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Il contesto spaziale dell’analisi empirica di questo lavoro di ricerca è la metropoli: luogo specifico e allo stesso tempo vago e frammentato. Non si farà una genesi né del concetto, né una relazione storico-bibliografica sul

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tema della città, ma richiamare alcuni concetti può essere utile a rendere ancor più esplicito il ruolo della dimensione spaziale nell’ambito delle relazioni di potere che si andranno ad analizzare. Un potere che si considera costituito da una natura non monolitica, frutto, più che presupposto, di una serie di variabili, tra cui, per l’appunto, anche quella spaziale. Si è visto come le nuove condizioni storiche globali comportino processi di trasformazione che investono le realtà statuali e i singoli spazi territoriali determinando un nuovo “dis-ordine” dei territori, un’ interazione complessa del piano locale con il piano globale che danno luogo a variegate configurazioni dell’organizzazione territoriale. Nascono nuove centralità, nuove gerarchie che producono, come in passato, nuove disparità e diseguaglianze. Le grandi aree metropolitane, si tratti di mega-città dei paesi più poveri, di città con rilevanza mondiale o di città globali rappresentano i nodi in cui si cristallizzano cambiamenti e conflitti sociali.

L’emergere di un capitalismo fondato su di un arcipelago di città-chiave pone nuovi problemi: se da un lato esiste una mobilità nuova all’interno delle vecchie gerarchie urbane, che permette di affermarsi anche a città geograficamente collocate nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, spiazzando alcune teorie classiche del terzomondismo come le teorie della dipendenza o quelle della modernizzazione, dall’altro si prospetta con sempre maggiore gravità la questione di chi rimane fuori dalle reti che si vanno tessendo e la riconfigurazione dunque delle cause dell’esclusione sociale. Ad esempio, emerge una nuova e diversa questione della periferia, che rischia di porsi in maniera ancora più aspra di quanto non avvenisse nell’universo produttivo fordista.

Si ritiene, per semplificare, che il termine metropoli possa contenere il dibattito che ruota attorno alla definizione del nuovo spazio urbano. Si tratta, ad ogni modo, di uno spazio che si presta a diverse concettualizzazioni, a seconda del punto di vista dal quale lo si legge, ma nel quale permane una struttura profondamente gerarchica che fa capo al sistema globale.

Importante è in questa direzione il tentativo della Sassen nella sua analisi delle “città globali”. Importante forse proprio nella direzione di dare concretezza all’astrazione della categoria del “globale”. Scrive ne Le città nell’economia globale: “Includere nell’analisi dell’internazionalizzazione dell’economia lo studio della città rende possibile aggiungere tre importanti dimensioni: in primo luogo, si scompone lo stato nazionale in una serie di elementi

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che possono risultare importanti per la comprensione dell’attività economica internazionale. In secondo luogo si sposta il centro dell’analisi dal potere delle grandi imprese su governi ed economie alla molteplicità di attività e assetti organizzativi necessari per realizzare e mantenere una rete globale di unità produttive, servizi e mercati; […]. In terzo luogo, si contribuisce a porre in rilievo il luogo e l’ordinamento urbano, sociale e politico associati a queste attività della rete globale. Pertanto i processi della globalizzazione economica vengono ricondotti a complessi produttivi concreti, collocati in luoghi specifici, sedi di molteplici attività e interessi molti dei quali non connessi ai processi globali. Far convergere l’attenzione sulle città ci consente insomma di delineare una nuova geografia dei luoghi strategici su scala globale, oltre a svelare le configurazioni microgeografiche e politiche interne a quei luoghi.”151

Quello della Sassen è uno degli approcci possibili nello studio delle “città in rete”. Il metodo empirico da lei utilizzato è quello comparativo (di cui può essere considerata un’apripista) dove in particolare si tende a una gerarchizzazione delle città globali a partire da tre casi esemplari: Tokyo, Londra, New York. Questo approccio comparativo però tende a non mettere in particolare evidenza gli elementi di interconnessione perché si rivolge in misura maggiore agli elementi che legano tra loro queste tre città piuttosto che le sedi delle multinazionali localizzate al loro interno. Di queste tre città viene evidenziato il fatto di costituire il terreno della localizzazione dell’astrazione del mercato finanziario globale e di costituire un centro di comando relativo alle rispettive aree geografiche di riferimento. Ovvero, esse vengono identificate come i luoghi che ospitano i servizi altamente specializzati alle imprese e che li trasformano in centri di forte concentrazione di potere. La Sassen studia l’apparente paradosso dato dal fatto che, se la globalizzazione e la delocalizzazione industriale potevano lasciar presagire una dispersione in termini mondiali dei luoghi di produzione di questi “servizi specializzati”, di fatto questo non è avvenuto. Appare importante, tra le sue risposte, l’osservazione che, seppure la globalizzazione delle comunicazioni e dei trasporti si gioca molto sul fattore “tempo” (velocità), in effetti la fornitura della maggior parte dei servizi necessari alle multinazionali ha bisogno di una compresenza di fattori (servizi finanziari) che favoriscono il fenomeno dell’ “agglomerazione”. Per

