettere moneta solo se coperta dalle riserve della Banca Centrale. In questo modo le autorità economiche dello Stato rinunciavano a qualsiasi margine di discrezionalità nella gestione della politica economica: la spesa dello stato, a meno di prestiti esterni, era strettamente legata alle entrate. Nel momento immediatamente successivo alla sua applicazione, si verificò, effettivamente, un’impennata dei consumi, perché l’afflusso di dollari favoriva un maggior volume di prestiti da parte delle banche e delle

252 Da R. Zorrilla, El fenomeno Menem, Grupo ditor Latinoamericano, Argentina, 1994, p. 16 (mia traduzione). 253Ibidem.

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imprese ai consumatori; la vita quotidiana degli argentini venne modificata: i racconti parlano di “supermercati stracolmi di prodotti d’importazione”, ma anche di viaggi in Europa a costi molto bassi.

I nodi vennero al pettine dopo qualche anno, in particolare, furono resi evidenti dal contraccolpo della crisi mondiale255 che colpì prevalentemente l’Asia, ma che si ripercosse anche su quelle che vengono dette “economie in via di sviluppo”, alle quali può essere assimilata l’Argentina. L’economia argentina si rese fortemente dipendente dall’ingresso di capitali esteri. Crescita dei livelli di disoccupazione e peggioramento delle condizioni di lavoro, precarizzazione e trasformazione del mercato informale, furono gli effetti contrari al nuovo clima generato dalla stabilità monetaria.

Il fenomeno che ebbe luogo fu definito a posteriori come una sorta di “eterogenizzazione della povertà” (del Cueto, Luzzi 2008).

Alla fine del 1994 il settimanale britannico The Economist scriveva: “il cambiamento sociale più sconvolgente non ha toccato i poveri, ma piuttosto le classi medie dell’Argentina, il paese più grande e più ricco di tutta l’America latina. Benché il livello di vita abbia subito una caduta durante decenni, rispetto ad altri paesi, le classi medie in Argentina hanno beneficiato di una certa solidarietà da parte della borghesia. Allora il lavoro lo si conservava per tutta la vita, e questo riguardava ogni genere di lavoro, perfino quello nella scuola o nella chiesa, le riforme di Menem hanno distrutto tutto questo; le privatizzazioni hanno espulso i quadri medi dal loro lavoro, i negozianti sono stati distrutti dagli ipermercati, i professori di scola media superiore hanno dovuto cercare lavoro altrove, gli psicanalisti adesso fanno i conduttori di taxi e le madri di famiglia rispettabili vendono delle polizze. Un sociologo sottolinea che le donne sono quelle che sono state particolarmente toccate, che devono spesso accettare dei lavori malpagati per poter sopravvivere. Il numero di famiglie che vive soltanto del reddito delle donne accresce rapidamente così come il numero di famiglie che devono assumere in carico i genitori anziani […]”256.

Si vedrà nel prossimo capitolo, quanto in questi anni (il “decennio menemista”) covasse un dissenso sociale che venne in qualche modo represso e contenuto, ma che fu la base fondamentale di accumulazione soggettiva che portò sia alle giornate del 19 e 20 dicembre 2001 sia al

255 Si parla della crisi del 1997, ma che seguì di soli tre anni la cosiddetta “crisi messicana” (1994) che allo stesso modo, seppur più sotterraneamente si fece sentire in Argentina.

256 Citazione da L’Argentina, dalla pauperizzazione alla rivolta Una avanzata verso l’autonomia, http://www.autprol.org/public/news/doc000317501012002.htm#i14.

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diffondersi di pratiche costituenti di nuova quotidianità, di nuove strategie di sussistenza, di protagonismo politico che si moltiplicarono a partire dall’ evento di dicembre , noto come “argentinazo”, che segnò la rottura dello stato d’assedio (e la destituzione del presidente De La Rua), ma anche la paralisi che aveva congelato la protesta sociale negli ultimi cinquant’anni della storia argentina sotto il continuo ricatto del colpo di Stato.