3.4 La metropoli come dispositivo di potere
3.4.1 La cooperazione produttiva nella metropoli “dis-ordinata”
Sempre Villani propone un nuovo concetto che può tornare utile al nostro lavoro in termini di disvelamento delle “esternalità positive” nello spazio (costituito innanzitutto dalla materialità dei corpi che lo attraversano) della metropoli contemporanea: quello di “pluriurbano”, dove la superficie assume la nuova valenza di “piano orizzontale percorso da flussi materiali e immateriali che ne determinano la figura.”, per cui “più che a una crisi del modello urbano o delle periferie è dunque opportuno pensare a una trasformazione dell’urbano che si è disseminato ovunque, imponendo modelli uniformi, ma che al contempo è stato contaminato, destrutturato e cambiato dagli stili di vita e dai luoghi
166 M. Davis, op. cit
167 L. Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Derive approdi, Roma, 2006. 168 A. De Giorgi, op. cit. pp. 80-81.
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nei quali si è affermato.[…] Il volto multiforme della produzione, le differenziazioni assunte dal capitale incontrano in questa trasformazione il loro corpo più proprio”170. La metropoli è infatti soprattutto lo spazio di articolazione del lavoro sociale, cioè lo spazio dove si muove il lavoro vivo in quanto la abita, la transita, vi opera e vi produce. Il territorio è la convergenza di vita e produzione. La metropoli, in quanto spazio di riproduzione e spazio di produzione, coincidenza di tempo di vita e tempo di lavoro, non può che essere anche lo spazio di convergenza delle energie disperse del lavoro sociale diffuso. La produttività si estende oltre il lavoro, oltre i ritmi e i tempi definiti del lavoro, un’estensione metropolitana della produzione che coinvolge tutti i soggetti, nella loro interezza, con loro dinamiche soggettive e qualità sociali. Su questo territorio striato dai canali della valorizzazione del capitale, le cui traiettorie sempre più tendono a coincidere con quelle che striano la metropoli e che definiscono i percorsi della vita nello spazio urbano, si formano sacche di forza lavoro precaria, informale, forza lavoro potenzialmente in cooperazione. Un lavoro che soddisfa bisogni sociali, che produce “beni comuni”, servizi che sono a fondamento della costituzione materiale del vivere in comune, del vivere in società. Beni che realizzano una produzione sociale di soggettività. Beni che costituiscono le fondamenta del legame sociale, la forza attrattiva che tiene insieme la collettività sociale, che incorporano ed esprimono bisogni, relazioni, affetti, intelligenza collettiva. La cooperazione diffusa in una metropoli è una manifestazione di “intelligenza collettiva”171 dispiegata. E proprio l’accesso a questi beni, viene continuamente negato.
In America Latina le sfide maggiori al dominio delle élites sono nate dal cuore delle baraccopoli povere: dal Caracazo del 1989 fino alla comune di Oaxaca nel 2006. Prova di ciò sono le sollevazioni popolari di Asunción nel marzo del 1999, Quito nel febbraio del 1997 e gennaio del 2000, Lima e Cochabamba nell’aprile del 2000, Buenos Aires nel dicembre 2001, Arequipa a giugno 2002, Caracas nell’aprile del 2002, La Paz nel febbraio 2003 ed El Alto nell’ottobre del 2003, solo per citare i casi più rilevanti. Inoltre, le periferie urbane si sono trasformate negli spazi da cui i gruppi subalterni hanno lanciato le più incredibili sfide al sistema, fino a diventare qualcosa di
170 Ibidem, p. 16-17
171 Ci riferiamo qui al concetto proposto da Pierre Lévy in L’intelligenza collettiva: per un antropologia del cyberspazio, 1996, (p. 34), dove propone la seguente definizione:“L’intelligenza collettiva è un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze”.
