1.3 La flessibilità divenuta norma
1.3.1 La precarietà esistenziale
Proviamo ora a leggere il fenomeno della flessibilizzazione del lavoro e dell’occupazione dal punto di vista della “soggettività”. Proviamo cioè a leggere la flessibilità come l’altra faccia della precarietà59 legata alla riduzione -nei paesi a capitalismo avanzato- della forza lavoro occupata a seguito della crisi del fordismo, ovvero di quel fenomeno noto come “disoccupazione strutturale” che comprenderebbe, in particolare, gran parte della forza lavoro eccedente le esigenze della produzione. Molta della forza lavoro impiegata nel modo di produzione fordista è diventata infatti superflua ed è stata progressivamente espulsa dal processo lavorativo diretto ed anche se ciò ha evidentemente portato negli ultimi decenni del novecento a una sorta di cronicizzazione del fenomeno della disoccupazione, non si ritiene più adeguata la contrapposizione di questo fenomeno a quello che veniva identificato come il suo opposto, ovvero, l’occupazione a tempo pieno.
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Una nuova categoria possibile, quella di “soggetto occupabile”60, critica implicitamente la distinzione tra occupati e disoccupati, proponendo una sorta di categoria “della transizione” che mette in evidenza come la forza lavoro attuale viva in una zona di transito. Con i contratti flessibili e “atipici” nuovi soggetti vengono qualificati come temporaneamente occupati61. Figure sociali un tempo marginali come le donne e gli studenti (“precari in formazione”) 62 hanno assunto un peso sempre maggiore all’interno del mercato del lavoro, così come non si può tralasciare l’universo dei lavoratori migranti63, quasi mai garantiti da contratti regolari, che ha conquistato, almeno in Italia, una fetta notevole all’interno di quel bacino precario.
Ma c’è qualcosa di più da considerare. Applicare la categoria di precarietà al contesto argentino si è rivelata cosa piuttosto difficile nel senso che, seppure è vero che il contesto metropolitano bonaerense, fatte le opportune distinzioni, è generalmente riconducibile ad alcuni tratti specifici dell’economia “dei paesi a capitalismo avanzato”, rimane il fatto che il dato immediatamente visibile è quello legato all’alta percentuale di indigenza e miseria.
La precarietà, nella sua accezione occidentale, indica cioè, già di per sé, una qualche inclusione all’interno del mercato del lavoro, seppur segnata da diseguaglianze e da forti differenziazioni. Si tratta infatti di una categoria concepita per definire il processo di precarizzazione della forza lavoro, dovuta alla perdita delle garanzie conquistate con le lotte del movimento operaio. Una categoria che qui usiamo non solo però per descrivere la precarietà del lavoro, ma anche la precarietà della vita che nel contesto che andremo ad analizzare, l’Argentina, diventerà “miseria della vita”, “vita da inventare”, non quella, cioè, dei “non occupati ora e qui”, bensì della popolazione in sovrannumero rispetto alle necessità di riproduzione del capitale.
60 Definita da A. Tiddi in Precari. Percorsi di vita tra lavoro e non lavoro, Derive Approdi, Roma, 2002.
61 Non si tratta di una novità di per sé, l’essere “temporaneamente occupato”; la novità sta nella brevità e molteplicità dei contratti di lavoro utilizzati, che spesso sfugge ad ogni regola e calpesta ogni diritto acquisito dalle precedenti generazioni di lavoratori.
62 Seppure non abbia grande fondatezza scientifica è interessante rilevare come tanto le statistiche ufficiali, quanto le cronache dei giornali e le “conversazioni da bar” restituiscano l’opinione condivisa che con la diffusione del part time si sia ad esempio accresciuta la possibilità per le donne di integrare il reddito familiare con un salario aggiuntivo, mentre per i giovani sia aumentata la possibilità di proseguire gli studi con l’ausilio di un salario, seppure minimo. Per essi, in particolare in Italia, sono state istituite o riformate apposite tipologie contrattuali come il contratto di formazione o il contratto di apprendistato, caratterizzati entrambi da una forte deregolamentazione e arbitrarietà della prestazione oltre che da basse retribuzioni.
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Ci riferiamo cioè a “quelli delle bidonville del mondo”, che vivono ed “è concesso loro di vivere”64 nella misura in cui si inventano ogni tipo di espedienti per sopravvivere.
