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Il concetto di “globalizzazione”, abusato fin quasi allo svuotamento del suo significato, delinea quella che, nel senso comune, è stata la riconfigurazione dell’epoca contemporanea su di uno spazio che trascende i confini nazionali, disegnando un nuovo ordine mondiale.

La nascita dello spazio globale assegna centralità e forza paradigmatica ai concetti di interconnessione e di flussi, ridisegna e trasforma i luoghi e i legami sociali creando un’inedita dinamica tra il globale e il locale. Diventa possibile pensare i “luoghi in termini di interdipendenze e intrecci”36. Le società si rimodulano intorno a flussi di capitali, di tecnologie, di conoscenza e di persone sviluppando una nuova forma di organizzazione economica, sociale, culturale e politica del potere; il potere sfugge ai confini istituzionali, diffondendosi in queste reti globali di flussi. La globalizzazione dei flussi ridefinisce, dunque, le categorie socio-ontologiche di tempo e spazio.

Le novità nella definizione spazio-temporale dell’esperienza contemporanea sono essenzialmente due: lo stiramento dei rapporti sociali nello spazio che, potenzialmente, si dilatano sino a livello planetario - l’elemento centrale del disembedding messo a tema da Giddens37- e l’enfatizzazione dell’istantaneità nel vissuto temporale. Questi due fenomeni generano una frattura nel legame organico fra il tempo, i luoghi e i rapporti sociali che, in passato, hanno favorito la formazione delle appartenenze, il consolidarsi di culture specifiche, sorrette da un progetto di durata e definite a partire da precisi assetti territoriali.

Spazio e tempo sono, invece, per Bauman gli assi attorno ai quali si è sempre svolta la vita quotidiana delle persone; la globalizzazione ha causato una loro contrazione provocando una polarizzazione della società: da un lato i “globali” e dall’altro i “locali”, cosicché chi riesce ad adattarsi a questa nuova

36 G. Catalano., Reti di luoghi reti di città, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005. 37 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna, 1990.

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dimensione della realtà detta le regole, mentre chi non ci riesce è considerato un escluso o un emarginato. La realtà è oggi diventata una guerra per la conquista dello spazio; una prospettiva pessimista quella di Bauman, se si pensa che nella storia l’uomo ha sempre lottato per ridurre le gerarchie; oggi invece, a suo parere, viviamo nel secolo del potenziamento delle disuguaglianze, della segregazione e dell’esclusione. Egli scrive: “Gli usi del tempo e dello spazio sono non solo nettamente differenziati, ma inducono essi stessi differenze tra le persone. La globalizzazione divide quanto unisce”38.

Non sempre la diminuzione del tempo necessario per svolgere una certa attività, o la riduzione della distanza, è effettivamente praticabile da ogni individuo, da ogni gruppo sociale, in ogni modello sociale e in ogni parte del pianeta, ma proprio perché rappresenta un limite o, se vogliamo, un traguardo, si vorrebbe percepire, in questa sede, la contrazione spazio- temporale come possibilità, o per lo meno come riconfigurazione delle possibilità, ovvero posta in gioco e fenomeno non univoco.

Interessante in questo senso è la posizione di J.L. Nancy, il quale pensa a “una politica in cui lo spazio sia formato da soggetti che mettono in comune non ciò che hanno di universale – la ragione, nel caso di politiche universalistiche, o anche la cittadinanza, nel caso di politiche statalistiche - ma la propria irriducibile singolarità. In quest’ottica, la frontiera cessa di essere la rigida fissazione della figura politica nello spazio, contorno di un’identità già data, e viene a indicare ciò che rende possibile la contiguità e la prossimità; non è ciò che separa, ma ciò che unisce pur senza in realtà unificare”39.

Mondializzazione o creazione del mondo. L’una o l’altra, l’una e l’altra, “simultaneamente e alternativamente”. Il mondo globalizzato, in cui assistiamo “simultaneamente alla crescita indefinita della tecnoscienza, alla crescita correlativa ed esponenziale della popolazione, all’aggravamento delle ineguaglianze di ogni tipo” è, allo stesso tempo, un mondo in cui assistiamo all’emersione e alla circolazione di un valore “non captato dall’equivalenza, del valore che corrisponde all’uomo stesso, ogni volta singolare e forse anche a tutti gli altri esistenti, in quanto esistenti singolari”40.

L’Impero è stata la “formazione storica” globale sorta dal tramonto della sovranità moderna e dal declino della struttura politica (lo Stato nazionale) in

38 Z. Bauman, La società dell'incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999 39 J.L. Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli, 1995 40 Ibidem

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cui la sovranità moderna si è incarnata, ovvero il soggetto politico nel quale si sono intersecate “una nuova logica e una nuova struttura del potere”, idonee a governare i circuiti mondiali della produzione e il mercato globale . In sintesi, l’Impero è stato per Michael Hardt e Toni Negri che ne hanno analizzato e concettualizzato la formazione, in un libro scritto a quattro mani: “il potere sovrano che governa il mondo”. Alla “triplice alleanza” Stato nazionale-imperialismo-modernità si è sostituito il binomio Impero-post- modernità.