Capitolo terzo: Produzione e trasformazione dello spazio nei rapporti di potere
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simile a contropoteri popolari. Il controllo dei poveri urbani è forse tra gli obiettivi più importanti che si siano posti sia i governi sia gli enti finanziari globali e le forze armate dei paesi più importanti. Gli slums, le favelas, le bidonville, le villas miseri, i ghetti sono quindi diventati una forma di vita complementare a quelle esistenti nel resto della città. Hanno proprie regole, consuetudini, relazioni e rapporti sociali. Ed è proprio su quest’ultimo punto che vale la pena insistere. È proprio nel (dis)ordine (“dis” vale per il potere, cioè come il biopotere legge le resistenze, “ordine” è un nuovo ordine, produzione del comune, biopolitica) degli spazi sconfinati delle “aree metropolitane” delle grandi città che va forse cercata la possibilità di sottrazione e di potenza costituente di nuove forme di vita: “alle “città fortezza” simbolo del potere e della paura dei ceti dominanti, corrispondono i territori promiscui, dei quartieri frontiera, veri e propri laboratori in cui si sperimenta il modo di sopravvivere e poi vivere in una realtà che spinge sempre più verso la marginalizzazione e l’esclusione. Ma il desiderio di vita è più forte di ogni tentativo di esclusione ed è soprattutto per questo che il territorio urbano odierno è oggetto di contesa e dunque di conflitto.”172.
Se Wallersetein173 vede nelle aree suburbane i luoghi della confluenza di alcune delle più importanti fratture che attraversano il capitalismo, cioè quelle della razza, di classe, di genere, e li definisce come i territori della “dispossession” quasi assoluta, Mike Davis li propone come “luoghi della speranza” e più contestualmente definisce “i sobborghi delle città del terzo mondo come il nuovo scenario geopolitico decisivo.”
Ciò che ci si propone nella ricerca empirica è il confronto tra queste due ipotesi, rispetto alle quali occorre però fare alcune precisazioni, relative alla difficoltà, sempre presente, di analizzare un contesto culturalmente differente dal nostro, applicando semplicisticamente le nostre categorie interpretative. In questo caso, ciò che costituisce la sottotraccia esemplificativa di periferia conflittuale è la rivolta delle banlieues parigine dell’ottobre del 2005: una rivolta che seppure ha destato molto clamore mediatico e ha stimolato numerose riflessioni, non si è affermata come il precedente costitutivo di nuove forme di vita autonome.
Al contrario si ritiene che i “quartieri” della città di Buenos Aires conosciuti nel corso della ricerca siano stati ciclicamente i luoghi di produzione del
172 Ibidem, p. 56.
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conflitto e di nuove forme di vita che soprattutto a partire dalla cirsi del 2001 hanno sfidato e in alcuni casi risolto il problema della sussistenza.
Il problema che si pone riguarda le qualità specifiche degli spazi urbani che rendono possibile l’appropriazione dello spazio (materiale, sociale, politico, relazionale) da parte delle nuove soggettività e dunque la sua tramutazione in quello che andiamo definendo come “spazio comune”, uno spazio la cui qualità viene prodotta e riprodotta dal conflitto e dall’organizzazione di forme di vita altre, che sfidano la marginalità e la segregazione ponendosi l’obiettivo di mutarne il segno.
Capitolo quarto: Lo spazio delle resistenze
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“Ciò che è politicamente comune deve essere costruito e non può che essere costruito attraverso la lotta, attraverso la presa di coscienza, attraverso la decisione di riappropriarsi del prodotto del lavoro comune”174 In diverso modo ci si è fin qui occupati di descrivere la società contemporanea, la sua genealogia, gli attori sociali, economici e politici che ne sono protagonisti.
Se, come abbiamo visto, si considera il potere in quanto rapporto e si sostiene, con Foucault, che dove vi è potere vi sia resistenza e ancora, dove vi è resistenza al potere vi sia produzione di soggettività e possibilità di trasformazione, entriamo ora nel vivo di tale possibilità. Scrive Foucault: “Come la trama delle relazioni di potere finisce per formare uno spesso tessuto che attraversa gli apparati e le istituzioni senza localizzarsi esattamente in essi, così la dispersione dei punti di resistenza attraversa le stratificazioni sociali e individuali. Ed è probabilmente la codificazione strategica di questi punti di resistenza che rende possibile una rivoluzione, un po’ come lo Stato riposa sull’integrazione istituzionale dei rapporti di potere”.175
Quindi, quello che si deve affrontare è la complessità delle risposte, ma soprattutto delle proposte, agite dalle resistenze.