Nel complesso si può ad ogni modo affermare che la forza lavoro globale sia costretta a un forte turnover che rischia di minare la stabilità dell’esistenza e la continuità dell’esperienza. Flessibilità del lavoro, quindi del reddito, può voler dire sostanziale precarietà della vita. Queste sono le nuove regole del gioco.
La precarizzazione è dunque un processo generalizzato, che condiziona l’esistenza di una grande parte della forza lavoro postfordista che si è affermata percorrendo tappe e passaggi cruciali; specifici interventi legislativi hanno progressivamente abbattuto le garanzie acquisite dal lavoratore fordista e hanno di fatto introdotto la possibilità di utilizzare la forza lavoro in regime flessibile. Da parte imprenditoriale la crescita delle forme di precariato è stata introdotta attraverso una complessiva ristrutturazione dei processi produttivi sulla quale hanno progressivamente giocato un ruolo decisivo i grandi cambiamenti connessi alla globalizzazione e alla massiccia diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Ogni lavoratore finisce per essere trasformato in un “libero concorrente”; gran parte della forza lavoro viene “singolarizzata”, il rapporto di lavoro viene individualizzato. Di comune sembra quindi affiorare solo la condizione di “precarietà dell’esistenza”.
Dal punto di vista soggettivo si assiste dunque a una crescente individualizzazione dell’esperienza quotidiana e delle forme di vita. Si tratta di una specie di “individualismo istituzionalizzato”, cioè una situazione in cui l’individualità, secondo Beck65, diviene l’unità della riproduzione della vita sociale, mentre, nello stesso tempo, si tratta di assumere/sussumere quella modalità “a progetto” tipica dei nuovi lavori come modalità di esistenza. In questo senso Boltansky e Chiapello66 hanno parlato di “nuovo
64 L’utilizzo delle virgolette sta ad indicare un riferimento che vale la pena di esplicitare. Ci si riferisce cioè alle pagine in cui Focualt scrive: “Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte”, da La volontà di sapere, Feltrinelli, 1978, cap. V, “Diritto di morte e potere sulla vita” (edizione 2003 da p.119).
65 U. Beck., Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino, 2000. 66 L. Boltanski, .E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris,1999.
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spirito del capitalismo”, nel senso cioè di un nuovo modello di riconoscimento sociale fondato sulla “vita a progetto”.
Il lavoro flessibile è un lavoro per il quale sono chiari i parametri di liberalizzazione del rapporto (deregolamentazione tra forza lavoro e capitale), rendendo però assolutamente incerta e appunto “flessibile” la posizione dei singoli lavoratori all’interno del mercato. L’incertezza e il rischio diventano condizioni esistenziali permanenti. In un certo senso, sembra di essere nel pieno del “liberalismo” ottocentesco descritto da Foucault67 con la sua categoria del “vivere pericolosamente”. La precarietà quale esito esistenziale della flessibilità è la ricaduta sociale di questa teoria del pericolo permanente. Il rischio d’impresa si socializza all’intera società e si installa sui processi della vita quotidiana.
Siamo davanti a una strategia indirizzata al contenimento dei fattori di instabilità proprio attraverso la socializzazione dei loro effetti, che preserva le istituzioni statali (almeno in apparenza e nelle funzioni amministrative), sebbene in piena crisi di rappresentanza, attraverso l’esternalizzazione dell’incertezza e del rischio.
Nell’epoca in cui le società sviluppate si fondavano sulla produzione industriale, il mantenimento dell’ordine - come insegna Foucault - era affidato a sistemi disciplinari fondati su criteri di delimitazione, inquadramento e fissazione della popolazione dentro processi spazio- temporali controllabili. Ora che i poteri disciplinari non sono più adeguati all’estrema mobilità delle nuove forze economico-sociali l’ordine sociale va strutturandosi sul principio della “sicurezza”. Un principio che però, come vedremo, opera sempre nella direzione di segregare e frammentare la forza lavoro. La precarietà impone di ridefinire anche il concetto e i parametri di povertà, così come agisce come retorica sulle aspettative salariali, di welfare e in generale di qualità della vita delle persone Il divenire norma della precarietà ci svela insomma la sua funzione regolativa e di controllo sulla popolazione.
67 “…gli individui sono messi continuamente in stato di pericolo, o meglio, sono posti nella condizione di esperire la loro situazione, la loro vita, il loro presente, il loro avvenire ecc…come fattori di pericolo” (Biopolitica e Liberalismo, 2001).
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