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Il piquete, la sua potenza costituente e l’esplosione del 2001

Abbiamo visto come i blocchi stradali si costituirono già dagli inizi, come strumento di lotta fondamentale per i disoccupati: mediaticamente li si chiamò “piquetes”, e così si fissarono nell’immaginario collettivo. Il piquete consiste nell’interruzione del libero transito delle merci lungo le strade del paese, fino al momento in cui si ottiene una risposta alle rivendicazioni portate avanti, si tratti di miglioramenti materiali per il movimento, o di solidarietà con le lotte di altre organizzazioni. Il piquete è una delle più elementari forme di “sabotaggio” al capitalismo postfordista, nel quale mobilità delle merci e delle persone e velocità rivestono un ruolo fondamentale. Non è una novità di per sé, perché il nome stesso riporta alla storia delle lotta del movimento operaio e della lotta sindacale. Il picchetto era uno strumento pratico di sostegno allo sciopero, era cioè la dissuasione organizzata dagli operai politicizzati nei confronti degli altri ad entrare in fabbrica a lavorare. Il picchetto si opponeva cioè alla produzione.

La novità nei piqueteros sta nell’uso e nei luoghi in cui esso viene praticato. Il piquete esce dalla fabbrica e così come la produzione si espande nei territori e si oppone alla circolazione delle merci, ovvero alla produzione contemporanea. In questa forma di protesta popolare, richiamò l’attenzione di un’opinione pubblica distratta di fronte agli effetti devastanti delle politiche economiche degli anni novanta, dimostrò un alto livello di efficacia al momento di ottenere le rivendicazioni avanzate. “Da un lato, nella sua radicalità, il piquete mette in rilievo l’irrazionalità dell’attuale modello di accumulazione, che condanna la maggioranza all’esclusione sociale in cambio della piena partecipazione di pochi. Dall’altro, questa forma di lotta appare l’unica in grado di garantire visibilità a coloro che hanno perso tutto, e che in conseguenza di ciò non hanno diritto di parola nel modello vigente. Il carattere perturbante o irritante del piquete non è dovuto solo ai disagi prodotti dall’impedimento della libera circolazione di beni e persone. Se dalla sua prospettiva interna si configura come luogo di produzione di un’identità positiva, visto da fuori il piquete appare il luogo

318 M. Svampa, “I piqueteros. Movimenti sociali e nuove prassi politiche in Argentina.”, 2004, dal sito dell’autrice, http://www.maristellasvampa.net.

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in cui si produce una minacciosa alterità, che segnala l’esistenza di “altri mondi”, mai troppo lontani in tempi di forte instabilità e di mobilità sociale “discendente” come quelli che attraversa oggi l’Argentina”319.

Non ricevendo un salario, il lavoratore disoccupato non aveva accesso ai mezzi per garantirsi la sussistenza, e, nello stesso tempo, il suo quotidiano non si sviluppava in fabbrica ma nel territorio, che acquisì un ruolo centrale. Su questa base concreta il blocco stradale si è trasformato in uno strumento di lotta e di emancipazione più potente dello sciopero. Così ne parla Raul Zibechi: “Nel piquete si manifestano anche tratti molto importanti del movimento. Alcuni sono appena abbozzati: il piquete funziona anche come forma di lotta “autoaffermativa”. Questo è molto chiaro quando dicono “ci sentiamo padroni” della strada, o quando affermano che “il piquete è l’unico posto nel quale la polizia non ti calpesta”. Il piquete è creatore di potenza, di potere come capacità. Ma l’autostima che si manifesta nei cortes de ruta si va costruendo giorno per giorno, nella quotidianità del movimento”320.

Racconta Cecilia (MTD Almirante Brown): “La novità di questa questione è che, al contrario dell’immagine che diffondono i media, il piquete è un momento in cui l’allegria è sovrana. Un incontro rituale, dove i compagni condividono l’intensità di una lotta condotta collettivamente. La maggioranza dei compagni che si avvicinano al movimento, più dell’80%, si avvicina esclusivamente per necessità concrete. Hanno bisogno di qualcosa da mangiare, non hanno lavoro, non hanno un accidente. Però quando c’è un processo le cose cambiano, iniziano a sentire l’adrenalina e la necessità di organizzarsi”.