4.1 “Nuovi” movimenti sociali
Va subito precisato che la categoria di “nuovi movimenti sociali”è innanzitutto sociologica. Fino agli anni ‘60, i movimenti sociali e l’azione collettiva furono aree di ricerca relativamente marginali nelle discipline delle scienze sociali. Fino ad allora, erano la storiografia sul movimento operaio e gli studi dei pensatori socialisti le principali fonti di ricerca sui fenomeni di mobilizzazione e protesta. La svolta nell’interesse accademico per i movimenti sociali si dovette, in grande misura, ai movimenti anticoloniali nonché all’esplosione di mobilitazioni in differenti luoghi del pianeta.
174 A. Negri, Dalla fabbrica alla metropoli. Saggi politici, Datanews, Roma, 2008, p. 13. 175 M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, p. 86.
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Non è questa la sede per un excursus storiografico sulla letteratura dei movimenti sociali, che peccherebbe di semplicismo; ci si limiterà dunque a segnalare concetti di riferimento generale che andranno poi problematizzati nello svolgimento della ricerca empirica.
Il teorico più importante dei nuovi movimenti sociali è stato Touraine che ha il grande merito di aver contribuito a reindirizzare il punto di vista dell’analisi, spingendo a considerare la società dal punto di vista delle istituzioni costituite, cosicché tutto ciò che risultava “non conforme” ad esse dovesse considerarsi solo in termini di deviazione, negativo. Egli scrive: “parlando di movimenti sociali e dei loro aperti conflitti si comprende meglio come si costituiscono il carattere chiuso delle istituzioni e l’ordine che esse mantengono, come i rapporti di produzione si traducano in rapporti di riproduzione.”176
Touraine propone una sociologia dell’azione secondo la quale la società è sempre un sistema, un’organizzazione, un insieme di istituzioni ma anche un insieme di azioni individuali in rapporto tra di loro che creano movimenti in continua tensione con le strutture consolidate. Il movimento sociale è il soggetto dell’azione e l’azione è concepita da Touraine come libertà anche se non è negato il condizionamento culturale, dallo sviluppo economico e dal sistema politico. I movimenti culturali vanno compresi in rapporto con l’ordine (le istituzioni) in quanto esso non è mai totale o totalmente chiuso: c’è sempre un piccolo spazio alla libera azione.
Per Melucci177, di cui Touraine fu maestro, un movimento sociale poteva essere definito come una forma di azione collettiva basata su una solidarietà, che esprime un conflitto, nella rottura dei limiti di compatibilità del sistema di riferimento dell’azione. I movimenti sociali si situerebbero così tra struttura e mutamento di un dato sistema storicamente determinato, mentre si costituiscono tendono, cioè, a parlare il linguaggio dei movimenti precedenti. Un movimento sociale, tende, secondo Melucci, alla ricostruzione del sistema intorno a nuove regole e procedure di funzionamento; oppure, in estrema ipotesi, alla costruzione ex novo di un altro sistema. L’ “azione collettiva”, invece, per quanto possa essere conflittuale, non fuoriesce mai dal quadro delle regole e delle procedure del sistema entro il quale costruisce la sua azione ed esprime la propria identità. Ciò che differenzia
176 A. Touraine, La produzione della società, Il Mulino, Bologna, 1975.
177 Si fa in particolare riferimento ad A. Melucci, L’invenzione del presente Movimenti sociali nelle società complesse, Il Mulino, Bologna, 1991.
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qualitativamente un movimento dall’azione collettiva è, allora, la natura della posta in gioco. Per i movimenti, la posta in gioco del conflitto è il superamento delle regole condivise del sistema; per l’azione collettiva, la posta in gioco non prevede che le cerchie del conflitto superino le frontiere delle regole condivise del sistema. Ne consegue che un movimento sociale non è la risposta ad una crisi “bensì l’espressione di un conflitto, tendente al valicamento dei limiti di compatibilità, dell’orizzonte assiologico e dell’equilibrio funzionale del sistema entro cui agisce e si esprime”178
Si possono ritrovare sempre secondo Melucci, alcune caratteristiche comuni ai movimenti degli ultimi decenni, a partire dalla grande rottura e potenza delle esperienze “globali” degli anni ‘60 e ‘70, quali la ricorrente tendenza alla generalizzazione della lotta e alla scarsa negoziabilità, non riconducibile cioè, immediatamente, alla mediazione politica (istituzionale). Ne derivano quindi, da un lato uno scarso interesse alla “presa del potere”, dall’altro, la tendenza all’autorganizzazione di spazi e tempi, la fine della separazione tra pubblico e privato, la sovrapposizione di devianza e movimenti, come se il dissenso assumesse per il potere istituzionale le sembianze della malattia (e in questo le analisi di Foucault possono venire in aiuto), la ricerca di partecipazione e di azione diretta, ovvero l’assumere la centralità del corpo accanto e a volte prima di quella della “parola” (intesa come discorso, ideologia, narrazione).
