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Produzione e riproduzione della forza lavoro

Abbiamo accennato fin qui al mutamento delle frontiere tra sfera della produzione e riproduzione del vivente. Proviamo ora ad approfondire cosa si intende per tale mutamento, partendo dal concetto basilare di produzione e riproduzione della forza lavoro.

In particolare, il concetto di riproduzione della forza lavoro è fondamentale, ai fini del nostro discorso, perché dal punto di vista analitico è quello che spiega la sopravvivenza di questo modo di produzione e della società che esso regola e cui dà vita: “è come dire che non si dà produzione capitalistica se non viene riprodotto il rapporto capitale-lavoro salariato. (…) La riproduzione dei rapporti di produzione è riproduzione dell’ordinamento sociale che perpetua un modo di unificazione delle condizioni soggettive e oggettive della produzione”.85

Il modo in cui avviene la riproduzione della forza lavoro in quanto forza lavoro è incomprensibile senza ricorrere al concetto di proletarizzazione. In termini marxiani la proletarizzazione è quel fenomeno per cui i lavoratori, al termine del processo produttivo vengono espropriati del prodotto del proprio lavoro: “l’appropriazione del prodotto del lavoro ricostituisce da un lato i lavoratori quali proletari, cioè individui formalmente liberi, ma espropriati delle condizioni materiali della produzione”86, quindi costretti per la propria sussistenza a vendere nuovamente la propria forza lavoro. La scoperta di Marx rispetto agli economisti classici è la distinzione tra lavoro e forza lavoro che gli serve per cogliere il concetto di plusvalore. Per Marx, la forza lavoro è “l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, cioè nella personalità vivente di un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere”87. Il valore di scambio della forza lavoro

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A. Del Re, “Produzione/Riproduzione” in Lessico Marxiano, Manifestolibri, Roma, 2008. 85 L. Fiocco, op cit. pp 8-9.

86 Ibidem p. 13.

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è, sempre in termini marxiani, l’equivalente dei mezzi di sussistenza necessari affinché si riproduca come specie a seconda delle specificità del momento storico, in quanto, strettamente connessa alla natura dei mezzi di sussistenza necessari alla sua riproduzione. Il processo che produce la forza lavoro in termini concreti come valore d’uso è il processo attraverso cui è riprodotto il nostro corpo sia come corporeità fisica che intellettuale- cognitiva da collocarsi nello spazio esistenziale di ciascuno.

La riproduzione della forza lavoro trova un vincolo nella riproduzione del rapporto di lavoro dato dal potere di inclusione ed esclusione. Dal punto di vista del capitale, infatti, la riproduzione dell’ordine sociale è la coercizione al lavoro salariato, ma il discorso si complica nella fase attuale, in cui abbiamo visto affermarsi l’egemonia del capitalismo cognitivo. Si assiste a una ridefinizione dei tempi e dei luoghi che, nella società fordista ad esempio, separavano produzione e riproduzione. Il divenire produttivo della vita nel suo complesso, ha messo cioè in discussione la possibilità del controllo sui processi di riproduzione, ed è proprio tale controllo una delle poste in gioco della soggettività postfordista. Se, come scrive Fiocco, “la riproduzione delle condizioni soggettive della produzione implica la riproduzione di un ordine sociale, e non di un ordine sociale qualsiasi, bensì di un ordine – la cui determinante è la ricostruzione del dominio sul lavoro futuro”88, tale capacità di controllo sulla forza lavoro diviene quanto mai centrale, ed assume i tratti di quello che Foucault definisce biopotere, potere sulla vita, la cui prerogativa è quella di governare quelle “pratiche-esistenziali e collettive incompatibili con l’esigenza della valorizzazione, cioè di pratiche che nella logica del capitale creano “disordine””89.

Lo spazio esistenziale diviene quindi il campo di battaglia tra il controllo e la possibilità di creazione di nuove forme di vita. In questo senso assume un rilievo di particolare attualità il dibattito femminista sul lavoro domestico, o riproduttivo, sviluppatosi, in Italia ma non solo, negli anni ‘70.