Il “piquete” fu, d’altra parte, lo strumento che consentì di ottenere nell’immediato (dallo Stato e in particolare dal governo menemista per primo) i sussidi di disoccupazione (planes trabajar), quelli che trasformati poi dai gruppi piqueteros da redditi personali in fondi comuni autogestiti, diventeranno, come vedremo, la base monetaria per la realizzazione di progetti di appropriazione dei propri spazi esistenziali. Il picchetto è esso stesso una pratica che racchiude in sé la possibilità di essere superata: quando la resistenza e la protesta diventano cioè costituenti.

Indubbiamente però, prima di affrontare il tema dei sussidi va sottolineato il fatto che l’esplosione della crisi del 2001 e dunque la rivolta popolare ha alimentato in modo esponenziale la capacità organizzativa delle

319 M. Svampa, Ibidem. 320 R. Zibechi, op. cit.

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organizzazioni dei piqueteros e la loro forza contrattuale nei confronti di uno Stato ridotto ai minimi termini. Per dirla in altro modo, se fin qui si è voluta sottolineare la continuità di questo movimento con le proteste sociali legate alla contestazione delle politiche neoliberiste di Menem e al riconfigurarsi dei territori, è ora il caso di mettere a fuoco la rottura che hanno rappresentato le giornate di dicembre 2001.

Il ciclo politico che si era aperto nel 1996 con lo slogan di “¡Que venga Sapag!”321 si chiuse per certi versi nel 2001 sulla Plaza de Mayo e di fronte al Congreso Nacional, ovvero nel cuore del potere esecutivo e legislativo, al coro di “¡Que se vayan todos!”. La distanza tra le due rivendicazioni mette in evidenza il processo di dissociazione crescente tra il sistema politico e le forme di autorganizzazione sociale in atto nel paese. Lo slogan “¡Que venga Sapag!” esigeva la fine delle mediazioni e la trattativa diretta con la massima autorità, il governatore della provincia, ma non ne metteva in discussione la rappresentanza politica. La crisi e il vertiginoso smantellamento dell’industria petrolifera avevano innescato in due centri minori un inedito processo di destrutturazione sociale ed economica. Gli individui esclusi avevano trovato un nuovo ancoraggio comunitario in un discorso che si appellava a una “riparazione storica”, proponendo la sottoscrizione di un nuovo patto sociale. Invece la formula “¡Que se vayan todos!”, nata nel 2001 e diffusasi compiutamente nel 2002, portava allo scoperto il rifiuto del principio stesso di rappresentanza politica. Nelle metropoli come Buenos Aires la “moltitudine” non aveva rivendicazioni da fare, a parte il ritiro incondizionato dei rappresentanti politici.

Riprendendo le tesi di Virno e Negri, potremmo affermare che esiste un’enorme distanza tra il tipo di sradicamento sperimentato dal “popolo” della provincia nel 1996-’97, caratterizzato dalla consapevolezza di una comunità esclusa (tracciando quindi la separazione tra un “dentro” e un “fuori”) che rivendica il reinserimento economico e sociale, e il tipo di processo avviato nel 2001 dalla “moltitudine” eterogenea, che riunita in assemblea condivideva la sensazione di “non sentirsi a casa”, sperimentando in tal modo lo sradicamento “al centro della propria pratica sociale e politica” (Virno 2003) Tra il conglomerato comunitario che si concepisce come “popolo” e anela a reinserirsi nel tessuto sociale, e la “moltitudine” che

321 Era lo slogan urlato nel 1996, durante i blocchi della Statale 22 nei pressi di Neuquen (Sud del paese). Sapag, era appunto, l’allora governatore della provincia di Neuquen.

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si afferma nella separazione e nello sradicamento, si sviluppa un convulso processo storico sociale che si rispecchia anche nelle multiformi esperienze delle organizzazioni piquetere.