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la Sassen la città diventa un’unità di riferimento fondamentale in quanto le permette un re-scaling da un livello macro (globale) a un livello micro (localizzazione strategica).

Una delle conseguenze di quest’approccio è di tornare, ovviamente alla “crisi dello stato-nazione”, dove lo Stato viene scomposto in “differenti elementi territoriali che possono aiutare a connettere l’economia internazionale”,152 anche se poi la Sassen non intende con “crisi dello stato-nazione” la sua scomparsa quanto piuttosto il progressivo consolidarsi al suo interno delle funzioni del potere esecutivo a scapito del potere politico che si espande su scala globale e ne determina appunto un nuovo assetto.

Arriviamo così all’approccio del world city network, dove lo Stato anziché ricoprire un ruolo fondamentale, viene piuttosto considerato come contenitore politico. Questo approccio si concentra sulle interconnessioni tra le “città mondiali” attraverso la lettura della rete internazionale di imprese di servizi finanziari153. Abbiamo visto come l’accelerazione dei processi di globalizzazione ha mutato radicalmente le condizioni in cui si svolge l’attività economica. L’intero sistema degli scambi, un tempo saldamente controllato dagli stati nazionali, viene soppiantato da una nuova realtà, e lo spazio mondiale si trasforma in un unico spazio di relazione, in cui l’elemento locale (i luoghi, le città in quanto nodi della rete) gioca un ruolo fondamentale. Le città mondiali forniscono proprio l’indispensabile collegamento tra dimensione globale e locale. Oggi il commercio internazionale tradizionale, da cui un tempo dipendevano principalmente la circolazione di materie prime e prodotti lavorati, viene eclissato dalla circolazione di flussi di capitali, beni e informazioni che hanno luogo tra compagnie multinazionali (Castells, 1996). In questo senso si può affermare che le città mondiali sono “particolari luoghi di produzione postindustriale”154, che hanno saputo completamente rinnovarsi in termini di servizi e di finanza per adattarsi alle grandi trasformazioni intervenute, anche se questa concezione è molto discussa. A grandi linee si può dire che esse sono caratterizzate sia da indicatori di tipo demografico, estrema densità e diversità della popolazione, sia di tipo economico: intenso commercio estero,

152 G.. Catalano, op.cit.

153 I servizi di alto livello offerti alle multinazionali sono considerati la parte più alta del capitale finanziario. 154 S. Sassen,. The Global City: New York, London, Tokyo, Princeton, NJ: Princeton University Press, 1991.

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potere esercitato attraverso sedi centrali di imprese multinazionali, presenza di borse, di mercati internazionali e di investimenti transnazionali.

Le città mondiali, sono riconoscibili, comunque per la posizione privilegiata che occupano, che non è più attribuibile a quel che producono, ma ai servizi che offrono e al fatto che in esse vengono prese decisioni che riguardano importanti operazioni internazionali. Dal suo punto di vista, Taylor cerca di potenziare l’approccio comparativo, con l’obiettivo di far incontrare il livello politico (generalmente attribuito agli stati) e quello economico (generalmente attribuito alle città) in un unico “frame”. Rispetto alla Sassen tenta di colmare il deficit diacronico accostando alle analisi empiriche sulle città mondiali l’approccio di lungo periodo degli studiosi dell’ “economia-mondo” e la prospettiva di Jane Jacobs che invece è più attenta ad osservare il sistema urbano nel suo complesso. Seppure, dunque, anche il metodo utilizzato da Taylor (e dal GaWC) parte da quello comparativo proposto dalla Sassen, la comparazione tra città tende, in questo caso, a non porre l’accento sulla contrapposizione e il legame tra una singola città e un’altra, quanto piuttosto a studiare le possibili combinazioni a seconda dei servizi offerti e il livello di concentrazione del capitale finanziario. In questo modo si perviene comunque a una sorta di risultato “assoluto”, ovvero Londra e New York risultano le “most connected cities”, ma si offre anche uno sguardo basato su un grande database (in progress) riferito a diversi livelli di interconnessione, che sono poi quelli che concretamente disegnano la geografia delle “città mondiali”. Le città, dunque , in quanto trait d’union tra lo spazio fisico, il luogo, il territorio circostante e non ultimi i confini statali e lo spazio virtuale della telematica e delle transazioni finanziarie155. Le città sono localizzazioni strategiche di attività finanziarie di alto livello come per la Sassen; terreno scivoloso e interessante da indagare sono i fattori che costituiscono appetibilità nella fase di localizzazione delle sedi delle imprese con tutto il loro portato di “up-skills”.