88 L. Fiocco, Il capitalismo cognitivo nell’epoca della globalizzazione, Quaderni del dottorato in Sceienza, tecnologia e società, Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica, Università della Calabria, Quaderno n. 8, marzo 2007. 89 Ibidem

Capitolo secondo: Dispositivi di controllo e produzione di biopolitica

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2.1.2 Dal “posto dei calzini”

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alla riproduzione della vita

Partire dal punto di vista della riproduzione della vita (e dunque della forza lavoro) si pone in antitesi con le ideologie liberiste per cui un individuo “produttivo” basta a sé stesso prescindendo da ogni relazione.

Secondo Alisa del Re nel saggio scritto nel 1978, Struttura capitalistica del lavoro legato alla riproduzione, al lavoro di riproduzione veniva associata la fatica perché vi era, addirittura, un iniziale imbarazzo a chiamare lavoro tutte le faticose attività legate al lavoro di riproduzione. Secondo Marx, come abbiamo visto, il valore della forza lavoro è determinato dal tempo di lavoro necessario alla produzione e quindi alla riproduzione di questa merce: “nella forza lavoro viene oggettivata una “quantità determinata di lavoro”, ma il tempo di lavoro necessario alla produzione della forza lavoro si risolve nel tempo di lavoro necessario per la produzione dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza lavoro”91.

Base teorica di parte del dibattito (oltre che delle rivendicazioni e delle lotte) femminista intorno al lavoro di riproduzione era proprio il marxismo, anche se a Marx veniva criticata l’omissione, nel suo ragionamento, del processo di trasformazione che necessitavano i “mezzi di sussistenza per garantire la riproduzione della forza lavoro” e il fatto che i soggetti impiegati in questo processo non fossero sempre gli stessi lavoratori salariati. “La fatica della riproduzione sembrava non valorizzare niente: ma se il pluslavoro è lavoro gratuito per il capitale, il lavoro legato alla riproduzione è tutto pluslavoro, che va a valorizzare la merce forza lavoro, valore di cui il capitale si appropria gratuitamente attraverso l’acquisto della forza lavoro stessa” 92. Da Marx non verrebbe dunque esplicitato la ragione per cui il lavoratore salariato pur veicolando il suo (plus)valore nelle merci non sia direttamente protagonista del lavoro di riproduzione93.

90 È il titolo che Christian Marazzi dà al suo libro del 1999 (Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Bollati Boringhieri). Si riferisce alle abitudini della coppia relative, appunto, al posto che la donna sceglie per conservare con cura i calzini, mentre l’uomo lo adotta a caso, oppure contando sulla cura della compagna. Per Marazzi, nel gesto di riporre i calzini al posto giusto si misura la diseguaglianza concreta tra uomini e donne, e l’immagine del persistente sfruttamento dell’uno sull’altra. Si tratta di una diseguaglianza che seppur non è misurabile quantitativamente, è qualitativamente rilevante: la donna si sente ancora in dovere di sistemare i calzini al posto giusto perché su di lei pesa un fardello immateriale di tradizioni e schemi culturali che determina i suoi “obblighi” nonostante l’eguaglianza formale dei diritti.

91 A. Del Re, “Produzione/Riproduzione”, op.cit.

92 Ciò significa che la forza lavoro riprodotta porta con sé il lavoro di riproduzione in termini di valore e plusvalore ma difficilmente diventa valore di scambio. Si tratta cioè di plusvalore indiretto, estorto indirettamente dal capitale attraverso il lavoratore salariato.