L’introduzione del concetto di Impero ha recentemente problematizzato la facilità con cui si è raffigurata la fase espansiva dei processi di globalizzazione come una dinamica di semplice sostituzione del capitale transnazionale all’autorità politica degli Stati, dunque come la costituzione di un dominio immediatamente economico sul mondo. Tale prospettiva sembrerebbe assegnare un ruolo decisivo al comando politico, alla relazione tra le logiche materiali della riproduzione e le dinamiche di potere e di regolazione del corpo sociale. La realtà imperiale abolisce, secondo Hardt e Negri, le dualità che contribuivano ad accendere il conflitto nella precedente fase: l’Impero nasce infatti da “una trasformazione radicale che rivela la relazione immediata tra il potere e le soggettività”, che determina la possibilità “di dominare gli spazi infiniti del pianeta, di penetrare le profondità del mondo biopolitico e di affrontare una temporalità imprevedibile”.41Oggi si è già in una nuova fase in cui la necessità diventa quella di reinterpretare la dimensione globale del potere in termini multilaterali come conseguenza (e presupposto) della crisi dell'unilateralismo americano. Al governo subentra la governance, non come strumento democratico ma come gestione manageriale della politica mondiale.

Postfordismo è il termine generalmente utilizzato per intendere l’organizzazione della produzione nella nuova fase di ristrutturazione del capitalismo e presenta almeno tre caratteristiche nuove e significative a tre diversi livelli rispetto al vecchio modello “fordista”. Con il superamento dello stato-nazione come referente delle politiche di governo dell’economia, in via di sostituzione da parte di organismi sovranazionali, si assiste ad un passaggio dal paradigma organizzativo basato sul “taylorismo” a quello definito “toyotismo”. A livello sociale questo prevede la diminuzione relativa

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del lavoro vivo impiegato dal capitale (processo che sconvolge tra l’altro i referenti “soggettivi” della conflittualità sociale). A livello, economico in senso lato, l’introduzione massiccia della “flessibilità del lavoro”, termine impiegato per designare fenomeni molto vari: dall’organizzazione del lavoro informata alle nuove tecniche di informazione e di comunicazione, ai diversi rapporti tra domanda e offerta improntati al just in time, alle nuove caratteristiche del mercato del lavoro.

Senza scadere in polemiche terminologiche è utile segnalare che la “definizione” di postfordismo cui ci si riferirà nel corso di questo lavoro è quella schematizzata da Zanini e Fadini nell’introduzione di Lessico postfordista nella quale vengono individuate e sinteticamente esposte alcune macrotendenze della transizione dal “fordismo maturo al postfordismo”: “L’accresciuta flessibilità di localizzazione e delocalizzazione dei processi produttivi; l’espansione delle istituzioni finanziarie che operano in ambito internazionale e conseguente transnazionalizzazione della proprietà e del controllo delle grandi corporation; riorientamento dei flussi internazionali degli investimenti; internazionalizzazione dei servizi; accesso a mercati di lavoro periferici, anche nei settori di punta; interazione tra mercati del lavoro tradizionali e informali locali e mercati del lavoro internazionali; forti differenziazioni salariali al loro interno, verticali e orizzontali.”42

Si assiste dunque a una nuova divisione internazionale del lavoro che a quella tradizionale delle mansioni e qualifiche di origine taylorista aggiunge anche quella generata dalla divisione spaziale della conoscenza e della comunicazione. È questa la nuova divisione internazionale dei processi di accumulazione che sta alla base delle dinamiche spaziali globali. La geografia della comunicazione e della conoscenza è anche geografia dell’esclusione. A livello internazionale, siamo di fronte a un mondo a “pelle di leopardo” in cui le zone altamente tecnologizzate e connesse in rete sono circondate da mondi in cui sussistono condizioni di estrema povertà, che comprendono buona parte del pianeta. Quello che è comunemente chiamato il digital divide non è altro che il fattore strutturale che sta alla base dell’accumulazione globale postfordista, senza il quale i dispositivi di controllo dell’economia neoliberista non riuscirebbero ad imporsi. Le gerarchie geo-economiche che

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ne derivano sono il frutto di tale divisione iperspaziale della conoscenza e del saper “far rete” o “saper comunicare”.

Il fenomeno della deterritorializzazione connota infatti una strategia di dominio, specifica di questa fase, innescatasi sulla linea di fuga del decentramento produttivo. L’esigenza di localizzazione del capitale produttivo (a differenza di quello finanziario, mobile per antonomasia), fissato in unità produttive snelle rappresenta un vincolo all’accumulazione, ovvero impone la necessità di produrre contesti territoriali ordinati sui quali imporre facilmente egemonia. Il processo di globalizzazione ha posto le basi per il ricatto insito nel concetto di deterritorializzazione a vantaggio del capitale sul lavoro: il ricatto di esclusione. “…O vengono create localmente le condizioni sociali della valorizzazione o i lavoratori potenziali di una data area non verranno attivati. […] Le regole che il nuovo ordine impone al potere politico non riguardano più la distribuzione del reddito (compromesso socialdemocratico: stato sociale), bensì di veicolare la distribuzione spaziale del capitale produttivo.”43. Un’esclusione che parte dai territori e che penetra profonamente nello spazio esistenziale attraverso la necessità del capitale di riaffermare continuamente non più “l’essere escluso” di molti quanto piuttosto il “poter essere escluso” di chiunque, operazione questa, che si colloca alla base della riproduzione sociale contemporanea.