Partiamo però da un’osservazione di Negri: “...la Sassen ci propone di guardare i grattacieli come struttura dell’unificazione imperiale. Ma al tempo stesso insinua la sottile provocatoria proposta di immaginare i grattacieli non come un tutto ma come un sopra e un sotto. […]. I temi della Sassen si sono ripercossi fortemente, in

155 Ad esempio Jacobs suddivide le città in città dinamiche e statiche, dove il dinamismo è dato dalla capacità di creare. nuovo lavoro che basano il loro vantaggio sulla collocazione periferica (ma fondamentale in senso economico) e “statica” di altre città e le relazioni (le reti urbane) che tra queste si instaurano.”

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Europa, negli anni Novanta, quando, con qualche difficoltà, pur tuttavia efficacemente, alcune forze antagoniste hanno cominciato a vedere nella struttura della metropoli rispecchiarsi le contraddizioni della globalizzazione. Di fatto, che ci fossero grattacieli o no, comunque l’ordine globale ristabiliva un alto e un basso nella metropoli, che era quello di un rapporto di sfruttamento che si stendeva sull’orizzonte interno della società urbana. Sassen ci mostrava i luoghi e le relazioni dello sfruttamento e dissolveva la moltitudine riportandola all’esercizio disperso di attività materiali” 156. Osservazione condivisibile, nella misura in cui ciò che qui ci interessa è indagare, in particolare per ciò che riguarda l’area metropolitana di Buenos Aires presa in esame, la nuova composizione del lavoro vivo che trova nelle proprie risorse territoriali, nella conoscenza e nella familiarità col territorio, nell’esperienza del suo uso, nella sua specifica capacità di produrre, quegli elementi di grande valenza produttiva che consentono di saper gestire la propria attività in relazione a un possibile potenziamento dei processi di cooperazione e di relazione all’interno dei flussi metropolitani.

Se la leggiamo dal punto di vista della mutata fase capitalistica, la stessa distinzione tra centro e periferia sembra venire meno. Un tempo il concetto di periferia stava ad indicare un luogo situato lontano dal centro e al contempo un luogo di marginalizzazione e segregazione. Era facile allora segnare un confine netto tra la città, coincidente col suo centro, e ciò che alla città si era aggiunto come sovrappiù. Oggi la città non coincide più col proprio centro poiché non ha più un centro fisico egemone. Il concetto di periferia allora va sfumando e tende a coincidere con la città. La metropoli in fondo non è che una sterminata ed indifferenziata periferia. Scrive Lyotard, il “filosofo della postmodernità”: “La megalopoli dell’oggi e di domani non fa all’inizio che estendere le metropoli moderne al di là dei loro limiti, di aggiungere una nuova cintura periferica residuale alla zona dei sobborghi aggravando così le fatiche, l’incertezza, l’insicurezza. Ma al di sotto di questa semplice estensione, appare una filosofia dell’essere-insieme-al mondo ben diversa dalla metafisica delle metropoli. Se l’Urbs diviene l’Orbs e se la periferia diviene tutta la città, allora la megalopoli non ha più un fuori.”157 Crescendo il policentrismo dei poteri: più centri, più periferie, internità delle periferie agli stessi centri. Le mappe consolidate si dissolvono.

156 A. Negri, “La moltitudine e la metropoli”, in Posseweb, Luglio 2008 157 J. F. Lyotard, “Periferie” in Millepiani, Mimesis, 1994

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L’urbanista e romanziere statunitense Mike Davis analizza le periferie urbane dalla prospettiva del loro impegno con il cambiamento sociale. Il suo studio è sintetizzato in una sola frase: “I sobborghi delle città del terzo mondo sono il nuovo scenario geopolitico decisivo. La segregazione urbana non è uno status quo congelato quanto un’incessante guerra sociale in cui lo stato interviene regolarmente in nome del progresso, dell’abbellimento e perfino della giustizia sociale per i poveri per ridisegnare i confini spaziali a favore della proprietà immobiliare, degli investitori stranieri, dell’élite dei proprietari di case e dei pendolari delle classi medie”158.