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Ad ogni fase dello sviluppo capitalistico corrisponderebbe, secondo Alisa del Re, un ciclo di lavoro “privato”, proprio come “i rapporti di produzione corrispondono a forme storicamente determinate”94. Se nella fase della rivoluzione industriale il lavoro riproduttivo era quasi azzerato (donne e bambini lavoravano in fabbrica) e nel fordismo, la famiglia era il perno del potere disciplinare, nel postfordismo si assiste ad un graduale autonomizzarsi95 del soggetto portante del lavoro di riproduzione, le donne. Tutt’oggi, Alisa del Re definisce come “lavoro di riproduzione” la “cura delle persone dipendenti (non autonome)” che a sua volta si differenzia in lavoro retribuito e lavoro gratuito. Proviamo ora, in riferimento al lavoro di riproduzione retribuito, a seguire il suo ragionamento: “Sebbene la sua produzione di valore sia difficilmente quantificabile è un lavoro che risponde alla produzione di società, di comunità, rispondendo ai bisogni degli individui. E quindi se il lavoro di produzione di merci viene letto contemporaneamente al lavoro di riproduzione degli individui e andiamo a vederne i soggetti, scopriamo che i/le titolari del lavoro di cura accedendo al lavoro salariato di produzione di merci vi immettono i tempi del lavoro di cura che si scontrano con quelli del lavoro salariato. Questo li/le costringe a interrogarsi sulla percezione di tempo e spazio, sulle aspettative di vita e di denaro, sul senso della produzione delle merci e […] esprimono bisogni molto differenziati e difficili da esprimere in obiettivi o in uno sciopero, non sintetizzabili nella contrattazione collettiva. Hanno tutte le caratteristiche tradizionali del lavoro salariato e contemporaneamente portano con sé tutte le contraddizioni del lavoro di riproduzione.”96

Apriamo brevemente una parentesi per proporre qui la necessità di stabilire una differenza tra sopravvivenza e sussistenza. Si tratta di un campo che lascia molti problemi irrisolti, ma utile, ricordando che oggetto di ricerca di questo lavoro è il modo della sussistenza in situazione di discontinuità di reddito e non della mera sopravvivenza. Se alla sopravvivenza infatti basta un “reddito minimo”, la sussistenza necessita di un reddito complesso: “…un reddito che non deve fondare le sue ragioni sul lavoro individuale e nemmeno sulla produzione sociale di valore, ma sulle necessità riproduttive degli individui”97

94 K. Marx, Il Capitale, III, 3, p.301

95 Nello stesso opuscolo del 1978, Oltre il lavoro domestico, L. Christé scrive: “Per autonomia non intendiamo un ghetto o un insieme di ghetti, compartimenti stagni di classe che vanno ricomposti tramite centralizzazioni o alleanze leniniste, ma un rapporto di forza favorevole, un rapporto di potere.”, p. 94.

96 A. Del Re, op.cit, p.148. 97 Ibidem.

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ritenendo però impensabile un’omologazione dei bisogni in quanto ogni individuo esprime necessità riproduttive soggettive.

Si ipotizza che il porre l’accento sulla sussistenza, anziché sulla sopravvivenza aiuterebbe a sciogliere il nodo del rapporto tra produzione e riproduzione andando “oltre il mercato”. Ovvero, rivendicare il diritto all’esistenza tout court ci proietta immediatamente in una dimensione in cui produzione e riproduzione non possono essere separate.

Facciamo un breve salto in avanti, in Argentina, all’interno dell’organizzazione piquetera presa in esame, quella del MTD di Solano, un quartiere dell’immensa periferia povera della città di Buenos Aires. Innanzitutto per molte delle organizzazioni piquetere, una delle rivendicazioni principali era quella di un lavoro degno. Nell’accostamento di queste due parole vi sta un carico di significato enorme, nel senso che, in quanto disoccupati, i piqueteros sicuramente chiedevano un lavoro, ma nel tempo, nel vissuto della continuità della disoccupazione e della mancanza di reddito fisso, il lavoro degno è diventato via via un lavoro “diverso”, un lavoro il cui valore è determinato in gran parte proprio dalla quota di “lavoro riproduttivo” contenuto in esso. Il lavoro riproduttivo si è cioè in parte sganciato dal suo connotato “negativo” (lavoro faticoso, di competenza delle donne, non retribuito, ma parte fondamentale e insostituibile della riproduzione del sistema capitalistico in quanto tale), diventando ciò che in positivo caratterizza la volontà di sganciarsi dal rapporto di lavoro salariato e dalle sue contraddizioni; e diventando un’occasione di rivendicare risorse monetarie slegate dalla prestazione lavorativa, o come nel caso dei piqueteros, costruendo attività cooperative, che pur assicurando la sussistenza mettono in gioco relazioni differenti da quelle di dominio e sfruttamento.