In definitiva, conseguentemente allo sviluppo dei “nuovi movimenti sociali”, Melucci, come buona parte della sociologia, mette in discussione il concetto di rapporti di classe, propendendo piuttosto per quello di stratificazione sociale, sottointendendo il fatto che i rapporti di produzione e la produzione in generale non possono più essere confinati al campo dell’economico. Egli sostiene che sia il campo delle opposizioni a rimanere costante e non gli attori.
Nella teoria elaborata da Francesco Alberoni si trova invece la seguente definizione di movimento collettivo: “Noi definiamo movimento collettivo il processo che ha inizio con lo stato nascente e termina con la sua fine”.179 Il collegamento che Alberoni opera tra “fenomeno collettivo di gruppo” e “stato nascente”180 impone che si chiarisca il significato che viene attribuito al
178 Ibidem, pp. 17-20.
179 F. Alberoni, Movimenti e istituzioni nell’Italia tra il 1960 e il 1970, in L. Graziano-S. Tarrow (a cura di), La crisi italiana, 2 voll., Torino, Einaudi, 1979, p. 235.
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concetto di stato nascente: “La comparsa dello stato nascente è... una mobilità specifica della trasformazione sociale. La comparsa dello stato nascente non esaurisce tutte le forme di trasformazione sociale... Ma vi è una modalità specifica di trasformazione sociale che richiede un passaggio di stato, e questo passaggio di stato è rappresentato dallo stato nascente... Lo stato nascente è un’esplorazione delle frontiere del possibile, dato quel certo tipo di sistema sociale, al fine di massimizzare ciò che di quella esperienza e di quella solidarietà è realizzabile per se stessi e per gli altri in quel momento storico. Ogni volta il gruppo di uomini entro cui si costituisce uno stato nascente tenta di costruire una modalità di esistenza totalmente diversa da quella quotidiana e istituzionale: ma nel far questo, proprio per esplorare questa possibilità, è costretto a scontrarsi con le forze concrete e storiche presenti e a diventare in tal modo esso stesso istituzione”181. Ancora: “A livello dell’individuo, lo stato nascente è un’esperienza straordinaria che interrompe la trama della vita quotidiana e le imprime un nuovo corso. È la scoperta della propria vocazione più profonda, del proprio destino. È una chiamata o una rivelazione. Ma può essere anche la nascita di un amore, una conversione religiosa, un’ispirazione artistica irresistibile, una decisione irrevocabile. Lo stato nascente è un’esperienza conoscitiva. È un conoscere, un vedere, uno svelarsi di ciò che era nascosto, un rivelarsi di ciò che già esisteva. Ma è anche una esperienza emozionale straordinaria, sconvolgente, entusiasmante ed appassionante”182.
Sono forse queste ultime osservazioni, tralasciandone l’enfasi quasi mistica, che ci avvicinano di più alle esperienze collettive che si andranno ad analizzare a breve, esperienze che si sono sviluppate nel contesto della grande crisi economica argentina del 2001, quindi, indubbiamente, non carenti di forte carica emotiva e soggettiva. Concludiamo, però, con una definizione estremamente semplice di “movimenti sociali” che si situa al di fuori della “letteratura specifica sull’azione collettiva, ovvero con le parole di Stanley Aronowitz che li definisce in quanto fenomeni che “trasformano la vita cambiando alcuni aspetti fondamentali delle relazioni sociali”183, relazioni oggettivate nella produzione materiale e nelle pratiche quotidiane.
181 F. Alberoni, Ibidem, pp. 235-236.
182 F. Alberoni, Genesi, Milano, Garzanti, 1989, Milano CDE Edizione, 1990. p. 17.
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